E se immaginassimo una Pac davvero al passo con i tempi?

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E se immaginassimo una Pac davvero al passo con i tempi?
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Il quadro complessivo

Se le proposte di riforma della Pac attualmente sul tavolo dovessero superare indenni gli ostacoli che ancora le separano dalla trasformazione in regolamenti definitivi, questo articolo potrebbe essere considerato alla stregua di un esercizio intellettuale (o, al più, una riflessione utile per un futuro non immediato). Ma, al tempo stesso, lo scenario complessivo è così incerto, così soggetto ai marosi della crisi economico-finanziaria che investe le economie europee e così condizionato dagli umori dei governi e delle mutevoli maggioranze politiche nell’Unione, che è opportuno proporre anche una lettura fuori dagli schemi.
L’Europa è di fronte ad una fase particolarmente difficile del suo sviluppo. C’è il malaugurato rischio, comunque non irrilevante, che le crisi che la investono producano una sua implosione. In tal caso, di fronte alla dissoluzione dell’Unione o anche a un suo ridimensionamento, ben difficilmente la Pac potrebbe sopravvivere come la conosciamo (e come si propone di riformarla).
Le crisi sono però anche l’occasione per una conferma dell’impegno europeo e, auspicabilmente, per un rilancio dell’Unione. Una fuoriuscita dall’impasse attuale non sarà però prevedibilmente appoggiata sui trend del passato, come se niente fosse fin qui successo. Si tratterà comunque di una rifondazione dell’Europa che prevedibilmente impegnerà tutto il decennio fino al 2020 e oltre, nella quale, soprattutto nei primi anni, si dovrebbe certamente fare i conti con il problema delle risorse: sia per la difficoltà (o l’ostilità) di molti Stati membri a confermare il proprio impegno verso l’Unione Europea come in passato, sia per la necessità e l’urgenza di orientare le risorse dell’UE, con maggiore efficienza ed efficacia, verso obiettivi di solidarietà e di sviluppo.
Dopo le proposte di bilancio dell’UE per il periodo 2014-2020, presentate dalla Commissione europea lo scorso giugno (Commissione Europea, 2011), le negoziazioni sul futuro Quadro finanziario poliennale non hanno fatto, in pratica, alcun passo avanti. Si è fortemente rallentato, di conseguenza, anche il processo di riforma della Pac. “No money, no vote” ha dichiarato Peter Jahr, deputato conservatore tedesco nella Commissione agricoltura del Parlamento europeo il 21 marzo scorso. Gli ha fatto eco recentemente Ciolos: “a final deal on the Cap reform is not possible without knowing the long term budget1, testimoniando la condizione di stallo in cui attualmente la Pac versa.

