Riflessioni sulla futura politica agricola europea

Riflessioni sulla futura politica agricola europea

Abstract

Il rinnovo nel 2019 della Commissione e del Parlamento europeo ha coinciso con un cambiamento nella strategia dell’Unione europea in cui l’ambiente, la crisi climatica, la sostenibilità economica, sociale e territoriale sono imposti come obiettivi prioritari. Le proposte di riforma della PAC, messe a punto dalla precedente Commissione, sono apparse subito poco adeguate a rispondere alle nuove sfide. Ciò nonostante, per ragioni di opportunità, sono state confermate e il trilogo si è concluso tentando, per quanto possibile, tra interessi contrastanti, di smussare il contrasto. Alcune incoerenze e numerosi problemi, comunque, restano, in un quadro complessivo segnato dalla complessità.
Questo articolo si sofferma sugli aspetti più rilevanti della futura PAC e delinea alcune chiavi di lettura della PAC, nella sua vicenda storica.

Il Green Deal e la futura PAC

È in corso la stesura definitiva dei regolamenti relativi alla politica agricola europea per il quinquennio 2023-2027. L’approvazione definitiva dei testi conseguenti all’accordo conclusivo del lungo trilogo (tra Commissione, Consiglio e Parlamento europei) è attesa per il prossimo novembre. Nel frattempo, nei singoli Stati membri dell’Unione è in corso la stesura dei rispettivi Piani strategici nazionali. Essi dovranno essere presentati a Bruxelles entro il 31 dicembre 2021. Successivamente, la Commissione avrà sei mesi di tempo per approvarli e renderli esecutivi in tempo per essere definitivamente operativi dal 1° gennaio 2023.
Si concluderà in questo modo un lunghissimo iter iniziato il 29 novembre 2017, giorno in cui il Commissario dell’epoca, l’irlandese Phil Hogan, ha presentato il testo “Il futuro dell’agricoltura” con le prime proposte per il settennio 2021-2027, al quale hanno fatto seguito, il 1° giugno 2018 le Proposte legislative per la futura politica agricola e di sviluppo rurale. Queste avrebbero dovuto essere emendate e approvate, nel trilogo tra Consiglio, Parlamento e Commissione, entro il 2018. Solo in questo modo sarebbero potute diventare operative il 1° gennaio 2021, come originariamente previsto. Si sarebbe così evitato di incappare nell’interruzione dei lavori connessa ai rinnovi del Parlamento europeo e della Commissione. Le elezioni si sono infatti tenute tra il 23 e il 25 maggio 2019, mentre la nuova Commissione è entrata in carica il 1° dicembre dello stesso anno.
Come è noto, però, è stato di fatto impossibile convergere verso un accordo in tempi così stretti sia sui contenuti della futura PAC e, ancora peggio, sul più generale tema del bilancio dell’Unione europea. Una questione resa ancora più complessa dalla Brexit e dalla conseguente contrazione delle disponibilità di bilancio (13 miliardi di euro l’anno in meno) della Gran Bretagna, in quanto contributrice netta. Così, come è noto, l’avvio della nuova PAC è stato procrastinato di due anni, mantenendo in vigore la vecchia PAC 2014-2020 fino alla fine del 2022.
La ripresa dei lavori si è caratterizzata per un significativo cambiamento di scenario. Ne è stata protagonista la nuova Commissione guidata da Ursula Von Der Leyen che, dieci giorni dopo il suo insediamento, l’11 dicembre 2019, ha lanciato il Green Deal europeo, un vasto programma quinquennale, della durata dunque dell’intero suo mandato, finalizzato a prendere atto del fatto che l’Unione europea è di fronte a cambiamenti epocali: tecnologici, commerciali, organizzativi. Questi si accompagnano a una ridefinizione a livello internazionale degli obiettivi per il futuro, rispetto ai quali tutte le politiche sono chiamate a conformarsi. L’accordo di Parigi COP21 sui cambiamenti climatici è stato formalmente ratificato dall’UE nel 2016. Così anche gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile (SDG) dell’ONU sono stati formalmente adottati dall’Unione nel 2019.
Il Covid19 ha imposto ulteriori cambiamenti di rotta in materia di difesa della salute, ma anche in termini di rilancio e di sostegno a quelle parti dell’economia, della società e del territorio che sono state più penalizzate. Con il Next Generation EU sono maturate le condizioni per un avanzamento del progetto di consolidamento dell’Unione europea. Anche la nomina di Mario Draghi a capo del Governo italiano sta spingendo, auspicabilmente, in questa direzione, mentre emergono nuovi fabbisogni e nuove priorità.
Il Green Deal europeo, facendosi opportunamente interprete dei cambiamenti in corso e degli impegni internazionali sottoscritti dall’Unione europea, configura una strategia complessiva, dalla quale derivare gli obiettivi di lungo periodo e le direzioni da assumere in termini operativi. La strategia Farm to Fork e la strategia europea per la biodiversità al 2030, pubblicati successivamente, specificano il Green Deal con riferimento alle politiche tra le quali rientra quella per l’agricoltura e lo sviluppo rurale.
La strategia Farm to Fork delinea anche un “new decision making level”, una nuova modalità di formazione delle decisioni. In base alla quale la politica agricola esce, almeno nelle intenzioni della Commissione europea, dalla sua condizione di isolamento rispetto alle altre politiche comuni europee e si inquadra opportunamente in un sistema complessivo di obiettivi di lungo termine relativi a salute e sicurezza alimentare, ambiente, concorrenza, cooperazione internazionale, mercato interno, commercio.
In queste condizioni, la vecchia proposta Hogan del 2017/2018 di riforma della Politica agricola europea, interprete piuttosto di una strategia di continuità con il passato dell’Unione e della stessa PAC, avrebbe dovuto essere ritirata dalla Commissione per presentare una nuova proposta più coerente con il Green Deal e le strategie Farm to Fork e per la biodiversità. Ma ragioni di opportunità (il tempo necessario a predisporre un testo alternativo e le resistenze subito palesatesi in Consiglio e nel Parlamento europeo) hanno suggerito di mantenere il vecchio testo mirando a adeguarlo, per quanto possibile, alla nuova strategia. Nella stessa direzione ha operato certamente anche il timore, da parte della Commissione, delle iniziative che le potenti lobby agricole e agro-alimentari avrebbero potuto prendere in difesa della vecchia proposta.
Indubbiamente, leggendo le conclusioni del trilogo, magistralmente qui riassunte nell’articolo di Maria Rosaria Pupo D’Andrea, si percepisce che in molti punti controversi la Commissione ha ottenuto indubbi risultati, in questo spalleggiata dalle componenti più innovatrici del Parlamento europeo e dall’atteggiamento di apertura di alcuni Stati membri (in testa Germania e Francia) dove il peso crescente dei partiti verdi e riformisti ha giocato indubbiamente un ruolo nell’imminenza delle elezioni (quest’anno in Germania, e il prossimo in Francia). Ma si comprende che, anche nella migliore delle ipotesi riguardo alle decisioni ancora da assumere con i Piani strategici nazionali, nella futura PAC resteranno molti dei limiti di fondo che ne hanno segnato la storia fin dai tempi della sua istituzione.
Ci si concentrerà qui di seguito sulle tre principali caratteristiche della futura PAC: il nuovo modello di gestione, il mantenimento del sistema dei pagamenti diretti e la nuova architettura verde. Per poi proporre alcune riflessioni generali sui citati limiti di fondo che connotano la PAC in tutta la sua storia.

