Distretti e sviluppo rurale: elementi per una lettura delle regole di diritto

Distretti e sviluppo rurale: elementi per una lettura delle regole di diritto
a Università della Tuscia, Dipartimento Istituzioni Europee

Premessa

La formula sintetica “Distretti e sviluppo rurale”, che in modo esemplare collega momenti centrali delle dinamiche di sviluppo su base locale (Pacciani, 1998 e 2003), sotto il profilo delle regole di diritto ha riferimento ad una pluralità di figure: distretti rurali, agricoli, agro-alimentari, agro-industriali, variamente definiti e disciplinati dalla legislazione, ma a tutt’oggi privi di un quadro di regolazione unitario.
Si tratta quindi di espressione più evocativa che precettiva, risultando i diversi regimi disciplinari dall’incrocio di una pluralità di momenti di regolazione e di intervento, tra loro non omogenei, connotati dal sovrapporsi fra normative esplicitamente indirizzate a regolare e sostenere il fenomeno, e normative che, investendo apparentemente altro ambito disciplinare, incidono significativamente su tematiche distrettuali (Albisinni, 2003).
In termini generali, si può dire che la disciplina dei distretti in agricoltura e nella ruralità ruota attorno a tre poli:
a) basi giuridiche dirette e dichiarate, articolate in alcuni principali nuclei di regolazione:

  • la normativa sui distretti industriali del 1991, riformata nel 1999;
  • la normativa sui distretti rurali e agroalimentari di qualità introdotta dai decreti di orientamento in agricoltura del 2001;
  • una copiosa serie di provvedimenti regionali, variamente riferiti ad uno o più dei nuclei di regolazione in riferimento;
  • la normativa sui distretti produttivi territoriali e funzionali introdotta dalle leggi finanziarie del 2006 e del 2007, e modificata nel 2008 e nel 2009;

b) basi giuridiche indirette, ma anch’esse dichiarate, presenti nella normativa in tema di accordi locali, differenziate nelle fonti, nel contenuto e nell’efficacia, e comprendenti:

  • la normativa comunitaria sulle iniziative integrate per le aree in ritardo di sviluppo, introdotta a partire dalla metà degli anni ‘80;
  • la normativa nazionale sulla programmazione negoziata, introdotta dalla fine degli anni ’80 e nel corso degli anni ’90, e più volte integrata negli anni successivi;

c) basi giuridiche non dirette e neppure dichiarate, in cui la parola distretti non compare, e che tuttavia incidono sulle esperienze distrettuali in agricoltura e nello sviluppo rurale, siccome investono il regime delle imprese che vi operano, e così:

  • gli interventi legislativi nazionali, che hanno riarticolato definizione ed ambito di operatività dell’impresa agricola, nell’ambito della legislazione di orientamento intervenuta dal 2001 al 2005;
  • le riforme della PAC, tanto con l’introduzione del Regime unico di pagamento che con il nuovo Regolamento sullo sviluppo rurale, ed i correlati provvedimenti regionali, con le conseguenti politiche di allocazione delle risorse.

Per favorire una lettura unitaria e ricostruttiva di questa complessa serie di interventi disciplinari, giova collocarli in una dimensione insieme temporale e sistematica, che consenta di dar conto delle sovrapposizioni e mutuazioni fra i diversi livelli e le differenti aree di regolazione.