Il nodo del bilancio

È utile richiamare le vicende del Quadro finanziario poliennale relativo al periodo 2007-2013 per immaginare cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi. La proposta iniziale della Commissione nel 2005 prevedeva entrate pari all’1,24% del Reddito nazionale lordo (Rnl) dell’UE (Commission of the European Communities, 2004). La controproposta di un gruppo autorevole di Stati membri pagatori netti, guidato da Germania e Gran Bretagna, fu per una riduzione all’1,00% netto. L’accordo finale, raggiunto sotto la presidenza britannica di Tony Blair nel dicembre 2005, fu di fissare il bilancio all’1,045%. Rispetto alla proposta iniziale della Commissione, il taglio complessivo, in euro costanti 2004, fu di 160,9 miliardi su un totale di 862,4 miliardi (European Council, 2005). All’epoca, si ricorderà, il 1° pilastro della Pac ne fu immune, per effetto dello specifico accordo Chirac-Schroeder del 2003 assunto per venire a capo della mid term review con la riforma Fischler. Ne fecero significativamente le spese il 2° pilastro e tutte le politiche strutturali, che videro ridotti i rispettivi fondi.
Un tentativo di isolare nuovamente il budget della Pac dal resto della discussione sul bilancio è stato tentato sotto presidenza francese (dall’allora ministro agricolo Barnier) in un Informal meeting of Ministers ad Annecy in settembre del 2008. Ma il rifiuto della Germania quella volta fu perentorio. Tutta la Pac sarà in discussione quindi nelle future decisioni sul bilancio.
Questa volta la proposta della Commissione è per un bilancio complessivo di 1.025 miliardi di euro a prezzi 2011, pari all’1,05 % del Rnl, nel quale è già inglobato un taglio alla Pac a livello europeo pari al -12,6 %, che diventa -17,8% in Italia per effetto della ridistribuzione tra Stati membri a beneficio di quelli dell’Est Europa (European Commission, 2011). Puntualmente, un significativo contenimento del budget è stato ipotizzato anche questa volta da Germania, Gran Bretagna e altri Paesi pagatori. A quelli si sono aggiunti nuovi Stati membri tra i quali anche l’Italia all’epoca di Tremonti (da allora in poi sul bilancio europeo è caduto il silenzio e Monti non si è ancora pronunciato). Se soltanto, assecondando quelle richieste, l’accordo finale dovesse arrestarsi ad un possibile 1,00% netto (come riproposto anche questa volta dalla Germania), si tratterebbe di togliere altri 55 miliardi di euro da qualche linea di bilancio. Questo penalizzerebbe probabilmente soprattutto la Pac, visto che in difesa della politica di coesione si è costituito un nutrito blocco di Stati membri soprattutto dell’Est Europa: i cosiddetti Friends of cohesion policy2 e non esistono nel Quadro finanziario poliennale altre linee di bilancio in grado di assorbire tagli di quelle dimensioni.
Ma, anche se si confermasse l’attuale proposta di bilancio, i pericoli per la Pac non sarebbero finiti. Il rischio è anche interno al bilancio, dal momento che la crisi economica impone, da un lato, più rigore budgetario e, dall’altro, nuove priorità. La Pac, d’altra parte, negli ambienti politici e finanziari dell’Unione è considerata da lungo tempo più un vincolo da contenere (o una fonte dove attingere i fondi necessari ad altre politiche) che come una priorità da assecondare (Padoa Schioppa, 1987; Sapir A. et al., 2004; Grethe, 2006; Begg, 2007; Eureval, 2008; Ecorys, 2008).

Quali gli sbocchi dall’attuale impasse?

Di fronte a nuovi, eventuali, tagli di bilancio per la Pac, lo stesso pragmatismo del Commissario Ciolos potrebbe costringerlo a riformulare le proposte, e proporre, come si vocifera, un Plan B. D’altra parte, i ricorrenti distinguo nella Commissione agricoltura del Parlamento europeo, così come di alcune lobby e di gruppi di Stati membri, dopo che la proposta Ciolos era stata sostenuta (o comunque accolta) da tutti senza sostanziali obiezioni, rischia di lasciarlo con il cerino in mano in una Commissione che non lo sostiene.
Si consideri peraltro che la situazione politica nei Paesi dell’Unione è in diffuso e profondo movimento. Dall’inizio dell’anno sono cambiate le maggioranze politiche in Francia, Italia, Spagna, Grecia, Belgio, Slovenia, Slovacchia, Romania. Si voterà nel 2012 in Austria, Olanda, Lituania e Romania e nel 2013 in Italia, Svezia e Bulgaria (oltre che a Cipro e Malta) e poi soprattutto, in autunno, in Germania. Infine, nel 2014, in giugno sarà rinnovato il Parlamento europeo e in autunno la Commissione, con la sostituzione certa di Barroso (e di Ciolos se nei prossimi mesi dovesse sbagliare mosse e tempi e trovarsi così sotto scacco). Gli esiti al momento sono del tutto imprevedibili.
A soli diciotto mesi dal 1° gennaio 2014, l’Unione è dunque in una situazione di stallo e questo viene ormai apertamente riconosciuto dalle stesse istituzioni europee. Oltretutto, in questo semestre, la presidenza del Consiglio europeo è affidata alla debole guida di Cipro e già la futura presidenza semestrale irlandese, che entrerà in carico dopo Capodanno, ha ipotizzato di fissare un Consiglio Europeo straordinario sul bilancio in febbraio 2013.
In questa situazione, è realistico ipotizzare che il complesso iter della riforma della Pac difficilmente possa completarsi entro l’anno in corso e che, auspicabilmente, possa arrivare in porto nei primi mesi del 2013, in tempo per iniziare, senza dilazioni, il nuovo settennio di programmazione. Ma, per più ragioni (l’evidenziarsi di tante contraddizioni nell’attuale proposta, la necessità di risolvere rapidamente i conflitti che potrebbero nascere sul suo iter, la necessità di rimodulare la proposta a seguito di ulteriori tagli o riallocazione di fondi nel budget, ecc.) si potrebbe convergere su un testo di attesa da completare, sperando in tempi migliori, con un’altra mid term review intorno al 2016.
L’alternativa per ora forse meno probabile, ma che non si può nemmeno escludere, è che non si trovi nessun accordo, e allora il quadro finanziario attuale sia prolungato di un anno o due (con non pochi problemi di continuità, in particolare per il 2° pilastro) e le negoziazioni siano riprese con il nuovo Parlamento europeo e la nuova Commissione.
In entrambi i casi, potrebbe presentarsi comunque l’occasione per un profondo ripensamento della Pac, volto ad orientarla verso gli obiettivi strategici della sicurezza alimentare e le grandi sfide del futuro dell’Europa. Le condizioni sarebbero favorevoli. Sono tempi questi in cui, in Europa come in Italia, si possono abbattere posizioni consolidate che in altri tempi sarebbero state inattaccabili; e per la politica agricola europea potrebbe indebolirsi quella path dependency che, spesso in passato, ha smentito le Cassandre che preconizzavano un suo più rapido declino.