Il nuovo modello di gestione della PAC

Avremo, dunque, innanzitutto ventisette Piani strategici nazionali, conseguenti a quello che è stato chiamato il “new delivery model”. Il passaggio da una PAC fondata sugli adempimenti (compliance), in cui Bruxelles dettava dal centro le modalità applicative delle singole misure di politica agraria, ad una PAC basata sulle performance, in cui sono gli Stati membri a definire e gestire le misure da adottare tanto per il primo che per il secondo pilastro, presentando a Bruxelles i risultati conseguenti, misurati con un set di indicatori (di contesto, di output, di risultato e di impatto). È questa soluzione il preludio di una rinazionalizzazione della politica agricola comune? In grande misura lo è, con gli inevitabili effetti distorsivi sul mercato comune europeo. È una scelta che si pone in continuità con la scelta, già operata nella PAC 2014-2020, di trasferire agli Stati membri numerose decisioni che, creando vantaggi competitivi artificiali, impattano negativamente sul mercato unico. Questa volta, comunque, si va ben oltre quelle concessioni.
Riuscirà Bruxelles a coordinare la futura politica agricola europea in queste condizioni? Riuscirà in altre parole a conservare “comune” la politica agricola comune? La questione solleva più di un dubbio. Il coordinamento è connesso alla capacità degli indicatori adottati di misurare effettivamente e incontestabilmente i risultati prodotti dalle politiche messe in atto e dalla effettiva capacità di Bruxelles di sanzionare gli inadempienti e premiare i virtuosi. Due condizioni entrambe non facili da realizzarsi in pratica.
Il rischio che il “new delivery model” si riveli un fallimento, che ogni Stato membro vada per proprio conto è molto elevato. L’esperienza della PAC 2014-2020 suona piuttosto a conferma che a smentita di questa infausta previsione. È facile immaginare che, ove questo accadesse, prendendo atto dell’incapacità di coordinarla, l’Unione europea possa essere indotta a trasferire definitivamente ed esplicitamente la politica agricola post-2027 agli Stati membri, affidando loro anche l’ultima incombenza rimasta comune: quella di finanziarla con il proprio budget. Una circostanza, va detto per inciso, nella quale l’Italia avrebbe comunque un significativo risparmio di bilancio, in quanto la sua contribuzione alle casse comuni è percentualmente maggiore della sua fetta nel bilancio della PAC.
È ovviamente impossibile sapere quale fosse il fine ultimo della vecchia Commissione quando ha avanzato la proposta del “new delivery model”, ma non sarei portato ad escludere del tutto che la soluzione della rinazionalizzazione della PAC, seppure implichi la rinuncia di Bruxelles alla politica che ha avuto un ruolo fondativo dell’Unione europea, possa essere apparsa una soluzione praticabile, sia pure con tempi dilazionati a dopo il 2027, per rendere disponibile quel 30% circa di fondi del bilancio dell’Unione europea, attualmente devoluti alla PAC. Una dotazione finanziaria fondamentale che potrebbe essere destinata in futuro alle nuove incombenti priorità senza costringere gli Stati membri ad aumentare la contribuzione attuale.