I distretti e la programmazione negoziata

La parola “distretti” è stata introdotta nel lessico giuridico dalla legge n.317 del 5 ottobre 1991, in materia di “Interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese”, che ha dettato una formale definizione di “distretti industriali” ed ha previsto un’articolata disciplina, all’interno della quale era assegnato alle Regioni il compito di individuare le aree distrettuali, ed ai Consorzi di sviluppo industriale, costituiti quali enti pubblici economici, il compito di fornire servizi reali alle imprese.
Con originale disposizione, è stata poi prevista la conclusione di «un contratto di programma stipulato tra i consorzi e le regioni medesime», per la definizione di interventi finanziari in favore di progetti innovativi concernenti più imprese.
Già dall’iniziale introduzione di specifici contenuti normativamente fissati, la disciplina in tema di distretti ha così segnalato l’esigenza di individuare idonee soggettività esponenziali, ulteriori rispetto agli enti locali, valorizzando relazioni contrattuali fra soggetti pubblici e strutture d’impresa, o comunque strumenti consensuali di intervento pubblico nella sfera dell’economia, significativamente denominati «contratti», a segnare elementi di diversità anche semantica dai meccanismi autoritativi e concessori tradizionali.
Sistemi distrettuali e contratti vanno insomma di pari passo. E l’uso dell’espressione «contratto», a designare il «contratto di programma» chiamato a regolare i rapporti fra consorzi e regioni, non appare privo di rilievo, nella misura in cui rinvia all’assunzione di obblighi di fare.
Sul piano degli interventi disciplinari, le norme in materia di «programmazione negoziata», a partire dagli anni ’90, si connotano per un’esemplare vicenda di stratificazione di plurimi interventi normativi, di fonti primarie e subprimarie, al cui interno anche la distrettualità ha trovato esplicita collocazione, almeno terminologica, con progressiva estensione delle relative provvidenze dall’industria ai servizi, all’agroindustria, all’agroalimentare e all’agricoltura (Adornato, 1999 e 2005; Albisinni, 2002 e 2003).
All’interno di questo processo, hanno fatto la loro comparsa nel linguaggio giuridico, nella seconda metà degli anni ’90, i «distretti agricoli, agroalimentari ed ittici», non menzionati nel testo originario della legge sui distretti industriali del 1991.
Anche questo specifico intervento, peraltro, pur consentendo l’avvio di alcuni patti territoriali in agricoltura, ha lasciato irrisolte incertezze (e conflitti) sulla natura dei distretti agricoli ed agroalimentari così introdotti, sugli esiti della loro formale istituzione, sui soggetti di governo a vario titolo coinvolti, trattandosi di intervento fortemente connotato da profili di sostegno finanziario, più che di concreta configurazione di nuovi possibili statuti.
In questo quadro esiste evidente il rischio di un processo di immagine, più che di contenuti, per il quale una parola di successo, «distretto», viene suggestivamente estesa dai distretti industriali ai distretti agro-industriali, poi a quelli agro-alimentari, a quelli agricoli, a quelli rurali, senza che a ciò si accompagni una rimodulazione e riarticolazione degli strumenti, in ragione degli effettivi contenuti assegnati a tali modelli nelle loro differenziate implementazioni, e dei concreti possibili esiti, sistematici, ma anche operativi ed applicativi.
Il quadro normativo si è precisato con la legge 11 maggio 1999, n.140, che ha modificato la legge n.317 del 1991 sui distretti industriali, trasferendovi i modelli maturati in tema di patti territoriali e sviluppo locale, adeguando la disciplina alle novità nel frattempo intervenute sul piano dell’organizzazione dello Stato, ed inserendo la previsione dei «sistemi produttivi locali», oltre che dei distretti industriali e dei consorzi di sviluppo industriale.
Sotto il profilo istituzionale, la nuova disciplina ha riconosciuto ampio spazio alle Regioni per la scelta dei propri interlocutori, compresi nella generale categoria dei «soggetti pubblici o privati», nonché per l’individuazione dei sistemi produttivi locali e per il finanziamento di progetti innovativi e di sviluppo dei sistemi produttivi locali, predisposti da soggetti pubblici o privati.
Sul piano delle definizioni in diritto, però, anche la legge del 1999 ha lasciato irrisolto il quesito sull’identificazione dei contenuti distintivi delle plurime figure di distretti in agricoltura.