Perché una proposta per una diversa Pac?

Le ragioni sulle quali si fonda la richiesta di un ripensamento della Pac per il futuro derivano innanzitutto dall’insostenibilità, attuale e soprattutto in prospettiva, della proposta Ciolos, tanto in una Unione Europea riformata e rilanciata, che in una Unione Europea in crisi. Quali le questioni di fondo sulle quali sono state fin qui assunte scelte, a nostro avviso (ma questo giudizio è sempre più condiviso dai maggiori esperti di politica agraria)3, del tutto inadeguate rispetto agli obiettivi dichiarati per la il futuro dell’UE e per la stessa futura Pac? Affrontiamo qui soltanto le quattro, a nostro avviso, più rilevanti.

La conferma dei pagamenti diretti al centro della Pac

La prima di tutte è la scelta completamente sbagliata di conservare al centro della Pac i pagamenti diretti. Il disaccoppiamento trovava piena giustificazione, al tempo della riforma Fischler, come soluzione per superare senza eccessivi traumi i pagamenti accoppiati alle singole produzioni. Ma una misura disaccoppiata si giustifica solo nella transizione. Il suo mantenimento oltre la contingenza (sia pure “spacchettato” e regionalizzato) non ha giustificazioni nella teoria della politica economica. Basta chiedersi: cosa paga il contribuente? Qual è l’obiettivo: il sostegno al reddito o agli investimenti oppure il pagamento per i beni pubblici oppure ancora l’attenuazione degli effetti della volatilità dei mercati? O l’obiettivo è forse più semplicemente la conservazione della vecchia distribuzione dei fondi e delle vecchie posizioni di rendita? Paying for doing nothing è una espressione con cui è stata severamente classificata questa politica. I pagamenti disaccoppiati, come rileva anche la Corte dei Conti europea (2012), contraddicono il principio base dell’intervento dell’Unione Europea secondo il quale ogni misura di spesa deve essere mirata ad un preciso obiettivo (targeted), calcolata a misura del costo sociale necessario per cogliere quell’obiettivo (tailored) e sottoposta a precise valutazioni di efficienza ed efficacia.
Con riferimento ai pagamenti diretti, che pure hanno un peso molto consistente nel bilancio dell’UE, mancano delle puntuali valutazioni sulla loro efficienza ed efficacia, come invece si fa puntualmente per tutte le altre politiche, per il semplice motivo che una valutazione è impossibile se l’obiettivo è indeterminato (Esposti, 2011). Liberarsi sia pure gradualmente dei pagamenti diretti significherebbe nello stesso tempo liberare risorse per altre ben più concrete urgenze per il futuro dell’agricoltura, dell’agro-alimentare e dello sviluppo delle aree rurali, e ricollocare la Pac nel quadro strategico dell’insieme delle altre politiche dell’UE.

