Per una nuova strategia delle politiche dell’innovazione in agricoltura

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Per una nuova strategia delle politiche dell’innovazione in agricoltura

Premessa

La parola che oggi più di tutte riassume la speranza di una ripresa dell’agricoltura europea è “innovazione”. Ciò è ancora più evidente da quando, a causa della crisi economica, la crescita è divenuta l’obiettivo prioritario in tutti i campi dell’economia. A fronte di sempre più frequenti enunciazioni di principio circa l’importanza dell’innovazione per lo sviluppo dell’agricoltura e delle zone rurali, nella realtà italiana il sistema innovativo agricolo e le politiche a favore dell’innovazione presentano numerosi punti di debolezza. Si propongono quindi alcune riflessioni sul come fondare un nuovo corso di politica dell’innovazione, dando priorità a un approccio “orientato alla domanda”.

L’importanza dell’innovazione in agricoltura

Il documento “Europa 2020” traccia le linee dell’Unione Europea per il prossimo decennio: la priorità a breve è “superare la crisi”, ma la sfida di lungo termine è la crescita “intelligente”, basata sulla competitività indotta dalla conoscenza, “sostenibile” riguardo al rispetto dell’ambiente, e “inclusiva” relativamente alla capacità di favorire l’occupazione e la coesione sociale. Per ognuno di questi obiettivi è evidente il contributo che l’innovazione può fornire, nei suoi risvolti tecnologici, organizzativi e istituzionali (Commissione Europea, 2010a).
Questa visione è stata recepita dalla proposta di riforma della Politica agricola comune (Pac) presentata dalla Commissione Europea. La nuova Pac conserverà l’attuale struttura a due pilastri. Rispetto al passato, il primo sarà maggiormente indirizzato a promuovere la sostenibilità e l’equità, mediante l’allocazione obbligatoria di una quota di risorse non trascurabile a favore dell’ambiente, e il secondo sarà più orientato verso i risultati, con misure volte a favorire la competitività e l’innovazione. Pur rimanendo una significativa sproporzione di risorse impiegate tra i due pilastri a favore del primo, si nota il maggiore sforzo che la Commissione Europea si propone di compiere per perseguire la crescita intelligente, nei campi della formazione, dell’assistenza e del collegamento con la ricerca, al fine di migliorare la qualità dei prodotti, sviluppare tecnologie verdi e risparmiare risorse (Commissione Europea, 2011a). Gli stessi propositi sono stati ripresi in piani di settore del nostro Paese, come per esempio il piano cerealicolo recentemente approvato dalla Conferenza Stato-Regioni (Mipaaf, 2011). Si può affermare che l’innovazione è citata in generale come la chiave di volta per risollevare le sorti dell’agricoltura e dei comparti collegati.
A livello di politica della ricerca propriamente detta, sempre in ambito UE il ruolo strategico è svolto oggi principalmente dal settimo programma quadro 2007-2013. Le discipline connesse all’agricoltura sono coperte dall’area tematica “cibo, agricoltura, pesca e biotecnologia”. È in preparazione “Orizzonte 2020”, il programma quadro per il periodo 2014-2020, nel quale l’agricoltura occupa una delle sei priorità, denominata “sicurezza alimentare, agricoltura sostenibile, ricerca marina e bioeconomia”. Gli obiettivi dichiarati della strategia “Europa 2020” sono l’approvvigionamento di prodotti alimentari sicuri e di qualità, l’uso efficiente delle risorse, la competitività e il rispetto dell’ambiente (Commissione Europea, 2011b).
Questa enfasi sull’innovazione è sostenuta da una molteplicità di studi che attestano l’impatto positivo che le attività di ricerca e sviluppo svolgono a beneficio dell’agricoltura. Essi dimostrano che una quota sostanziale della crescita della produttività agricola negli ultimi cinquant’anni è stata generata dagli investimenti in ricerca e sviluppo. Per un approfondimento su questi temi, si rimanda alle meta-analisi internazionali (Alston et al., 2000; Alston, 2010) e agli studi sul caso italiano (Esposti et al., 2010; Esposti, 2010). In particolare, Alston (2010) mostra che, in base all’insieme di studi empirici raccolti, vi sono prove robuste che dimostrano che il mondo nel suo complesso e singoli paesi hanno tratto enormi benefici dalla crescita della produttività in agricoltura. Una parte notevole di questi benefici è da assegnare al progresso tecnologico derivante dagli investimenti pubblici e privati svolti nei campi della ricerca e sviluppo nel settore agricolo. L’evidenza empirica suggerisce che i benefici siano stati molto superiori ai costi. L’implicazione è che sarebbe stato proficuo aver investito molto di più nella ricerca e sviluppo agricola, anche laddove l’intervento pubblico era cospicuo.