La legislazione di orientamento

La legge delega in agricoltura, n. 57 del 5 marzo 2001, è intervenuta pertanto su una questione rilevante, lì ove – fra gli altri compiti – ha assegnato al legislatore delegato anche quello di «a) promuovere, anche attraverso il metodo della concertazione, il sostegno e lo sviluppo economico e sociale dell'agricoltura, dell'acquacoltura, della pesca e dei sistemi agroalimentari secondo le vocazioni produttive del territorio, individuando i presupposti per l'istituzione di distretti agroalimentari, rurali ed ittici di qualità ed assicurando la tutela delle risorse naturali, della biodiversità, del patrimonio culturale e del paesaggio agrario e forestale;» (art. 7, legge cit.).
Agricoltura e territorio, nella legislazione di orientamento, hanno così trovato un dichiarato fondamento comune, con elementi di significativa novità, caratterizzati dalla ricerca di canoni idonei a tradurre in regole di diritto una condivisa dimensione territoriale, che ne rispetti le vocazioni produttive, e che tenga conto nel loro insieme degli aspetti naturali ed umani, secondo prospettive di sostenibilità orientate a coniugare qualità dell’ambiente e qualità dei processi produttivi, progressivamente estese a proiettare questi elementi sulle stesse caratteristiche dei prodotti e dei servizi ottenuti, siccome espressione del territorio e dei sistemi di imprese «geograficamente prossime ed economicamente interconnesse» che vi operano (Rook Basile, 2001).
In particolare, quanto ai «distretti rurali», l’uso dell’espressione come categoria giuridica, e non più soltanto economica, rinvia alla politica europea per lo sviluppo rurale e ad alcune iniziative locali, che ancor prima del regolamento n.1257/1999 avevano adottato quella del distretto rurale come formula idonea ad esprimere le «molteplici interazioni tra l’agricoltura e il mondo rurale extra-agricolo» (Pacciani, 1998).
Il successivo decreto delegato n. 228/2001, all’art. 13, ha collocato i distretti rurali e i distretti agroalimentari all’interno della più ampia categoria dei «sistemi produttivi locali», e così all’interno della definizione introdotta dalla richiamata legge n.140 del 1999, di modifica della legge n.317 del 1991, ma non ha introdotto elementi di specifica disciplina in ragione dell’applicazione alle zone agricole del modello distrettuale, né ha precisato quali siano le articolazioni del disegno di governo, non solo economico, delle comunità locali, sotteso alle definizioni così introdotte.
In esito alla legislazione di orientamento, insomma, il disegno istituzionale della distrettualità rurale ed agroalimentare, e più in generale di quella agricola, è rimasto in larga misura l’enunciato di uno spazio teorico, i cui contenuti attendono l’intervento delle Regioni, anche in esito alla riforma costituzionale del 2001 ed alla riscrittura del Titolo V della Costituzione.

La più recente disciplina comunitaria e gli interventi delle Regioni

Il ruolo delle Regioni e degli altri soggetti di governo locale è stato ulteriormente valorizzato dalla più recente disciplina comunitaria.
Come è noto, anticipazioni della distrettualità in agricoltura e nella ruralità si rinvengono nel diritto comunitario a partire dagli Anni ’80 con i P.I.M. e poi negli Anni ’90 con i Progetti Leader e Leader Plus (Rete Rurale Nazionale, 2007) e con l’attenzione allo “spazio rurale” (Hudault J. e Hernandez-Zakine, 2000).
Ma è con l’ultimo regolamento sullo sviluppo rurale, n. 1698 del 2005, che la dimensione distrettuale è divenuta una componente essenziale, connotante l’intera politica europea di governo del settore primario. Il precedente regolamento sullo sviluppo rurale, n. 1257 del 1999, si apriva con l’indicazione delle misure sostenibili, e dedicava soltanto negli ultimi articoli alcune disposizioni ai profili programmatori, rinviando sul punto al separato regolamento n. 1260/1999. Il regolamento n. 1698 del 2005 dedica sia il Titolo I che il Titolo II al quadro istituzionale ed all’impostazione strategica. Da qui l’attenzione ai plurimi soggetti della programmazione, individuati sulla base dei criteri di complementarietà e partenariato, e l’esplicito richiamo agli Stati membri (formula che, nel caso dell’Italia, impegna sia il Governo nazionale che le singole Regioni) a coinvolgere, nel piano strategico nazionale e nei programmi regionali di sviluppo rurale, oltre a «gli enti pubblici territoriali e altre autorità pubbliche competenti», «le parti economiche e sociali e qualsiasi altro organismo rappresentativo della società civile», «le organizzazioni non governative, anche quelle ambientali e gli organismi per la promozione della parità tra uomini e donne», disponendo che: «Il partenariato interviene nell'elaborazione e nella sorveglianza dei piani strategici nazionali, nonché nella preparazione, attuazione, sorveglianza e valutazione dei programmi di sviluppo rurale (art. 6 reg. cit.).
Ne risulta una relazione fra sviluppo rurale e Politica agricola comune, che nel diritto europeo dell’agricoltura valorizza la diversità e l’autonomia, ma richiede insieme «complementarietà, coerenza e conformità» (art. 5 reg.1698/2005), ed impone a tutti i protagonisti (ed anzitutto ai regolatori nazionali e regionali) scelte e responsabilità non rinviabili.
In questo disegno istituzionale, il sistema locale delle imprese del settore primario costituisce un protagonista collettivo necessario già al momento delle adozioni delle scelte, e poi nella loro applicazione e controllo.
All’interno del complessivo quadro disciplinare nazionale e comunitario così definito, le regioni sono intervenute più volte sui temi della distrettualità, con una serie di provvedimenti, che possono essere ordinati lungo alcune principali linee:

  • leggi regionali collocate all’interno del modello sistematico sui distretti industriali (e poi sui sistemi produttivi locali), introdotto dalla legge n. 317/1991 e poi dalla legge 140/1999;
  • leggi e provvedimenti regionali che fanno riferimento alle strade del vino o dell’olio;
  • leggi regionali che utilizzano le definizioni di distretti rurali e distretti agroalimentari di qualità introdotte dal decreto legislativo n. 228/2001;
  • provvedimenti regionali, di varia natura, sia legislativi che amministrativi, che in vario modo operano secondo modelli distrettuali di intervento, pur non collocandosi esplicitamente né nell’ambito della legge 317/1991 né nell’ambito del decr. leg.vo 228/2001; in questo gruppo di provvedimenti vanno collocati, con peculiare rilievo, i diversi Piani regionali di sviluppo rurale, che hanno utilizzato strumenti integrati di sostegno delle economie locali, e fra questi i Progetti Leader.

Va detto, peraltro, che questa ampia e diversificata serie di interventi regionali, in larga misura si colloca all’interno di una logica di formalizzazione burocratica, che lascia ben poco spazio ad esperienze di effettiva auto-organizzazione, a partire dall’essenziale scelta dei canoni per l’individuazione/riconoscimento dei distretti.
Nella stragrande maggioranza dei casi il procedimento segue linee bottom-down, dislocandosi lungo linee bottom-up soltanto in una minoranza di casi (Minelli, 2010).
Il ruolo assegnato alla P.A. risulta dominante, e l’intera struttura è prevalentemente modellata secondo impianti di tipo pubblicistico-amministrativo, piuttosto che privatistico-imprenditoriale, risultando nei fatti ben poco coerente rispetto al modello di organizzazione distrettuale a base locale ed autogovernata, che a parole si dichiara di voler promuovere.

