Avicoli e volatilità: è peggio l’influenza aviaria o quella mediatica?

Avicoli e volatilità: è peggio l’influenza aviaria o quella mediatica?
a Università di Bologna, Dipartimento di Scienze Statistiche «Paolo Fortunati»

Introduzione

Il ventunesimo secolo è iniziato decisamente all’insegna delle “psicosi collettive”, più o meno fondate. La velocità e la potenza dell’informazione hanno portato su larga scala fenomeni che in altri tempi sarebbero rimasti circoscritti. Nel campo dell’alimentazione il fenomeno è giustificato anche dalla crescente internazionalizzazione delle filiere alimentari, processo di cui il consumatore è divenuto consapevole anche attraverso le crisi ripetute che hanno colpito il settore. Se da un lato ciò ha indubbi benefici sul piano della prevenzione, dall’altro è innegabile che la reazione eccessiva e la percezione o la comunicazione distorta delle informazioni conducano a gravi conseguenze per la stabilità dei mercati, anche per la progressiva erosione della fiducia del consumatore.
Dalla crisi BSE, esplosa nel marzo 1996, sono passati 10 anni. Ma la famigerata “mucca pazza”, i cui effetti nocivi su animali ed umani si sono rivelati fortunatamente più contenuti rispetto alle prime catastrofiche previsioni, è stato solo il primo di una serie di eventi su scala europea che ciclicamente hanno ricordato al consumatore italiano quanto sia rischioso mangiare…
Per il settore avicolo, la crisi BSE è stato l’avvio di una serie di eventi che hanno reso il mercato particolarmente volatile. Il primo impatto della crisi BSE era stato particolarmente positivo per l’avicoltura: nell’aprile del 1996 la spesa reale per pollame era aumentata del 1,7% nonostante un incremento del 7,2% nei prezzi reali. Alla fine del maggio 1999 si è verificata la breve, ma intensa ed estesa, crisi della diossina. In giugno, la spesa reale delle famiglie italiane in pollame era diminuita del 13,9% rispetto allo stesso mese del 1998, mentre i prezzi reali del pollame si erano ridotti dell’1,8%. Dopo l’estate, il consumo era già ritornato ai livelli precedenti e se lo shock non può essere confrontato con quello della BSE in termini di impatto economico, ha in ogni caso contribuito ad accrescere la diffidenza e l’ansietà del consumatore. Nel 2001, con l’avvio dei test BSE obbligatori sui bovini e il riscontro di un numero seppur limitato di casi positivi, la spesa reale delle famiglie in pollame ha reagito ancora in misura rilevante (fino ad un +32% nel gennaio 2001) e anche i prezzi hanno reagito significativamente (nel marzo 2001 erano ancora ad un +18%).
E’ storia più recente quella dell’influenza aviaria. Sebbene sia stato negato scientificamente il legame tra il consumo di carne avicola (opportunamente cotta) e la contrazione del virus, la crisi dei consumi ha raggiunto livelli paragonabili a quelli della BSE, con una domanda pressoché dimezzata nei primi mesi della crisi.

Impatto della crisi dell’influenza aviaria e peculiarità italiane

A un anno di distanza dal picco della crisi aviaria, è possibile fare i primi bilanci del suo effetto economico. Come la crisi BSE ci ha insegnato, il cuore del problema non è semplicemente il recupero dei consumi in termini quantitativi, ma l’effetto sulla domanda, cioè considerando simultaneamente l’andamento dei prezzi. Per esempio, è interessante notare che secondo i dati ISMEA, a settembre 2005, primo mese della crisi con i prezzi ancora stabili, gli acquisti di pollo nei supermercati si erano ridotti del 15%, nelle macellerie e pollerie del 22%, mentre nei discount erano addirittura aumentati del 2% su base tendenziale. Questa non è una novità per gli economisti, perché la domanda di sicurezza degli alimenti è particolarmente elastica al reddito e fenomeni simili si erano osservati con la BSE. L’effetto prezzo diventa quindi particolarmente importante.
Con il diradarsi delle informazioni e dell’attenzione mediatica, i consumatori vengono recuperati attraverso i prezzi e l’effetto complessivo della crisi va valutato considerando congiuntamente il livello dei consumi in termini quantitativi e il livello dei prezzi.
Secondo i dati dell’indagine panel Ismea - AC Nielsen, complessivamente i consumi di pollo in termini di quantità erano diminuiti del 18% a settembre 2005 e del 34% ad ottobre, rispetto agli stessi mesi del 2004. A gennaio 2006 il dato era ancora inferiore del 25,6% rispetto a quello corrispondente del gennaio 2005. Nel maggio 2006 la riduzione era ancora sensibile (-17,9%).
Un rapporto del 2006 del Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA, 2006) fornisce alcuni dettagli sulla diversificazione dell’impatto tra paesi dell’Europa centrale, occidentale e mediterranea. Secondo questo rapporto, l’Europa meridionale è stata la regione in cui gli effetti sono stati più sensibili in termini di riduzione dei consumi, tanto che nelle prime settimane della crisi il consumo era praticamente dimezzato in tutti i paesi dell’area. In Inghilterra, alcune indagini sui consumatori, come quella condotta nel gennaio 2006 su 1000 acquirenti dall’Institute for Grocery Distribution1, è emerso che la grande maggioranza (82%) non aveva cambiato le proprie abitudini di consumo in conseguenza della crisi, mentre il 12% ha dichiarato di consumare meno carne avicola e il 6% ha dichiarato di consumarne di più. Inoltre, un rapporto della FAO2 ha stimato uno shock sui consumi che varia dal -70% italiano al -20% in Francia e 10% nell’Europa settentrionale. Guardando all’andamento dei prezzi in diversi paesi e considerando che l’offerta è generalmente rigida nel breve periodo, si può avere un’idea dell’effetto variabile della crisi.