I limiti del sistema innovativo agricolo italiano

Le ragioni che giustificano l’intervento pubblico nella promozione dell’innovazione in agricoltura sono documentate e anche empiricamente confermate dal fatto che molti governi praticano nel mondo questo tipo di sostegno. La teoria economica legittima questo tipo di intervento con l’esigenza di eliminare i “fallimenti del mercato”, i cui automatismi sono insufficienti a indurre le imprese a investire in nuovi processi e nuovi prodotti nella misura desiderabile. Da qualche decennio, anche a causa della progressiva diminuzione delle risorse pubbliche disponibili, l’attenzione si è concentrata sulla qualità della spesa e in particolare sulle soluzioni per migliorare l’efficacia e l’efficienza del complesso di attività dedicate alla promozione dell’innovazione, con un sguardo alla prestazione dell’intero insieme di soggetti coinvolti, in un’ottica sistemica (Vagnozzi, 2006). L’intervento pubblico, pertanto, ha trovato una nuova giustificazione nell’esigenza di contrastare i “fallimenti del sistema”, vale a dire i vincoli che, ostacolando la messa in rete di tutte le sue componenti attive e causano un ambiente poco favorevole all’innovazione.
Tali insiemi di componenti, in letteratura, hanno assunto diverse configurazioni e definizioni: in alcuni studi “sistema di ricerca agricola nazionale” (o National Agricultural Research System, NARS), in altri “sistema di informazione e conoscenza agricola” (o Agricultural Knowledge and Information System, AKIS) e in altri ancora “sistema innovativo agricolo” (o Agricultural Innovation System, AIS) (Spielman, 2006a e 2006b; Pilati, 2006; Hall et al., 2006; Esposti, 2008; Klerkx, 2009).
Al di là delle differenze tra una versione e l’altra delle rappresentazioni formali, in questa sede si utilizzerà il termine di sistema innovativo agricolo per significare l’insieme dei soggetti coinvolti nella crescita della conoscenza e nella diffusione dell’innovazione, con particolare riguardo ai loro rapporti reciproci. I principali attori sono le aziende agrarie e le loro organizzazioni, gli enti di ricerca (Università, Cnr, Cra) e di sviluppo (consulenza, educazione, formazione professionale, informazione), le banche, i fornitori di mezzi tecnici, le imprese di trasformazione e distribuzione e le pubbliche amministrazioni. Le responsabilità dell’inadeguato flusso di innovazione nell’agricoltura possono essere analizzate riferendoci alle caratteristiche di tali attori e delle loro relazioni. Alcuni dei punti critici del sistema sono noti da tempo, ma di difficile superamento, in quanto richiedono l’eliminazione di vincoli storici sui quali l’azione pubblica può contribuire solo nel lungo periodo: la limitatezza delle risorse; la ridotta dimensione economica delle imprese, che impedisce lo svolgimento di una vera attività di ricerca e sviluppo interna; la crescente complessità delle conoscenze necessarie per l’esercizio agricolo; la prevalenza di innovazioni importate da altri settori e da altri paesi, dal momento che l’agricoltura è un settore “dipendente dai fornitori” per i bisogni di innovazione (Pavitt, 1984; Nardone e Zanni, 2008).
Concentrando l’attenzione sulle variabili che è ragionevolmente possibile affrontare a breve-medio termine, si possono indicare, tra i molteplici fattori responsabili del basso grado di innovazione nell’agricoltura, i seguenti aspetti (Zanni et al., 2011).
Relativamente alle aziende agricole e alle loro organizzazioni, uno dei problemi principali è legato alla dispersione e alla frammentazione della domanda di innovazione, che per questo risulta poco raccordata all’offerta. Il settore primario soffre particolarmente di questa debolezza strutturale. Senza un’adeguata integrazione orizzontale e verticale è particolarmente difficile l’identificazione rigorosa delle priorità relative agli ambiti tecnologici di intervento. Sono collegati a questo problema il basso grado di consapevolezza, presso gli imprenditori e le loro rappresentanze, del ruolo e dei fattori d’innesco dell’innovazione e l’insufficiente capacità di comunicare con il mondo dell’informazione e con i consumatori. Nel passato, il grado di efficacia dei servizi di consulenza, divulgazione e formazione è stato limitato anche dalla scarsa partecipazione degli agricoltori alla loro gestione e, soprattutto, al loro pagamento diretto. Ciò è avvenuto sia riguardo ai servizi organizzati dal settore pubblico, sia rispetto all’assistenza tecnica privata, pressoché completamente incorporata nella vendita dei mezzi tecnici.