La scelta dell’ettaro come espressione sintetica del diritto al sostegno

Il secondo grave errore è la scelta della superficie posseduta come base del calcolo dei pagamenti diretti. Nei documenti strategici si è messo l’accento sulla forte diversità dei territori rurali e delle forme di agricoltura nell’Unione. Rivendicando per l’UE una forte Pac, si sono enunciati obiettivi strategici diversi in ragione delle differenziazioni territoriali e delle specifiche situazioni socio-economiche e strutturali. Come si può rappresentare e sintetizzare tutto questo con la scelta di legare i pagamenti agli ettari?
La principale ragione per scegliere, riduttivamente, quella soluzione è stata la praticità: l’ettaro non sfugge ai rilievi satellitari e quindi garantisce meno abusi che un qualsiasi altro più ragionevole ma meno facilmente controllabile parametro, come ad esempio l’occupazione o il valore aggiunto. Ma un pagamento forfettario ad ettaro va puramente e semplicemente ad aggiungersi alla rendita fondiaria e, a parità di altre condizioni, premia maggiormente le agricolture estensive, quelle che, proporzionalmente, contribuiscono di meno all’occupazione e producono meno valore aggiunto.
In questo quadro, la soluzione dello “spacchettamento” dei pagamenti diretti, apprezzabile se non altro perché consente di lasciare alle spalle il vecchio pagamento unico aziendale (Pua), apre una serie di interrogativi: cosa paga il pagamento base? È davvero ecologico il pagamento green? Che senso ha un pagamento supplementare per i giovani se il suo importo deve essere irrisorio? Non si imporranno inutili vincoli? Non si accrescerà la complessità burocratica senza un reale miglioramento della qualità della politica?
Così anche la regionalizzazione è certamente una soluzione meno discriminatoria a confronto della soluzione storica, ma manca di una base di razionalità. Perché sarebbe equo dare a tutti un pagamento di uguale importo (ad ettaro)? Se, d’altra parte, si ammettono diverse modalità di calcolo e diverse ipotetiche modalità redistributive tra Stati membri e tra regioni, si innescano inevitabilmente effetti distorsivi della concorrenza (tanto che, ove uno Stato membro assumesse l’iniziativa di introdurre un tale pagamento, sicuramente incapperebbe nella trasgressione alla regola sugli aiuti di Stato).

Il secondo pilastro in secondo piano

Un altro grave errore è quello della rinuncia a spostare risorse della Pac dal 1° al 2° pilastro lasciando invariati i rapporti L’interruzione di quel processo redistributivo, sia pure lento ma fin qui ininterrotto, è il frutto di una consapevole sottovalutazione dell’importanza della politica di sviluppo rurale. È pur vero che nella proposta di regolamento è concessa agli Stati membri la flessibilità tra pilastri, che consente di spostare fino al 10% del massimale del 1° pilastro al 2°. Ma si tratta di una opportunità che è facile prevedere non sarà utilizzata per le pressioni delle lobby agricole a difesa dei pagamenti diretti. La scelta di trascurare la politica di sviluppo rurale era annunciata fin dall’avvio del processo di riforma dell’ottobre 2010, quando lo sviluppo rurale era trattato sbrigativamente a pagina 10 di 12, poco prima delle conclusioni (Commissione Europea, 2010).
Così anche le cosiddette “nuove sfide” (cambiamento climatico, biodiversità, bioenergia e gestione delle risorse idriche) introdotte con l’Health Check nel 2008 e sulla cui rilevanza per il futuro a sostegno della necessità della politica agricola si era posto fortemente l’accento, sono finite in secondo piano. La scelta, infine, di aggiungere tra le misure del 2° pilastro anche la gestione del rischio (che sarebbe stato più appropriato considerare nel 1° e che drenerà consistenti risorse a scapito delle altre misure più specifiche) conferma la nostra tesi.
È utile chiarire le rilevanti implicazioni della rinuncia a puntare sul 2° pilastro. Esse sono schematicamente raccolte in tabella 1. Il 2° pilastro rispetto al 1°: (a) moltiplica i fondi attraverso il cofinanziamento (previsto solo per il 2°) e responsabilizza le autorità nazionali e regionali degli Stati membri; (b) coinvolge Stati membri e Regioni nella definizione e gestione delle scelte e nell’adattamento delle misure alle condizioni locali; (c) realizza una politica programmata frutto di una visione strategica e di un approccio sistemico; (d) concentra l’intervento sugli imprenditori e sulle imprese, anziché disperderlo su una miriade di aziende disattivate o di solo autoconsumo e sulla proprietà fondiaria; (e) sostiene con contratti pluriennali investimenti di lungo termine, anziché limitarsi a pagamenti annuali; (f) concentra le risorse su obiettivi chiari, con modalità più selettive, con interventi commisurati alle effettive necessità.