Figura 1 - Prezzo al consumo della carne avicola in diversi paesi (gennaio 2003=100)

Fonte: Istituti nazionali di statistica (2006)

La tendenza negativa nei prezzi di tutti i paesi è compatibile con il comportamento del consumatore nel periodo successivo a una crisi alimentare, ma è evidente come gli effetti differiscano sostanzialmente nei diversi paesi. Se si considera il periodo tra il settembre 2005 e il marzo 2006, il prezzo negli Stati Uniti è diminuito del 3.6%, nel Regno Unito del 4,1% e in Italia dell’8,3%. In Francia la riduzione è stata appena dello 0,2%.

Chi ha paura del pollo? E perché?

Le statistiche riportate in questo articolo mostrano come la reazione italiana alla crisi sia stata ben più forte di quella osservata negli altri paesi. Anche questa non è una novità e già nel caso della crisi BSE l’impatto in Italia era stato decisamente superiore a quello registrato nei paesi nordeuropei.
I percorsi per spiegare questo fenomeno apparentemente “culturale” sono molteplici.
La più quotata è quella del comportamento mediatico, per cui si imputa ai mass-media italiani un approccio più sensazionalistico, in alcuni casi a scapito della correttezza e completezza dell’informazione. Parallelamente si imputa agli italiani anche una maggiore influenzabilità rispetto all’informazione dei media.
Una seconda spiegazione, più benevola, risiede invece nella maggiore varietà della dieta italiana e nelle maggiori possibilità di sostituzione dei prodotti “incriminati” con alternative percepite come più sicure.
In realtà questi due percorsi esplicativi, per quanto rilevanti e verosimili, si intrecciano con altri fattori determinanti più complessi. Nel numero 3 di Agriregionieuropa [link] erano stati riportati i risultati dell’indagine statistica internazionale sui consumi di carne avicola e sugli atteggiamenti del consumatore svolta nell’ambito del progetto Trust [link], in cui si evidenziava come nel 2004 gli italiani avessero già allora una percezione del rischio da influenza aviaria doppia rispetto a quella osservata in Inghilterra e superiore nettamente a quella di Francia e Olanda. La stessa indagine aveva rilevato il tipo di carne avicola acquistata abitualmente dai consumatori di ciascun paese, distinguendo in termini di qualità del prodotto. La tabella 1 mostra come il consumatore francese preferisca la carne avicola di alta qualità, tanto che la Francia evidenzia la carne avicola di qualità con un’etichetta specifica (“label rouge”).

Tabella 1 - Qualità del pollo acquistato per paese

Fonte: indagine progetto Trust [link]

Se tale dato sembra dimostrare che i paesi con una certificazione di qualità affermata subiscono in misura minore l’impatto delle crisi alimentari, ciò non spiega perché l’impatto sia inferiore nel Regno Unito rispetto all’Italia. La tavola successiva mostra alcune misure di percezione del rischio (anche legate al consumo di pollo), sempre registrate nel maggio 2004 nei vari paesi.

Tabella 2 - Percezione del rischio per paese

Fonte: indagine progetto Trust [link]

Nel maggio 2004 la crisi dell’influenza aviaria era già nota al consumatore, ma non era ancora esplosa ai livelli del 2005. Se si confrontano i dati italiani con quelli britannici, è chiaro che gli italiani mostrano una percezione iniziale del rischio decisamente più alta per tutti gli elementi del questionario e specialmente per l’influenza aviaria, dove la percezione del rischio è doppia rispetto a quella inglese. La stessa differenza non emerge osservando le percezioni generiche di rischi non alimentari, quali guidare, nuotare o fumare, anche se gli italiani si descrivono maggiormente avversi al rischio rispetto a tutti gli altri paesi inclusi nell’indagine. E’ interessante anche notare che gli italiani si considerano più informati rispetto all’influenza aviaria rispetto ai rispondenti di altri paesi, il che potrebbe essere collegato ad una maggiore attenzione e rilevanza dei media.
In conclusione, i dati confermano che gli italiani hanno una maggiore sensibilità “a priori” rispetto ai temi della sicurezza degli alimenti, legati in parte al comportamento mediatico. La strada per ridurre l’effetto di crisi improvvise e a forte impatto mediatico sembra quella indicata dalla Francia, con la creazione di marchi riconosciuti di qualità e la costruzione progressiva di fiducia negli attori della catena alimentare.

  • 1. IGD (2006). “Most Shoppers Unconcerned about Bird Flu” [link]
  • 2. FAO (2006). “Poultry trade prospects for 2006 jeopardized by escalating AI outbreaks“ [link]
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