Negli anni '80 una grande trasformazione ha interessato il mondo della ricerca agricola: l'estensione dei diritti di proprietà intellettuale alle innovazioni riguardanti la materia biologica. Le implicazioni di questa rivoluzione per il futuro della produzione alimentare sono ancora poco discusse tra coloro che hanno a cuore la sorte del settore. Esse riguardano l'erosione del dominio pubblico in due ambiti particolarmente importanti: la conoscenza e le sementi.
La privatizzazione della ricerca e della materia biologica
Fino agli anni '80, le piante e gli animali, interi o nelle loro parti, non erano brevettabili. Ciò per varie ragioni, alcune attinenti alle caratteristiche della materia biologica ritenute in contrasto con i requisiti del brevetto industriale1. Era possibile, tuttavia, proteggere le nuove varietà vegetali tramite titoli speciali, riconosciuti dalla legislazione di alcuni paesi industrializzati. Nel 1961 le varie legislazioni nazionali per la protezione delle varietà vegetali furono inquadrate in una Convenzione internazionale, che costituiva l'UPOV (Union de Protection des Obteniteurs Vegetales) e riconosceva i cosiddetti "diritti dei costitutori", di coloro cioè che "costituiscono" una novità vegetale (plant breeders' rights, o, in breve, PBR). Questi si differenziano dai diritti brevettuali perché riconoscono due esenzioni fondamentali: l'esenzione dei ricercatori e quella degli agricoltori (chiamata anche "privilegio degli agricoltori"). Grazie alla prima, i ricercatori, anche se innovatori mossi da intenti commerciali, possono utilizzare liberamente, ossia senza necessità di autorizzazione e di pagamento di diritti, le nuove varietà a scopo di ricerca. Il privilegio degli agricoltori, a sua volta, permette all'agricoltore di usare, senza alcuna richiesta di licenza, parte del raccolto come semente per l'anno successivo, continuando in tal modo la sua attività informale di selezione2.
Le esenzioni previste dall'UPOV sono molto importanti ai fini della libertà di ricerca, della diffusione delle conoscenze e della conservazione della biodiversità. Esse sanciscono, anche a livello di regime di proprietà intellettuale, il riconoscimento di un'eccezionalità dell'agricoltura come attività produttiva legata alla materia vivente e ad un bisogno essenziale dell'uomo, l'alimentazione.
Nel 1980, negli Stati Uniti, sotto l'incalzare della nascente industria biotecnologica, l'applicabilità dei brevetti è stata estesa alle innovazioni riguardanti la materia vivente. Ciò è avvenuto non con un atto legislativo, ma con una sentenza della Corte Suprema sul caso, divenuto famoso, Diamond vs. Chakrabarty. Nella sentenza si sostiene che "il fatto che i microorganismi … siano vivi… (è) senza importanza legale" ai fini della legge sui brevetti. Dopo quella sentenza, negli Stati Uniti l'applicabilità dei brevetti è stata estesa (sempre per via giudiziaria) a tutte le forme viventi (eccetto l'uomo intero, almeno per ora) e alle loro parti (anche umane): cellule, sequenze geniche, genoma.
Anche nell'Unione Europea la direttiva 98/44/EC sulla "Protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche", del luglio 1998, introduce un regime di protezione brevettuale per le innovazioni biotecnologiche. Essa stabilisce la brevettabilità delle invenzioni che riguardano le piante, quando la loro applicazione non è confinata ad una particolare varietà3, ma ad una pluralità di varietà.
La legislazione europea è un atto dovuto nella misura in cui i paesi dell'UE (Unione Europea) aderiscono alla WTO (World Trade Organization). Tra gli accordi della WTO, infatti, ha una notevole importanza l'accordo sui TRIPs (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights), che sancisce l'obbligo di "rendere disponibili i brevetti per tutti i tipi di invenzioni, sia di prodotto che di processo, in tutti i campi della tecnologia" (art. 27.1) e di "provvedere alla protezione delle varietà vegetali o tramite brevetti o tramite un efficace sistema sui generis o tramite la combinazione dei due sistemi" (art. 27.3b). L'importanza dell'accordo dei TRIPs sta nel tentativo di estendere geograficamente, quasi a livello planetario (fanno infatti parte del WTO circa 150 paesi), l'obbligo di applicazione dei brevetti al settore farmaceutico e agricolo, che generalmente sono esclusi da quell'obbligo nei PVS.