I pagamenti diretti

La PAC fondata sui pagamenti diretti, seppure riformulati su nuove basi, sarà dunque confermata. Così anche la suddivisione della PAC in due pilastri: il primo per pagamenti diretti e politiche di mercato, il secondo per la politica di sviluppo rurale. Questa è una decisione che si pone in linea di continuità con il passato e che trascura di prendere in considerazione i ricorrenti suggerimenti della comunità scientifica (per citarne alcuni: Buckwell et al., 2017; Matthews, 2017), della Corte dei Conti europea (European Court of Auditors, 2018) e di tanti studi in merito realizzati per conto della Commissione e del Parlamento europeo (European Parliament, 2016). La conservazione dei pagamenti diretti si iscrive in una concezione dell’agricoltura che considera il settore come costituzionalmente incapace di reggere al confronto con il mercato. Per cui l’impresa agricola (anche la più efficiente dal punto di vista tecnico e meglio gestita sotto il profilo economico) necessita di un sistematico e consistente sostegno congiunturale finalizzato a coprire il differenziale di reddito rispetto a quanto accade in altri settori dell’economia.
L’agricoltura invece, se sostenuta da politiche di lungo periodo che affrontino i “fallimenti del mercato” e che paghino su base contrattuale i servizi ambientali che essa produce per la collettività, è potenzialmente in grado di remunerare i fattori di produzione in maniera adeguata e compatibile con quanto avviene in ogni altro settore dell’economia. Lo dimostra il relativo successo registrato nel tempo dai comparti dell’agricoltura stessa che sono stati meno o per niente sovvenzionati con aiuti diretti al reddito ma con politiche più mirate ad obiettivi strategici, come vino, ortofrutta, fiori, prodotti avicoli, agriturismo. Dove gli agricoltori hanno saputo farsi imprenditori al passo con i tempi mirando all’efficienza e alla competitività.
Non tragga in inganno la nuova denominazione attribuita al pagamento di base: “sostegno al reddito per la sostenibilità”. A dispetto della terminologia strumentalmente utilizzata, non si tratta di un sostegno né al reddito, né alla sostenibilità. Non è un sostegno al reddito perché è concesso e calcolato indipendentemente dal reddito del percettore, tanto che si concentra nelle tasche dei più ricchi e lascia le briciole in quelle dei più poveri. Una circostanza che sarà leggermente attenuata, ma non risolta dall’introduzione obbligatoria del cosiddetto “sostegno ridistributivo complementare al reddito per la sostenibilità”, il vecchio pagamento “per i primi ettari”, al quale sarà riservato il 10% del plafond complessivo. I principali percettori, d’altra parte, non sono neanche agricoltori, ma concentrazioni finanziarie (De Groen, Musmeci et al., 2021) o colossi dell’agro-business come AgroFert (256 società: chimica, agro-alimentare, media, trasporti e silvicoltura), controllata da Andrej Babiş, primo ministro nella Repubblica Ceca, che con 103 mila ettari complessivamente controllati e 5.200 dipendenti produce 840 mila tonnellate/anno di produzione agricola (Chouquer, Maurel, 2021).
Allo stesso modo, se fosse un pagamento per la sostenibilità, sarebbe calcolato in rapporto ai costi in più e ai ricavi in meno per l’agricoltore, in relazione alle pratiche di cura dell’ambiente che gli si impone di adottare. Invece, fin qui è stato calcolato con riferimento ai pagamenti diretti ricevuti in passato dallo stesso beneficiario e, in prospettiva, sarà costituito da un importo fisso per ettaro, rivelando esplicitamente in questo modo la sua natura di rendita. Non si trascurino le conseguenti implicazioni di un tale pagamento. Innanzitutto, contribuisce ad accrescere i valori fondiari e i costi d’uso della terra, ostacolando l’ampliamento delle aziende e l’accesso alla terra per i nuovi agricoltori.