Tabella 1 - Le differenze tra primo e secondo pilastro

L’opportunità persa dell’agricoltore attivo

Un quarto errore è relativo alla definizione di “agricoltore attivo”. L’intenzione di limitare l’accesso alle politiche agricole ai soli active farmer aveva generato grandi aspettative soprattutto in Italia. Da tempo, più di una ricerca aveva evidenziato come la nostra agricoltura conti una miriade di “aziende non-imprese” (la cui conduzione ha carattere del tutto accessorio) a fianco di un numero molto più ridotto di reali imprese agricole (Sotte, 2006). Ovviamente, i due gruppi hanno bisogno ciascuno di una politica, ma non della stessa politica come purtroppo fin qui è stato. Il primo gruppo ha soprattutto bisogno di servizi: di informazione, di aggregazione, di supporto, ecc. (non di trasferimenti, che oltretutto comportano un enorme onere burocratico); il secondo di formazione, ricambio generazionale, ricerca e trasferimento delle innovazioni, sostegno nella competizione, gestione dei rischi, aiuto alla diversificazione e al rinnovamento strutturale, credito, ecc. La scelta di definire l’agricoltore attivo attraverso il rapporto tra pagamenti diretti e reddito complessivo (ponendo la soglia al 5 per cento), ma soprattutto di includere (di fatto) tra gli agricoltori attivi tutti i percettori di pagamenti diretti fino a 5 mila euro, rende la misura irrilevante. Si consideri che in Italia nel 2010 l’87,4 per cento dei beneficiari è sotto la soglia dei 5 mila euro e, tra questi, quasi i due terzi percepiscono meno di 100 euro al mese.