La brevettazione delle innovazioni sul vivente ha due implicazioni principali per quanto attiene la produzione alimentare. Comporta una spinta verso la privatizzazione della ricerca per l'agricoltura e una privatizzazione delle risorse genetiche. La ricerca per l'agricoltura si sposta sempre più dalle università e dai centri pubblici alle imprese private, che restringono la circolazione delle conoscenze fino al momento in cui esse non sono incorporate in un'innovazione brevettata. Le grandi imprese agrobiotecnologiche, d'altra parte, hanno consolidato la loro posizione sui mercati acquisendo il controllo sull'industria sementiera e configurandosi come grandi oligopoli agrochimici, produttori, cioè di sementi transgeniche resistenti ai prodotti chimici da esse stesse prodotti.
Il dominio pubblico della conoscenza: una tragedia o una commedia?
I finanziamenti pubblici per la ricerca in agricoltura sono aumentati nel corso del XX secolo, alimentando vasti incrementi nella produttività del settore. Pardey e Beintema (2001) ricordano che con un leggero aumento della superficie coltivata (da 1,4 nel 1961 a 1,5 miliardi di ettari nel 1998), si alimentano oggi il doppio di persone di quarant'anni fa.
L'aumento di produttività che ha caratterizzato lo sviluppo agricolo nel XX secolo non deve essere dato per scontato. Esso è piuttosto "il risultato di un'interazione positiva fra agricoltori, produttori di input e un sistema di ricerca e di assistenza tecnica abbondantemente sostenuto da finanziamenti pubblici, che hanno prodotto e diffuso gratuitamente innovazioni e conoscenze" (Pardey e Beintema 2001: 1; corsivo dell’autore).
Con l'avvento delle nuove biotecnologie e con il rafforzamento dei regimi di proprietà intellettuale che le imprese biotecnologiche hanno sollecitato, la diffusione gratuita di conoscenze e di innovazioni sarà sempre più difficile e limitata, soprattutto nei paesi poveri.
Due ricercatori di biomedicina, Heller e Heisenberg (1998), hanno parlato del rischio degli anticommons, ossia degli ostacoli che si vengono a creare ai ricercatori quando conoscenze di base nella filiera innovativa sono brevettate già ad uno stadio iniziale del processo di ricerca. Al contrario della "tragedia dei commons", di cui ha scritto Hardin nel 1968, in questo caso è un eccesso di titoli di proprietà, che elevando i costi di transazione, crea ostacoli ad un efficiente funzionamento del mercato. Le imprese private di solito superano i problemi di anticommons con accordi per licenze reciproche sui propri brevetti. Questa soluzione risulta invece più difficile per i centri di ricerca pubblica, che non hanno una cultura di brevettazione delle loro innovazioni (ne è un esempio il caso del golden rice).
Vista da una prospettiva economica, la conoscenza è un bene intangibile, dotato delle caratteristiche di quello che gli economisti chiamano il "bene pubblico": "non rivalità" e "non escludibilità". Non rivalità significa che l'uso di un'idea da parte di più persone contemporaneamente non impedisce, ostacola o diminuisce l'uso che di essa può fare il suo primo creatore. Non escludibilità significa che colui che per primo ha concepito un'idea innovativa, non appena la comunica a qualcun altro ne perde la capacità di controllo (e di conseguenza gli è difficile appropriarsi dei benefici economici che possano derivare da eventuali applicazioni industriali o commerciali della "sua" idea).