La nuova architettura verde

Grande enfasi è stata data alla cosiddetta “new green architecture” il sostengo ambientale e al contrasto/adattamento al cambiamento climatico fondato su tre misure: l’eco-condizionalità, gli eco-schemi e le misure agroambientali della politica di sviluppo rurale. Se fosse stato possibile ritirare l’originale proposta di Hogan, il confronto si sarebbe sviluppato probabilmente sulla razionalità di questa triplicazione. Ci si sarebbe chiesti se ha ancora senso la cross-compliance, una soluzione green la cui funzione primaria è di giustificare i pagamenti diretti nella forma, nell’entità e nella distribuzione che hanno. Si sarebbe dedotto che sarebbe migliore una politica agro-ambientale fondata sulla direct-compliance: il pagamento cioè su base contrattuale degli impegni agro-ambientali finalizzato a remunerare gli agricoltori degli oneri conseguenti.
Ci si sarebbe anche chiesto, dopo l’esperienza fallimentare del greening nella politica agricola corrente, se fosse proprio il caso di insistere con gli eco-schemi nel primo pilastro. Si è sostenuto che si tratta di un “greening rafforzato”. Indubbiamente la formula degli eco-schemi è decisamente migliore di quella del greening, ma il diavolo è nei dettagli ed è notevole il timore che la delusione si ripeta tra esenzioni (nel vecchio greening la maggior parte degli agricoltori non doveva fare niente per beneficiarne), inclusioni negli eco-schemi di pratiche che hanno poca o nulla valenza ambientale e deroghe. L’azione di annacquamento è già cominciata a livello europeo e si sta trasferendo nelle trattative per i Piani strategici nazionali. Occorre stare particolarmente accorti per salvare la sostanza rispetto all’apparenza.
Per non dire della estrema complessità della gestione delle tre formule e del rischio di sovrapposizioni e duplicazioni. La domanda cui rispondere è la seguente: c’era proprio bisogno di questa triplicazione nella “green architecture”? Non sarebbe stato più opportuno e più semplice trasferire tutti i fondi green nel secondo pilastro e inquadrare tutta la politica agro-ambientale nei programmi di sviluppo rurale?
Sarebbe stato questo un modo con cui si sarebbe potuta spostare l’attenzione sul funzionamento del secondo pilastro, per affrontare in modo più diretto le disfunzioni che lo penalizzano, per renderlo più efficiente ed efficace, invece di concentrare l’attenzione pressoché esclusivamente sui pagamenti diretti e su come giustificarne la perpetuazione.