Alcune idee per una diversa Pac a partire dalla proposta attuale

I riferimenti fondamentali di una diversa soluzione per la Politica agricola comune a partire dalla proposta attuale non sono difficili da trovare. Li indica, infatti, molto chiaramente, prima di smentire se stesso nelle proposte operative, il testo di base sul futuro della Pac del 18 novembre 2010 (Commissione europea, 2010). Nell’incipit, infatti, si legge: “La PAC è di fronte a diverse sfide (…) che sollecitano l’UE a compiere scelte strategiche per il futuro a lungo termine della sua agricoltura e delle sue aree rurali. Per essere efficace nell'affrontare queste sfide, la PAC deve operare nel quadro di sane politiche economiche e di una finanza pubblica sostenibile, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi dell'Unione”4. Richiamando poco più avanti il documento di orientamento generale EU 2020 Strategy del marzo 2010 (Commissione Europea, 2010a), lo stesso testo precisa che la nuova Pac dovrà uniformarsi agli obiettivi: (a) della Crescita intelligente “incrementando l’efficienza nell’uso delle risorse e accrescendo la competitività con l’innovazione”; (b) della Crescita sostenibile “mantenendo rinnovabile la base produttiva [… e] producendo beni pubblici ambientali”; (c) della Crescita inclusiva “liberando il potenziale economico delle aree rurali”.
Con i riferimenti a “strategia”, “lungo termine”, ”competitività”, ”innovazione”, ”beni pubblici” e “sviluppo integrato”, il documento citato presume palesemente una Pac notevolmente riformata rispetto all’attuale. Una Pac anche ben diversa dall’inconsistente proposta avanzata nel seguito dello stesso testo e tradotta nelle successive proposte dei regolamenti. Una Pac nettamente ispirata al cosiddetto Refocus Scenario, il terzo dei tre ipotizzati a conclusione di quel documento, quello orientato a “una progressiva abolizione dei pagamenti diretti e un rafforzamento della politica di sviluppo rurale”. Palesemente, invece, tutto il resto del documento e la proposta Ciolos che ne consegue sono ispirati all’Integration Scenario: “Finalizzare e rinverdire i pagamenti diretti”.
Come trasformare l’attuale proposta in una diversa Pac? Quali contenuti potrebbe avere un Plan B che non sia semplicemente una riverniciata dell’attuale Plan A? Suggeriamo qui di seguito alcune possibili correzioni e integrazioni all’impianto della proposta attuale di riforma della Pac che riterremmo necessarie per renderla più coerente con gli obiettivi per essa enunciati, ma non perseguiti e più organica e integrata con le altre politiche dell’UE. Questo esercizio, che ovviamente è una ipotesi per discutere, parte dal presupposto che i due pilastri dovrebbero essere ricondotti alle loro rispettive funzioni “storiche”: il 1° pilastro alla regolazione dei mercati, alla sicurezza alimentare e alla gestione dei rapporti nelle filiere; il 2° pilastro alla politica di sviluppo rurale nelle sue diverse coniugazioni: competitività, beni pubblici, diversificazione e inclusione nelle aree rurali. Cominciamo dal 2° pilastro.

Un nuovo 2° pilastro

Una prima semplice proposta potrebbe essere quella di riunificare gli interventi ambientali (greening), per i giovani e per le aree con limitazioni naturali dal punto di vista ambientale nella loro naturale sede del 2° pilastro spostando i relativi fondi (30+2+5=37%) dai rispettivi “pacchetti” del 1° pilastro. Il tentativo operato di risolvere i problemi della Pac integrando quegli obiettivi nel 1° pilastro, oltre a creare inutili duplicazioni e alterare la natura dei due pilastri, ha condotto nel cul de sac di proposte troppo rigide, di difficile amministrazione e di dubbia efficacia dal punto di vista dei risultati. Il notevole incremento di fondi del 2° pilastro che ne risulterebbe, parificherebbe, rilanciandolo, la sua dotazione rispetto al 1° pilastro. Due pilastri che con uguale forza reggano la politica agricola e di sviluppo rurale degli anni 2000 erano l’obiettivo di Fischler fin dagli anni Novanta. Non dovrebbe essere tecnicamente difficile operare questo trasferimento di fondi e competenze dal 1° al 2° pilastro, che oltretutto consentirebbe di rilanciare la Pac come strumento fondamentale per affrontare le “nuove sfide” enunciate, come ricordato, con l’Health Check ma poi sostanzialmente lasciate cadere. Se si assume che fosse genuina l’intenzione di “spacchettare” il vecchio pagamento unico aziendale individuando nelle tre componenti green, giovani e aree con limitazioni naturali i nuovi obiettivi da perseguire, il trasferimento potrebbe essere accolto come un naturale adattamento alle condizioni locali e come l’inserimento in un quadro programmato e poliennale di alcune politiche che la discussione stessa ha rivelato inapplicabili con una misura unica per tutta l’UE-27. In caso contrario, si avrebbe la conferma del sospetto che l’intenzione di conservare quelle politiche nel 1° pilastro non fosse effettivamente quella di perseguire gli obiettivi dichiarati, ma di perseguire il secondo fine di conservare il più possibile la distribuzione attuale della spesa (cambiando tutto, gattopardescamente, per non cambiare niente).