Queste caratteristiche della conoscenza possono essere viste come un fattore positivo, dal punto di vista sociale, per le esternalità positive che esse creano; o negativo, perché sono un disincentivo alla ricerca privata. In assenza di protezione brevettuale, colui che ha investito in Ricerca e Sviluppo può, a causa dell'imitazione, perdere il controllo dei risultati della propria attività e non riuscire a recuperare i costi dell'investimento fatto.
Gli estremi del dilemma sono, dunque, come minimizzare i costi della diffusione dell'innovazione, che i brevetti tendono a far aumentare, pur creando o mantenendo un ambiente favorevole all'investimento privato?
L'equilibrio tra i due obiettivi è importantissimo: perché se si esagera "dal lato della protezione" si rischia di creare dei monopoli con poteri di controllo molto forte sulle attività innovative, che finiscono per ostacolare la nascita di nuovi creatori (questo è, secondo alcuni studiosi ed operatori, quanto è avvenuto con Microsoft). In mancanza di un certo livello di protezione, invece, si favoriscono i free riders se non addirittura il plagio e la pirateria.
La teoria economica non ha una risposta certa e definita a questi problemi. Si tratta, piuttosto, di verificare caso per caso, a livello empirico gli effetti di incentivo provocati dalla proprietà intellettuale contro i costi, in termini di efficienza sia statica, cioè i prezzi di monopolio, che dinamica, cioè ostacoli alla diffusione dell'innovazione e all'emergere di nuovi creatori, al perseguimento di obiettivi di lungo periodo, alla diversità di approcci e all'esplorazione di più campi del sapere, obiettivi che solo la ricerca pubblica può perseguire ( L'economia dell'innovazione ci ammonisce a tenere presente che le imprese private hanno incentivi sub-ottimali a produrre conoscenza. Solo il sistema pubblico può tenere conto dei vantaggi complessivi, individuali e collettivi (Malerba e Torrisi, 2003; Gambardella e Pammolli, 2003).).
Perciò, dal punto di vista teorico, le soluzioni più efficienti prevedono il ricorso ad un “insieme di strumenti” (Ostrom e Ostrom, 1977), come la produzione del bene da parte dello stato, finanziata con fondi pubblici (ad esempio, la produzione della conoscenza scientifica nelle università pubbliche) o interventi mirati a incentivare la produzione privata del bene e la creazione di un mercato dei beni pubblici in questione (l’assegnazione di diritti di proprietà), o, ancora, incentivi ad altre forme collettive di auto-organizzazione, nuovi esempi delle quali sono emersi nella creazione di software.
La privatizzazione e la creazione di mercati non è dunque l’unica alternativa efficiente, specialmente quando si tratti della produzione di beni pubblici, come la conoscenza, che hanno una lunga tradizione sia di produzione decentrata in istituzioni diverse dalle imprese, basata su motivazioni extra-economiche di «prestigio e curiosità intellettuale» (Gambardella e Pammolli, 2003), sia di ampia diffusione basata sul libero accesso.
L'articolo di Hardin ("The tragedy of the commons" 1968), sull'inefficienza della gestione collettiva dei commons, è molto noto e tanto citato dagli economisti. Meno noto e citato è invece l'articolo di Carol Rose "The comedy of the commons" (1986). L'Autrice illustra e analizza numerose situazioni empiriche, in cui la gestione collettiva dei beni comuni non è sfociata in tragedia, ma anzi ha garantito la conservazione del bene. Parimenti il volume di Elinor Ostrom (1990), Governing the Commons, mette in luce l’evoluzione delle istituzioni per l’azione collettiva, partendo dall’assunzione della capacità degli agenti di interagire tra loro, di auto-organizzarsi e di auto-governarsi. Il quadro si fa più complesso per l’apparire di forme diverse di organizzazione dell’azione economica, non assimilabili al mercato, all’impresa o allo stato. La stessa letteratura sociologica ed economica sui network (spesso basata sull'analisi dei network innovativi) delinea le caratteristiche delle "reti" come una peculiare forma organizzativa in cui la fiducia e le relazioni interpersonali hanno un ruolo di primaria importanza.