Il problema della frammentazione non esiste solo nell’ambito della produzione agricola, ma anche in quello degli enti che producono e diffondono l’innovazione. Sia i centri di ricerca, sia quelli di trasferimento presentano spesso dimensioni insufficienti, se confrontate con le realtà più organizzate presenti in altri paesi europei, per cui disperdono le già scarse dotazioni finanziarie nel mantenimento di strutture poco efficienti e nella conduzione di progetti di limitata massa critica. Relativamente alla ricerca agricola, si possono indicare tre poli principali, che fanno capo al Miur (sostanzialmente con l’Università e il Cnr), al Mipaaf (con il Cra) e alle Regioni, tutti caratterizzati al loro interno da elevati gradi di frammentazione. Basta pensare che nel 2007 il sistema universitario presentava 24 Facoltà di Agraria, 14 Facoltà di Medicina Veterinaria più numerosi gruppi di ricerca d’interesse agricolo sparsi in Dipartimenti vari (Vieri et al., 2006). In un contesto così frammentato possono comunque emergere realtà eccellenti, ma è arduo seguire un preciso orientamento strategico e soprattutto mantenere routine che premino il merito e la qualità scientifica (Esposti, 2008).
Quindi, nonostante la ricerca e la sperimentazione agraria italiana possa contare su non pochi centri di elevata eccellenza, c’è ancora molto da fare per rendere coordinata l’attività dei diversi enti e per ottimizzare le relazioni tra i mondi della ricerca, del trasferimento tecnologico e dell’impresa. A questo proposito, un ruolo di primissimo piano dovrebbe essere giocato proprio dall’istituzione universitaria, che agendo contemporaneamente su tre funzioni (la ricerca, la didattica e, più recentemente, ma in modo abbastanza consolidato in agricoltura, il trasferimento di tecnologie e saperi), rappresenta un attore privilegiato per contribuire al coordinamento dei processi lungo tutta la filiera della conoscenza.
Un limite fondamentale per il funzionamento dei meccanismi di promozione dell’innovazione ha riguardato gli incentivi. Infatti, da una parte, i meccanismi di carriera motivano i ricercatori più alla pubblicazione scientifica che non alla diffusione dei risultati applicativi: da ciò deriva l’accusa di eccesso di autoreferenzialità del mondo scientifico. Dall’altra, l’incentivazione presso i centri di sviluppo di parte pubblica o semipubblica non ha potuto rivelarsi particolarmente incisiva, mancando la dimensione sufficiente a creare reali progressi di crescita interna. Parimenti, il grado di specializzazione dei tecnici non è stato proporzionale alla crescita delle competenze richieste dall’avanzamento tecnico-economico. Al contrario, i tecnici operanti nel settore privato sono solitamente molto specializzati e le critiche sono semmai legate alla competenza eccessivamente settoriale e alla presenza di forti interessi commerciali.
La carenza di connessioni tra il mondo produttivo e la ricerca nel nostro Paese interessa non solo le imprese agricole, ma anche altri importanti segmenti a valle della filiera. Di particolare serietà è la scarsa integrazione con la Gdo, la cui importanza in campo agroalimentare sta crescendo in misura sempre più ampia. La Gdo rappresenta, anche attraverso lo sviluppo delle marche commerciali alimentari, un imprescindibile veicolo di comunicazione dei bisogni di innovazione in molti comparti (Esposti et al., 2010).
Tra i soggetti “infrastrutturali” del sistema innovativo agricolo, con l’introduzione degli accordi di Basilea, gli enti di credito rischiano di giocare un ruolo più ridotto rispetto al passato. Infatti, il Testo Unico Bancario ha posto l’agricoltura fuori dal regime speciale, che assicurava un accesso privilegiato al credito, avviandola nel sistema di credito d’impresa, caratterizzato da valutazioni oggettive del rischio e dall’obbligo di prestare severe garanzie. Gli aspetti potenzialmente critici in relazione all’innovazione sono due: da una parte, l’organizzazione contabile-amministrativa, storica debolezza agricola, rappresenta ora un requisito che regola l’accesso ai finanziamenti, il che può costituire un ostacolo agli investimenti per l’acquisizione di nuove tecnologie (Fontana, 2010); dall’altra, si è assottigliata la specializzazione del credito verso l’agricoltura e quindi la sua capacità di capirne in profondo i problemi di investimento (Bisaccia, 2008).
Tra i punti di debolezza ascrivibili al settore dell’amministrazione pubblica, vi è innanzitutto la limitatezza delle risorse stanziate per promuovere conoscenza e innovazione, che è dovuta in parte ai vincoli oggettivi della programmazione comunitaria e in parte è legata alla scelta di distribuire le disponibilità finanziarie evitando imbarazzanti selezioni tra le imprese destinatarie. Altri limiti sono legati all’efficacia degli strumenti e delle misure adottate, che dipende sia dalla natura tecnica delle singole scelte, sia dal grado di semplificazione e di flessibilità che la macchina amministrativa riesce a raggiungere. Ma più ancora che la quantità delle risorse e la snellezza tecnico-burocratica, la qualità di cui si sente la mancanza è la capacità politica di indicare significative opportunità di sviluppo e di proporre strategie innovative realmente percorribili, creando conseguentemente le premesse per promuovere un’innovazione coerente con i reali bisogni della base produttiva.