Un nuovo 1° pilastro

Quanto al 1° pilastro, la sua funzione è quella di assicurare la sicurezza alimentare in termini di garanzia delle forniture e di tutela degli agricoltori e dei consumatori nei confronti della sempre più consistente volatilità dei prezzi. Allora perché esaurire i relativi fondi nella conservazione del pagamento unico di base? Tra tutti i “pacchetti” della nuova proposta il pagamento base è quello che raccoglie più fondi, ma anche il più difficile da giustificare. Oltretutto manca di operare in funzione anticiclica, infatti genera inutili rendite quando i prezzi lievitano e quando i prezzi scendono non soccorre gli agricoltori più deboli e gli ordinamenti produttivi più colpiti. La proposta più ragionevole che per quelle risorse potrebbe essere avanzata è di utilizzarle per dotare l’UE di uno strumento specifico di azione anticiclica. Uno strumento di stabilizzazione dei mercati ex-ante che, come è stato proposto fin dai tempi del Rapporto Buckwell (Buckwell et al., 1997), operi per le principali produzioni agricole soltanto nelle circostanza in cui, individuato un prezzo ritenuto di equilibrio in condizioni normali di mercato aperto (calcolato sulla base del trend dalle serie del recente passato), si derivino da esso due prezzi limite: minimo e massimo.
L’intervento sui mercati in termini di stoccaggio o de-stoccaggio (a beneficio rispettivamente dei produttori e dei consumatori) entrerebbe in funzione solo in caso di superamento delle soglie in un senso o nell’altro. Nessun intervento sarebbe invece necessario nel caso in cui il serpente del prezzo dovesse muoversi all’interno del tunnel tra minimo e massimo. A questo scopo, potrebbe essere istituito un fondo di riserva poliennale dal quale attingere con bilanci suscettibili di variare da un anno all’altro in relazione alle necessità di regolazione dei mercati e nei limiti dei sette anni previsti dal Quadro finanziario poliennale.
Diverse stime realizzate con riferimento agli anni trascorsi dimostrano, sotto diverse ipotesi di base, che l’adozione di una tale politica nel passato avrebbe consentito di assicurare gli stessi redditi agli agricoltori con un consistente risparmio di spesa pubblica (Schaffer et al., 2012; Momagri, 2012).
È ovvio che l’efficacia di una tale politica sarebbe tanto maggiore (e il relativo costo ancora inferiore) quanto più fosse guidata da una azione convergente da parte di UE e Usa, che si estendesse ad altri paesi nell’ambito di un auspicabile rilancio del Wto (che la scelta di abbandono dei pagamenti disaccoppiati dell’UE e degli USA renderebbe più facile). La proposta di istituire dei Market-Driven Inventory System (MDIS) che hanno analoghe caratteristiche rispetto a quanto qui discusso, è stata avanzata dal National Farmers Union, il secondo sindacato agricolo americano per il prossimo Farm Bill che dovrebbe essere approvato entro l’anno e con il quale, come è stato annunciato, è intenzione degli Usa di abbandonare definitivamente gli aiuti disaccoppiati. Una tale politica preventiva di regolazione dei prezzi renderebbe evidentemente meno costosa, semplificandola, la politica di gestione dei rischi ex-post. Nella proposta della Commissione, quella politica è stata collocata inopportunamente nel 2° pilastro. Le due politiche di stabilizzazione dei prezzi e di gestione dei rischi andrebbero invece opportunamente integrate nel 1° pilastro e sottoposte al controllo e alla gestione di autorità indipendenti.