Elementi per un’impresa agricola distrettuale

Se quanto agli aspetti istituzionali e di governo, l’art. 13 del decreto legislativo n. 228 del 2001 ha aperto aree problematiche forse più ampie di quelle alle quali ha fornito alcune prime risposte, va detto che rilevanti elementi per un innovativo sistema di regole della distrettualità agricola, sono presenti in altre disposizioni del medesimo decreto legislativo di orientamento, ed in specie in quelle che hanno investito la stessa definizione di impresa, configurando un’ impresa agricola di fase (Albisinni, 2002), oltre che nella generalizzata previsione di un regime di specialità per i contratti locali degli imprenditori agricoli con la pubblica amministrazione (Bruno, 2001).
Secondo sistematiche ben note, la distrettualità trova i suoi elementi connotanti nell’esistenza di imprese di fase, nel senso che all'interno di un unico territorio le produzioni vengono ripartite in fasi distinte, ma tutte tra loro funzionalmente collegate, sicché destinatario dell’attività della singola impresa non è necessariamente il cliente finale, ma per larga parte un’altra impresa, operante nel medesimo territorio in una fase diversa della filiera.
Questa analisi economica dell’imprenditorialità agricola non aveva sin qui trovato conforto in formulazioni legislative e sistemazioni giuridiche, fortemente radicate nelle logiche dell’uniaziendalità e unisoggettività.
Le disposizioni dei decreti legislativi si sono mosse invece nel senso di favorire l’emersione, anche sul piano giuridico, di una possibile impresa agricola di fase, operante nel territorio di appartenenza, in stretto collegamento con le altre imprese d’area, agricole e non agricole. Il riferimento è anzitutto al nuovo testo dell’art.2135 cod.civ., che per attività essenzialmente agricole intende «le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale», lì ove il testuale ed espresso riferimento alla «fase» del ciclo biologico sollecita possibili letture nel senso della relazione fra imprese. La disposizione si propone con carattere innovativo ancor più accentuato, nella sostanza e non soltanto nelle forme espressive, siccome esplicitamente riferita anche alle attività di coltivazione, ove si consideri che, secondo risalenti ed a lungo consolidati insegnamenti, per coltivazione del fondo ai sensi del testo originale dell’art.2135 cod.civ. doveva intendersi il «complesso unico ed inscindibile del ciclo dei lavori svolti dall’agricoltore per conseguire i prodotti immediati e diretti della terra, dalla rottura del suolo al raccolto» (in tal senso già Bassanelli, 1943).
L’esplicita assunzione fra le attività essenzialmente agricole, di un’attività relativa soltanto ad una fase del ciclo biologico, rompe la richiamata unità e inscindibilità del «ciclo dei lavori dell’agricoltore», sin qui ritenute elemento essenziale dell’organizzazione imprenditoriale agricola.
La forte novità dell’approccio appare evidente, ove si consideri che il testo oggi vigente dell’art.2135 cod. civ. non fa riferimento in ipotesi al compimento della «fase finale» del ciclo biologico, ma ad una «fase necessaria», e così anche alle fasi intermedie, e pertanto non alla produzione di prodotti finiti (non ancora esistenti in quanto tali nelle fasi intermedie), ma alla prestazione di servizi per le imprese.
Invero, le attività di servizi che investono fasi necessarie ma non finali della coltivazione, per loro stessa natura non sono destinate al consumatore (interessato al prodotto finale, consumabile, che si ottiene a conclusione dell’intero ciclo produttivo, e non alle fasi intermedie, pur necessarie), ma possono essere prestate soltanto in favore di un’altra impresa, che le richiede in funzione di successive fasi del medesimo ciclo.
L’agrarietà ex se dell’attività di cura di una fase necessaria, ma non finale, del ciclo produttivo agrario, secondo l’attuale testo dell’art.2135 cod. civ., acquista dunque un possibile senso (comune ed economico) soltanto nel rapporto fra imprese, e così nella prospettiva distrettuale.
Sono palesi gli elementi di novità, rispetto ai modelli che, muovendo dalla formula codicistica del 1942, valorizzavano, a fini di definizione e qualificazione, esclusivamente le relazioni fra attività all’interno della medesima impresa, utilizzando la categoria delle attività connesse.
Sicché, il richiamo del legislatore delegato del 2001, alle fasi della coltivazione e dell’allevamento, risulta non occasionale e disordinante, quale potrebbe apparire per confronto con la limpida geometria del modello classico, ma esprime piuttosto un tentativo di risposta alla tensione verso formule originali, idonee ad esprimere la complessità dell’organizzazione territoriale e distrettuale dell’agricoltura dell’oggi.
Elementi per l’emersione, sul piano disciplinare, di un’impresa agricola di fase, orientata in prospettiva distrettuale, si rinvengono anche nel decreto di orientamento n.227/2001 sul settore forestale, lì ove l’art. 8 ha dichiarato «equiparati» agli imprenditori agricoli «le cooperative ed i loro consorzi che forniscono in via principale anche nell’interesse di terzi servizi nel settore selvicolturale», prescindendo dalle qualificazioni soggettive degli aderenti a tali cooperative e consorzi; ed in numerose altre disposizioni dei decreti di orientamento, che hanno introdotto plurime figure di imprese, “considerate agricole” od “equiparate” a quelle agricole, con norme distinte e separatamente collocate rispetto al nuovo testo dell’art. 2135 cod. civ.
La pluralità delle figure così introdotte riporta ad un innovativo ed originale sistema di regole, che affianca ai canoni tradizionali della connessione unisoggettiva ed uniaziendale, una pluralità di soggetti, chiamati a svolgere, in favore delle altre imprese e delle pubbliche amministrazioni, attività di servizi, qualificate come agricole in ragione di una prospettiva di integrazione fra i diversi soggetti impegnati nella produzione.
Sembra dunque che possa convenirsi che ha trovato legittimazione normativa la previsione di un’impresa agricola di fase (Albisinni, 2002), che è agricola perché come attività principale provvede alla cura di una fase del ciclo biologico (e con ciò è, fra l’altro, soggetta ai rischi ed eventi, biologici e meteorici, che secondo tradizionale, pur se contestata, dottrina sarebbero alla base dello statuto di specialità), e che è necessariamente territoriale perché opera con mezzi e risorse in un territorio dato (il distretto, appunto) in funzione della domanda degli imprenditori agricoli collocati lungo la medesima filiera produttiva, ma che non necessariamente è fondiaria perché non è stabilmente collegata ad un unico fondo.
Ne emerge – forse al di là delle stesse consapevoli intenzioni del legislatore delegato e delle incerte espressioni da questi adottate – anche sul piano della disciplina giuridica una possibile «lettura sistemica delle relazioni intersettoriali presenti nell’economia reale» (Jannarelli, 2003), che rende manifesta una dimensione di impresa in agricoltura, che non si esaurisce nei confini del fondo, ma si nutre della relazione per linee verticali di filiera e per linee orizzontali di sistema produttivo locale.