I limiti che restano alla PAC

La PAC che si profila per il periodo 2023-2027, pur nelle novità positive che comunque ci sono, sarà dunque ancora una volta una PAC complessivamente inadeguata ai compiti che dovrebbero esserle assegnati: quelli conseguenti, oggi e per i prossimi cinque anni, agli obiettivi complessivamente delineati con il Green deal e con le strategie Farm to Fork e per la biodiversità. Tre elementi continueranno a caratterizzarla: “perennità”, “invarianza” e “eccezionalità”.
La perennità consiste nella sua permanenza (fino ad oggi e almeno fino al 2027) con un peso e un ruolo rilevanti tra le politiche europee. Per adattarsi ai tempi, la PAC è profondamente cambiata negli anni. Siamo passati dai prezzi garantiti, alle compensazioni, poi dai pagamenti accoppiati ai pagamenti unici aziendali, infine ai pagamenti frazionati per obiettivi in pagamento base, greening, giovani. Nel 2023-2027 i pagamenti diretti saranno nuovamente frazionati in “sostegno di base al reddito per la sostenibilità”, “sostegno ridistributivo complementare al reddito per la sostenibilità”, “sostegno complementare al reddito per i giovani agricoltori”, “regime per il clima e l’ambiente” (eco-schemi), “sostegno accoppiato al reddito”.
Si era partiti con una politica centralistica e di mercato, esclusivamente settoriale ed essenzialmente protezionistica. Si è introdotto un secondo pilastro guidato da una programmazione pluriennale a vocazione territoriale con obiettivi strategici riferiti alle strutture, all’ambiente e ai contesti socio-economici dei territori rurali. Recentemente anche i pagamenti diretti sono stati in grande misura definiti e adattati alle esigenze nazionali.
Sono diminuiti gradualmente i fondi (che comunque nel Quadro finanziario poliennale 2021-2027 rappresentano ancora il 28,5% dell’intero bilancio UE), così come, d’altra parte, sono diminuiti ancora di più gli agricoltori. Si è infine adottato il principio di una distribuzione dei pagamenti diretti su base storica per poi convergere gradualmente verso pagamenti ad ettaro uguali tra Stati membri e tra beneficiari.
Dopo quasi sessantacinque anni dalla sua istituzione con il Trattato di Roma del 1957, nonostante le critiche che le sono piovute addosso e che l’hanno sottoposta a serie minacce (es.: Sapir, 2003), la PAC è ancora assegnataria di una consistente fetta del bilancio europeo. Difesa da una potentissima convergenza di lobby di settore e di interessi nazionali, la sua perennità è il risultato fin qui di una inscalfibile path dependency.
L’invarianza. Al tempo stesso, la PAC è una politica che, per altri aspetti non è mai cambiata. E questo, a nostro avviso, è ciò che più conta. È rimasta invariata la sua preminente proiezione al breve termine con pagamenti essenzialmente annuali, volti inizialmente a garantire prezzi alti, poi a compensare le minori protezioni di mercato, infine a garantire redditi aggiuntivi, mancando invece di affrontare, se non marginalmente, i problemi strutturali dell’agricoltura e dei sistemi agro-alimentari. A scapito soprattutto delle agricolture più deboli e delle produzioni agricole non protette come gran parte di quelle mediterranee.
Non è cambiata la natura della PAC di prevalente sostegno alla rendita (di pochi grandissimi percettori) prima che all’impresa agricola e alla crescita imprenditoriale complessiva. Questa è una peculiarità resa ancora più evidente dalla recente decisione di convergere, in prospettiva, verso un pagamento uniforme per ettaro di superficie agricola. Al tempo stesso, la distribuzione della parte preponderante del sostegno tra singoli beneficiari, tra tipologie di agricoltura e tra Stati membri e territori è ancora sostanzialmente condizionata dalle scelte operate negli anni Sessanta.