Una rappresentazione di sintesi

Nella prima colonna della figura 1 è rappresentata a grandi linee la Pac attuale. Le proporzioni tra primo e secondo pilastro sono approssimativamente quelle reali per l’Italia. Al pagamento unico aziendale su basi storiche va il 74% della spesa, un altro 6%, ancora nel 1° pilastro, alle politiche di mercato. Alla politica di sviluppo rurale va circa il 20%. L’attuale proposta di riforma della Pac è rappresentata dalla seconda colonna. La spesa del 1° pilastro scende di poco meno del 18%. Sulla base dei documenti che circolano sulla suddivisione dei fondi tra Stati membri con riferimento al 2° pilastro, si può ipotizzare una analoga riduzione. La struttura complessiva non è particolarmente differente da quella attuale, a parte lo “spacchettamento” dei pagamenti diretti, con un pagamento base che a regime (cioè nel 2019), in relazione alla ripartizione dei fondi sui singoli pacchetti potrebbe collocarsi in un intervallo tra il 43% e il 70% del totale. Quanto al 2° pilastro, la riduzione dei fondi potrebbe essere ulteriormente erosa dalla spesa aggiuntiva per le misure di gestione del rischio collocate al suo interno (in marrone nella figura).
La terza colonna rappresenta la proposta qui avanzata. Questo ipotetico Plan B non necessita di profondi cambiamenti rispetto all’impianto attuale e soprattutto a quello della proposta Ciolos, anche se l’immagine della Pac che ne risulta è completamente diversa e più corrispondente agli obiettivi dichiarati della Pac e più integrata nell’ambito della strategie dell’Unione Europea sia all’interno che a livello globale. Per questo è più efficiente ed efficace e più facilmente accettabile dalle istituzioni europee a vocazione generale Consiglio e Parlamento, anche per il fatto che potrebbe consentire, senza difficoltà per il settore agricolo nel complesso, dei possibili ulteriori risparmi di spesa.

Figura 1 - Tre Pac a confronto: quella attuale, la proposta Ciolos per dopo il 2013 e un nostro ipotetico Plan B

Considerazioni conclusive

Il prossimo 13 luglio la Commissione europea (DG Agri) organizza a Bruxelles una seconda conferenza sul futuro della Pac. Gli obiettivi dichiarati dell’evento intitolato: The Cap towards 2020 – taking stock with civil society, sono di valutare l’impatto delle proposte attualmente sul tavolo su tre temi: sicurezza alimentare, mitigazione e adattamento al cambiamento climatico e sviluppo agricolo e rurale bilanciato dal punto di vista territoriale. Si tratterà di un evento chiarificatore, anche perché servirà per capire quanta compattezza il mondo agricolo intenda confermare intorno alla proposta Ciolos. Sarà anche l’occasione per verificare come si concilino gli interessi spesso contrastanti degli Stati membri.
Nell’imminenza dell’evento, Ciolos ha ritenuto di annunciare solennemente “the Commissioni is not preparing a Plan B as Plan A is a credible one”. Ma è difficile pensare che in questa situazione di grande incertezza generale e di sottili ma pungenti distinguo sulla sua proposta, nei suoi uffici non si siano prefigurati esiti alternativi sia per il breve che per il lungo periodo. Forse stiamo ancora una volta sottovalutando la capacità di autoconservazione della Pac. È già successo più volte in passato. Ma sarebbe ancora peggio se il Plan B fosse imposto dall’esterno e Ciolos con la DG Agri e tutta l'agricoltura europea si trovassero impreparati all’appuntamento.

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  • Sotte F. (2000), Quante sono le imprese agricole in Italia? Agriregionieuropa, Anno 2, Numero 5

  • 1. AgraFacts, 44-12, 5/6/2012.
  • 2. Dei Friends of cohesion policy fanno parte Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Grecia, Spagna, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Slovacchia e Croazia. La loro posizione è riassunta in questa breve citazione: “Cohesion policy is a major tool for investment, growth and job creation at EU level and for structural reforms at national level . […] Cohesion policy is the main tool to reduce disparities between Europe’s regions and must therefore concentrate on the less developed regions and Member States”.
  • 3. L’ultimo autorevole evento in cui si è avuta chiara conferma di questo giudizio è stata la Conferenza congiunta tra le associazioni degli economisti agrari inglesi (Aes) e italiani (Aieaa) sul tema “The CAP after 2013: the Commission proposals and the decision process” svoltasi a Trento il 4 giugno scorso con relazioni di Allan Buckwell, David Harvey, Alan Swinbank, Giovanni Anania, Franco Mantino, Filippo Arfini e Corrado Giacomini.
  • 4.The Common Agricultural Policy (Cap) is confronted with a set of challenges, some unique in nature, some unforeseen, that invite the EU to make a strategic choice for the long-term future of its agriculture and rural areas. To be effective in addressing these challenges, the CAP needs to operate within the context of sound economic policies and sustainable public finances contributing to the achievement of the objectives of the Union.
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