I limiti delle politiche a favore dell’innovazione

Appare evidente che tra gli aspetti maggiormente problematici vi è lo scarso coordinamento tra “politiche di ricerca” in senso stretto e “politiche agrarie a favore dell’innovazione”, con particolare riferimento a quelle finanziate dalla Pac. Ma anche guardando separatamente alla gestione effettiva delle risorse all’interno di ciascuno di questi due compartimenti, l’innovazione in agricoltura non emerge come una vera priorità strategica per i decisori politici del nostro Paese.
Riguardo alla politica della ricerca, dagli studi effettuati da Vieri (2006), Cucinotta (2006) ed Esposti (2008; 2010), si evidenzia non solo che vi è stata una bassa intensità dell’investimento rispetto agli altri Paesi a economia avanzata, ma anche un livello preoccupante di frammentazione, dispersione territoriale e disorganizzazione. Le responsabilità generali di tali politiche sono state infatti condivise tra ben sei Ministeri, mentre le unità di ricerca sono state disseminate in una pletora di dipartimenti universitari e centri di ricerca appartenenti a diverse strutture (Cnr, Cra, Regioni ecc.) con livelli di connessione e coordinamento nettamente inferiori al necessario, per quanto riguarda la distribuzione dei compiti, le funzioni e gli obiettivi strategici. Riguardo alla politica agraria, le misure di mercato della Pac, prevalentemente concentrate a sostenere il reddito degli agricoltori, prima attraverso il sistema degli aiuti accoppiati ai prezzi, poi con i pagamenti diretti disaccoppiati, possono aver esercitato un impatto solo indiretto sull’innovazione. Anche le misure strutturali, alle quali è stata destinata una quota minoritaria degli aiuti, non sempre si sono rivelate efficacemente indirizzate a una spinta diffusione del progresso tecnico. Negli anni più recenti, con il secondo pilastro, sono state finanziate in quantità crescente misure specifiche di promozione dell’innovazione, tramite i piani di sviluppo rurale (consulenza, progetti di filiera e simili) e, in precedenza, anche con i programmi Leader. I rapporti di valutazione riguardanti l’applicazione di queste misure danno conto di esiti sostanzialmente soddisfacenti rispetto alla molteplicità degli obiettivi, pur notando che il contributo alla competitività rivela aree di miglioramento (Oir, 2006; Pesce, 2008; Ade, 2010). Tra queste si possono segnalare la scarsa entità delle risorse, con conseguente compromissione della continuità dei servizi; scarsità di contenuto, talora poco rispondente sul piano tecnico alle richieste specifiche delle aziende; la mancanza di organizzazione e governance del servizio (Vagnozzi, 2010; Zanni et al. 2011).
Complessivamente, per quanto recenti ricerche attestino che l’adozione delle innovazioni declinerebbe, in uno scenario di assenza del sostegno della Pac (Viaggi, 2010; CAP-IRE, 2011), in generale si può affermare che l’innovazione mostra di aver svolto un ruolo meno rilevante rispetto a quello che le veniva attribuito nei documenti di principio che hanno ispirato le riforme della Pac stessa.