Ne risultano premiate in modo particolare: (a) l’agricoltura continentale a scapito di quella mediterranea; (b) le agricolture di pianura e delle grandi estensioni, rispetto alle agricolture di collina e montagna; (c) le agricolture estensive e ad alta meccanizzazione (e quindi ad alti consumi di energie non riproducibili), rispetto a quelle intensive di lavoro e ad alto valore aggiunto; (d) le agricolture orientate piuttosto alla produzione di commodity standardizzate, che ai prodotti tipici e di alta qualità; (e) le agricolture che producono esclusivamente prodotti agricoli e non quelle che, diversificando, integrano le produzioni agricole con la fornitura di servizi agrituristici, culturali, sociali, ambientali, commerciali.
L’eccezionalità. Infine si è sempre confermata l’eccezionalità della PAC nell’Unione europea. La PAC è nata precedendo di decenni tutte le altre politiche, restando poi per circa venticinque anni l’unica politica europea in campo economico e sociale. La sua conservazione e la sua continuità è stata assicurata di conseguenza anche da ragioni politiche sovraordinate alle tematiche settoriali. Se, per una qualsiasi controversia tra gli interessi nazionali, la PAC fosse stata abbandonata, si sarebbe persa l’opportunità di mantenere vivo l’intero progetto comune europeo. Paradossalmente, così, le decisioni riguardanti il settore, proprio perché hanno assunto un ruolo politico di grande importanza nello svolgimento dell'avventura europea, hanno finito per essere costrette in un gioco di veti e concessioni che ne hanno condizionato lo sviluppo, privilegiando le richieste più immediate e gravando pesantemente sul bilancio comune.
Successivamente, tutte le riforme più importanti che l’hanno riguardata sono state adottate, anche nella tempistica, in condizioni di separatezza dai grandi momenti riformatori dell’Unione: la riforma Mac Sharry nel 1992, quattro anni dopo la grande riforma dei fondi strutturali e l’introduzione della multi-annualità del bilancio; la riforma Fischler nel corso della Mid term review del 2003, il suo completamento a seguito dell’Health check del 2009. Anche per colpa dei governi nazionali e delle istituzioni europee, che hanno scelto spesso di occuparsi di altro, questa condizione ha assicurato il consolidamento in sua difesa di un blocco sociale potentissimo che le ha consentito di non integrarsi e di non doversi confrontare con le altre priorità dell’Unione.
I documenti strategici sul futuro dell’UE della precedente Commissione, quelli che avrebbero dovuto fare da base di riferimento per il disegno della proposta di riforma della PAC, neanche la menzionavano (Commissione europea, 2017). Quegli stessi documenti indicavano invece per l’Unione diverse altre priorità: sicurezza, gestione dell’immigrazione, controllo delle frontiere, contrasto al terrorismo, difesa, lotta alle discriminazioni, occupazione e rilancio economico, riduzione del divario sociale ed economico tra paesi, riforme strutturali, stabilizzazione macroeconomica, transizione verso modelli di crescita sostenibili. L’unico riferimento alla PAC lo si rinveniva nel documento di riflessione sul futuro delle finanze dell’UE, dove se ne criticavano soprattutto i costi (European Commission, 2016). Ciò nonostante, alla PAC sarà ancora riservato quasi il 30% del bilancio dell’Unione, senza chiederle di integrarsi con tutto il resto, quasi accettando la sua separatezza come un dato di fatto.
Basta osservare che nei testi di avvio del confronto sulla PAC, che ha condotto alle proposte originali della precedente Commissione, successivamente confermate dalla attuale, la parola “riforma” non compariva affatto. Si preferiva parlare di “modernizzazione” e “semplificazione”. In queste circostanze, il risultato finale scaturito dal trilogo per gli anni 2023-2027 può essere considerato anche più innovativo di quanto non si fosse autorizzati a temere inizialmente.