Scopriamo così qualcosa di banale: nella storia non mancano esempi di produzione di beni pubblici, fuori dal mercato, senza l’incentivo del compenso economico derivante da un titolo di proprietà. Ma anche oggi, nella società dell'informazione, sono emersi nuovi esempi di forme organizzative, che hanno suscitato grande interesse tra gli economisti. Ci riferiamo ai casi di produzione di conoscenza libera su Internet, come le reti di collaborazione “tra pari” (peer-to-peer), fuori degli schemi organizzativi del mercato e dell’impresa.
Nella letteratura economica sulle agrobiotecnologie, sembra invece prevalere l'opinione che la privatizzazione della conoscenza sia l'unica strada per il progresso scientifico e tecnologico.
La spesa pubblica per la ricerca agricola e lo stock di conoscenze accessibili liberamente o a basso costo vanno diminuendo. C'è da chiedersi se la ricerca privata saprà servire altrettanto bene l'interesse pubblico nei paesi ricchi e soprattutto in quelli poveri. In gioco non è solo il progresso scientifico e tecnologico o il livello più o meno alto di benessere, ma la soddisfazione di un bisogno primario, ancora oggi non garantita, per quantità o qualità, ad oltre un quinto degli abitanti della terra.
Le sementi come "beni collettivi"
Il rafforzamento dei regimi di proprietà intellettuale, sostenuto dai grandi monopoli dell'industria biotecnologica, minaccia un altro dominio collettivo importante dal punto di vista dell'agricoltura: la riproduzione delle sementi.
Pur non essendo intangibile, come la conoscenza, la semente è una risorsa fisica particolare. E' materia vivente, che si riproduce con facilità. Presenta in qualche misura le caratteristiche dei beni pubblici: è difficilmente appropriabile e scarsamente rivale. La sua produzione è poco costosa e, nella lunga storia dell’agricoltura, è sempre stata una risorsa ampiamente distribuita. La capacità innovativa nel miglioramento delle varietà vegetali ed animali, sia quella informale degli agricoltori, che quella formale, portata avanti nelle università, è stata, per lungo tempo, basata su un modello di produzione decentrato, cooperativo e inclusivo, che ha contribuito alla conservazione e allo sviluppo (piuttosto che all’esaurimento) del numero di specie e varietà, ossia della biodiversità. Questo modello è ancora dominante in tante comunità di agricoltori in numerosi paesi, soprattutto quelli in via di sviluppo, e nei centri di ricerca pubblici, sebbene sempre più minacciato.
È opinione comune degli esperti, che la biodiversità è, invece, diminuita con l’industrializzazione dell’agricoltura e con la Rivoluzione Verde (Esquinas Alcàzar, 1991). Entrambe sono state accompagnate da innovazioni istituzionali, che hanno introdotto forme di appropriazione esclusiva delle sementi, basate su misure legislative (Plant Variety Protetion Act) o sul segreto commerciale (nel caso delle varietà ibride). La diffusione delle agrobiotecnologie rafforza questa tendenza, per il modello tecnico (basato sulle monocolture industriali) e istituzionale (l’introduzione del brevetto sulle innovazioni riguardanti la materia vivente), che esse promuovono.
Le multinazionali agrobiotecnologiche hanno portato avanti le loro strategie di concentrazione lungo due vie. Hanno acquisito le principali imprese sementiere, fino alla scomparsa di una industria sementiera indipendente dall’industria agrochimica. Hanno organizzato una forte azione di lobbying per il rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale esclusivi, che ha riguardato sia il germoplasma, sia le conoscenze ad esso associate, con due conseguenze molto negative dal punto di vista ambientale e sociale: la negazione del diritto secolare degli agricoltori di riutilizzare parte del proprio raccolto come semente, l’appropriazione da parte del detentore del titolo di proprietà delle innovazioni e delle conoscenze incorporate nelle varietà tradizionali (Tsioumanis et al., 2003).