Un nuovo corso di politiche per l’innovazione

Emerge un quadro che suggerisce che i problemi da risolvere per avviare un nuovo corso di promozione dell’innovazione non risiedano esclusivamente nell’esiguità delle risorse, ma anche e soprattutto nella qualità dell’organizzazione del sistema, con particolare riferimento al miglioramento strutturale e al disegno delle politiche, in una chiave di crescente orientamento alla domanda.
Dal lato della “produzione” di innovazione (Dipartimenti universitari e centri di ricerca Miur e Mipaaf) serve innanzitutto una riorganizzazione delle strutture, in grado di facilitare il raggiungimento di un’opportuna massa critica. Solo enti di ricerca con cospicue dotazioni di strutture e personale possono aspirare a competere con le realtà scientifiche che primeggiano a livello internazionale. Nel nostro Paese, ciò può essere ottenuto unicamente con una rigorosa azione di selezione e riassetto, che adotti il merito scientifico e la capacità organizzativa come criteri prioritari e la valutazione come metodo per decidere sul potenziamento delle dotazioni e sulle carriere (Esposti et al., 2010). In accordo con questi principi, il riordino rispettivamente del Cra, del Cnr e dei Dipartimenti universitari, avvenuto negli ultimi anni, avrebbe potuto ottenere risultati più rilevanti, rispetto a quanto effettivamente riscontrato. Anche la realizzazione di un’organica rete di connessioni e collaborazioni tra i diversi centri di produzione scientifica appare ancora lontana dall’essere attuata. A questo proposito, servono iniziative analoghe a quanto svolto in sede europea dal comitato Scar (2007, 2008, 2011). La mancanza di fondi, di sinergie e di coordinamento sono problemi significativi anche per quanto riguarda il livello regionale. Occorre favorire la convergenza di più Regioni nel finanziamento di progetti di interesse comune e la creazione di piattaforme tecnologiche di area vasta per migliorare l’individuazione di priorità strategiche e per sollecitare il cofinanziamento di ricerche con i privati (Zanni et al., 2011). Dal lato delle misure di politica agraria per l’innovazione, la recente proposta della Commissione per la nuova Pac 2014-2020 sembra adottare un moderato potenziamento rispetto al passato, con tre novità di rilievo: il partenariato dell’innovazione, il potenziamento delle misure di cooperazione tra imprese e comunità scientifica e l’ampliamento del sistema di consulenza aziendale.
Il partenariato dell’innovazione agricola nasce proprio dalla consapevolezza delle carenze del sistema innovativo. Dovrebbe consistere in una serie di attività, a livello generale e nazionale, disegnate per stimolare le imprese verso l’adozione di nuove tecnologie, rimuovendo, tramite attività di informazione, animazione e divulgazione, quelli che abbiamo già indicato come i vincoli che ostacolano la mobilità della conoscenza all’interno dei nodi e dei canali di comunicazione del sistema: latenza della domanda, frammentazione degli Enti, scarso collegamento con le imprese e lentezza delle istituzioni.
Per assicurarne un buon funzionamento, occorre attivare tutti i meccanismi di coordinamento, compresa la sinergia tra le opportunità della Pac e quelle offerte dai programmi di ricerca, in primis del nuovo programma quadro comunitario. L’obiettivo finale deve essere lo sviluppo di un’agricoltura che produca “di più con meno", riducendo la tendenza a elevare la produttività a spese delle risorse ambientali.
Il potenziamento della cooperazione tra imprese e comunità scientifica dovrebbe essere declinato assegnando un’importanza preminente ai progetti pilota aziendali e agli interventi per lo sviluppo di nuovi prodotti, tecnologie e modalità gestionali nelle filiere agroalimentari, il più possibile tagliati su misura delle imprese richiedenti.
Infine, l’ampliamento dei servizi di consulenza dovrebbe essere indirizzato al miglioramento dei risultati economici e non solo di quelli ambientali. Rispetto alla consulenza “per l’ottemperanza” del passato, occorre allargare le misure decisamente verso la competitività, e quindi verso la promozione di innovazioni tecnico-gestionali in grado di elevare la produttività dei fattori, e non limitarsi agli obiettivi di mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici, di preservazione della biodiversità e protezione delle risorse idriche (Di Santo et al., 2006).