Considerazioni conclusive

A conclusione di questo breve excursus sulle peculiarità della PAC e sulle novità che si prefigurano per i futuri cinque anni di programmazione europea, resta una domanda alla quale tentare di rispondere. Cosa ha consentito il perpetuarsi nelle condizioni di perennità, invarianza ed eccezionalità che abbiamo descritto e che hanno condizionato così pesantemente anche questa tornata di negoziazioni? Due sono a nostro avviso i fattori determinanti.
Il primo è certamente la miopia delle lobby e dei circoli agricoli e non agricoli (beneficiati dalla vecchia PAC e interessati alla sua conservazione). I quali sono propensi (salvo poche eccezioni) più ad assicurarsi la fetta più ampia possibile del budget e ad assicurare il mantenimento della sua iniqua distribuzione, che ad avviare un confronto su come il budget può essere efficientemente, efficacemente ed equamente impiegato.
Il secondo fattore è lo scarso impegno negli ultimi decenni dei governi nazionali per una strategia di avanzamento della costruzione europea, nella quale integrare anche l’agricoltura e lo sviluppo rurale. Perché PAC e Unione europea marciano assieme e le contraddizioni dell’una si riflettono sull’altra e viceversa.

Riferimenti bibliografici

  • Buckwell A., Matthews A., Baldock D., Mathijs E. (2017), CAP: Thinking Out of the Box. Further modernisation of the CAP – why, what and how? The RISE Foundation, Brussels

  • Maurel M.-C. (a cura) (2021), Les Mutations Récentes du Foncier et des Agricultures en Europe, Presses universitaires de Franche-Comté

  • Commissione europea (2017), Libro bianco sul futuro dell’Europa. Riflessioni e scenari per l’UE a 27 verso il 2025, Com(2017) 2025 del 1° marzo 2017, Bruxelles

  • De Groen W.P., Musmeci R., Gojsic D., Nunez J., Belicka D. (2021), The Largest 50 Beneficiaries in each EU Member State of CAP and Cohesion Funds, European Parliament, Policy Department for Budgetary Affairs, directorate-General for Internal Policies, PE 679.107 – May 2021.

  • European Court of Auditors (2018), The Commission’s proposal for the 2021-2027 Multiannual Financial Framework, Briefing Paper, July.

  • European Parliament (2016), Research for Agri Committee – CAP reform post-2020 – Challenges in Agriculture, Manuscript completed in October 2016. Brussels.

  • Sapir A. et al (2003), An Agenda for a Growing Europe. Making the EU Economic System Deliver, Report of an Independent High-Level Study Group established on the initiative of the President of the European Commission.

  • European Commission (2016), Future Financing of the EU. Final report and recommendations of the High-Level Group on Own Resources, Chaired by Mario Monti, December 2016.

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