L’attribuzione di titoli di proprietà sulle invenzioni biotecnologiche, divenuta un obbligo con l’accordo sui TRIPs del Gatt, è, d’altra parte, all’origine di una nuova forma di scambio ineguale nel mercato delle risorse genetiche. Il prezzo valorizza e, quindi, remunera le nuove tecnologie, ma non la materia prima e le innovazioni tradizionali incorporate nelle sementi o nel materiale genetico utilizzato per le trasformazioni.
Il tentativo di creare un mercato globale delle risorse genetiche porta con sé una doppia minaccia: una di natura più specificamente ambientale, l’erosione della biodiversità; l’altra di natura economico-sociale, l’erosione delle risorse genetiche come dominio pubblico e/o collettivo. Sebbene così formulate sembrino minacce molto astratte, la posta in gioco è molto elevata: riguarda l’equilibrio della vita sul pianeta e la sopravvivenza di milioni di agricoltori poveri, che attorno alle risorse genetiche hanno costruito un sistema complesso di sussistenza e di relazioni sociali, che non risponde alle regole del mercato.
Riferimenti bibliografici
-
Esquinas Alcazar J. (1991), «Un sistema globale per la difesa delle risorse genetiche vegetali». Intervista a cura di Maria Fonte, La Questione Agraria, 44: pp. 49-66.
-
Fonte M. (2004), Organismi geneticamente modificati: monopolio e diritti, Franco Angeli, Milano.
-
Fonte M. (2004), "Proprietà intellettuale e dominio pubblico: il caso delle agrobiotecnologie", QA-La Questione Agraria, 3: 129-154.
-
Gambardella A., Pammolli F. (2003), «L’economia della conoscenza tra sistema pubblico e incentivi privati», in Malerba (a cura di), Economia dell’innovazione, Roma, Carocci.
-
Hardin G. (1968), «The Tragedy of the Commons», Science, vol. 162,.
-
Heller M.A., Eisenberg R.S. (1998), «Can Patent Deter Innovation? The Anticommons in Biomedical Research», Science, vol. 280, disponibile sul sito [link al sito]
-
Malerba F., Torrisi, S. (2003), <<La politica pubblica>>, in Malerba (a cura di), Economia dell'Innovazione, Roma, Carocci.
-
Ostrom, E. (1990), Governing the Commons, Cambridge University Press, Cambridge.
-
Ostrom, V., Ostrom, E. (1977), <<Public Goods and Public Choices>>, Workshop in Politic Theory and Policy Analysis, Indiana University, disponibile sul sito [link al sito].
-
Pardey, P.G., Beintema, N.M. (2001), <<Slow Magic. Agricultural R&D. A century after Mendel>>, Iffpri Food Policy Statement, n. 36, dic.
-
Rose, C. (1986), <<The Comedy of the Commons: Custom, Commerce and Inherently Public Property>>, 53 University of Chicago Law Review, pp. 711-714.
-
Tsioumanis, A., Mattas, K., Tsioumanis, E. (2003), <<Is Policy Towards Intellectual Property Rights Addressing the Real Problems? The Case of Unauthorizes Approvationm of Genetic Resources>>, Journal of Agriculture & Environmental Ethics, 16, 6.
- 1. Nelle legislazioni dei diversi paesi, sono generalmente considerati come "materia oggetto di brevetti" "un manufatto", una "composizione di materia" o un "prodotto dell'ingegno dell'uomo". E' difficile classificare le piante o, più in generale, ogni organismo vivente, in una di queste categorie. E' aperta alla discussione anche la questione se una nuova varietà risponde al requisito della "novità" richiesto dalla legislazione brevettuale
- 2. Tali esenzioni, molto ampie fino al 1990, sono state limitate con l'Atto UPOV 1991. Si ritiene che le restrizioni siano una risposta alla "pressione competitiva" dei brevetti come strumento di protezione e al clima generale tendente ad un rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale.
- 3. Nel caso di applicazione dell'innovazione ad una sola varietà, questa può essere protetta dal certificato del plant breeder, secondo l'Atto del 1991 (Reg. 94/2100, Privativa comunitaria per ritrovati vegetali).