Seguendo questo approccio, in un contesto di elevata numerosità delle imprese agricole e di limitata disponibilità di risorse, dovrebbero essere distinti i servizi rivolti alle imprese professionali da quelli destinati alle aziende non professionali, concentrando per alcune misure l’attenzione sulle imprese con più elevata propensione innovativa. La fonte di ispirazione per interventi mirati alle imprese innovatrici potrebbe essere tratta dalle esperienze già maturate presso i settori a maggior livello tecnologico, anche in campo agro-industriale. In questi ambiti, in aggiunta alle tradizionali azioni di formazione e divulgazione, sono state affiancate altre misure più avanzate, come il supporto alla creazione di nuove imprese o di specifici soggetti di brokeraggio d’innovazione, come i distretti tecnologici e i centri di competenza (Nardone, 2012; Muscio et al., 2010).
D’altra parte, anche l’offerta pubblica di questi strumenti relativamente recenti può mostrare alcuni punti deboli, legati all’instabilità del sostegno finanziario, alla rigidità delle misure, all’eccesso di burocrazia, a un’offerta di innovazioni già in portafoglio e non basate sui bisogni effettivi dell’azienda. Per minimizzare questi problemi, l’amministrazione pubblica dovrebbe concentrare la propria azione verso interventi specificamente orientati alla domanda, volti a stimolare il mercato dei servizi privati di supporto all’innovazione e sviluppare un’offerta mirata più alle imprese innovatrici (o aspiranti tali) che non a quelle inerti.
Un servizio di questo tipo può essere organizzato su più livelli. Un primo livello, a costo limitato per l’impresa poiché sovvenzionato con risorse pubbliche, assume un obiettivo ampio, di stimolo della domanda di servizi per l’innovazione, laddove essa non esista ancora. Rivolto alle imprese che non hanno del tutto definito i propri bisogni di innovazione, questo consiste nelle seguenti attività: valutazione del potenziale, preparazione di progetti esecutivi, predisposizione di modelli di partecipazione a bandi. L’offerta di questo servizio può essere organizzata da soggetti pubblici o misti, ma comunque fortemente professionalizzati e il finanziamento può essere organizzato con il sistema del voucher. Tale sistema, peraltro, dovrebbe essere reso coerente con la proposta della Commissione, che indica i centri di consulenza come i beneficiari della misura. Il secondo livello di servizi è ad alta qualificazione e mira a migliorare nelle imprese la capacità di gestione dei processi relativi alle innovazioni di prodotto e processo, con particolare enfasi sulla competenza tecnologica e sulla protezione del valore economico dell'innovazione. Questo secondo tipo di servizi necessita di un contributo pubblico decrescente al crescere del grado di appropriabilità dei benefici e quindi della disponibilità a pagare dell’impresa che li riceve. I servizi consistono nella fornitura di supporto alle fasi di concezione, progettazione, sperimentazione, ricerca di mercato e gestione della proprietà intellettuale. L’offerta di questi servizi può essere organizzata da università, consorzi, studi tecnici, società di ricerca di mercato e simili. Lo strumento amministrativo attraverso il quale si può perseguire questo obiettivo può essere un bando periodico, al quale le singole imprese (o filiere) partecipino per ottenere un contributo pubblico calcolato come quota della spesa rendicontata per l’acquisizione del servizio da parte di agenzie di consulenza opportunamente accreditate.
Infine, per venire incontro alle esigenze di un’innovazione sempre più orientata alla domanda, i progetti di cooperazione tra ricerca e impresa dovrebbero essere impostati in modo da integrare tutte le forme di intervento, combinando le attività di ricerca, sviluppo e trasferimento tecnologico con coerenti iniziative di formazione professionale e consulenza.

Considerazioni conclusive

In conclusione, si può affermare che, di fronte alle lacune emergenti nel nostro AIS nazionale, si sta delineando un nuovo orientamento strategico. Esso è volto a passare da una situazione frammentata, poco coordinata e sostanzialmente improntata a una visione lineare (cioè trainata “dall’alto” del mondo scientifico) del processo che genera l’innovazione, a una nuova, basata sulla necessità di razionalizzare la spesa pubblica e di aumentare le relazioni tra attori, in modo da sfruttare la spinta “dal basso” esercitata dalla domanda delle imprese. Nel perseguire questi obiettivi, sono destinati a cambiare – e in parte già stanno cambiando - i principi ispiratori dell’intervento pubblico (da centralismo burocratico a decentramento con valutazione), i modelli di governance degli enti coinvolti (da politico a manageriale) e le modalità di finanziamento (da trasferimenti di risorse a pioggia a bandi competitivi, con accreditamenti e, possibilmente, voucher). Il successo di una strategia non dipende solo dalla quantità di risorse a disposizione. Tuttavia, sarebbe auspicabile che almeno un 15-20% delle risorse per la politica di sviluppo rurale fosse dedicato alla prima delle sei priorità (promuovere il trasferimento di conoscenze e l'innovazione nel settore agricolo forestale e nelle zone rurali). In ogni caso, i risultati di un tale insieme di cambiamenti saranno tanto più positivi quanto più gli attori del sistema sapranno cogliere concretamente le opportunità offerte dall’avvicinamento tra il mondo produttivo e quello scientifico. Oltre a risolvere le difficoltà insite nell’individuare i bisogni di innovazione, nel valorizzarne i risultati sul piano economico e nell’appropriarsi dei relativi benefici, occorrerà evitare i comportamenti opportunistici da parte di imprese, centri di ricerca e enti intermediari. Ciò eviterebbe di trasformare la cooperazione, la consulenza e le altre misure di supporto all’innovazione in mere opportunità di acquisizione di finanziamenti pubblici.

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