Le leggi finanziarie del 2006 e del 2007, i distretti produttivi, e i contratti di rete

Significative indicazioni nel senso della configurazione giuridica di modelli di imprese distrettuali – e conferme di quanto sin qui osservato in tema di integrazione fra sistemi di imprese – sono state da ultimo introdotte dalle leggi finanziarie 2006 (legge 266/2005, art.1, commi 366-372) e 2007 (legge 296/2006, art. 1, commi 889-890), integrate e modificate nel 2008 (art. 6-bis, d.l. 112/1008) e nel 2009 (art.3 d.l. 5/2009). Con originale formulazione, queste leggi hanno previsto una peculiare disciplina, che attribuisce rilevanza pubblica a scelte operate attraverso gli strumenti privatistici del contratto e del mandato.
Ai sensi della legge finanziaria del 2006, i “distretti produttivi” sono «libere aggregazioni di imprese articolate sul piano territoriale e sul piano funzionale, con l’obiettivo di accrescere lo sviluppo delle aree e dei settori di riferimento, di migliorare l’efficienza nell’organizzazione e nella produzione, secondo principi di sussidiarietà verticale ed orizzontale, anche individuando modalità di collaborazione con le associazioni imprenditoriali» (Art. 1, comma 366, legge 266/2005).
La formulazione è originale, anche rispetto a quelle contenute nella legge n. 317/1991 e nella legge n. 140/1999. Qualificare i distretti produttivi, siano essi territoriali o funzionali, come “libere aggregazioni di imprese” e collocarli nell’ambito delle espressioni della “sussidiarietà orizzontale e verticale”, riporta il fulcro disciplinare verso la base produttiva, accentuandone i profili di auto-organizzazione ed auto-determinazione, e nel contempo sottolinea gli elementi soggettivi, rispetto ad un precedente approccio che sembrava enfatizzare una visione quasi organicistica.
La scelta sul piano delle definizioni è confortata dalla disciplina operativa, articolata in disposizioni: a) fiscali; b) amministrative, c) finanziarie; d) per la ricerca e lo sviluppo.
Senza entrare nel merito delle numerose specifiche disposizioni, giova sottolineare che ai distretti produttivi come sopra definiti è data la facoltà di rappresentare le imprese secondo le generali norme in materia di mandato ex artt. 1703 e ss. cod. civ. e di stipulare accordi di portata generale di oggetto sia fiscale che amministrativo, fra l’altro con la previsione di un meccanismo di determinazione concordata del reddito imponibile e del carico tributario su base triennale ed in riferimento complessivo alle imprese aderenti al distretto, e con attribuzione al distretto della responsabilità di ripartire il carico tributario tra le imprese interessate, «in base ai criteri di trasparenza e parità di trattamento, sulla base del principi di mutualità».
I distretti così configurati intervengono all’interno dei procedimenti amministrativi autorizzatori intrattenuti con la P.A., assumendo funzioni di rilievo pubblico e di garanzia. Coerentemente con questa previsione, i distretti produttivi sono altresì chiamati a rappresentare in modo unitario le imprese aderenti sul piano dei rapporti con le istituzioni finanziarie, oltre che in sede di istruttoria delle diverse pratiche di interesse.
Si tratta di un modello che attribuisce rilevanza pubblicistica alle forme privatistiche di autorganizzazione delle imprese, ma non interviene all’interno delle scelte organizzative, ed in questo senso si differenzia fortemente rispetto alle richiamate esperienze regionali.
Ai distretti produttivi possono aderire anche le imprese agricole e della pesca, e la relativa disciplina si applica anche «ai distretti rurali e agro-alimentari di cui all'articolo 13 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228», ed. La normativa così introdotta non ha ancora avuto compiuta applicazione, né ha trovato adeguato sostegno finanziario, essendo stato emanato soltanto il D.M. 28 dicembre 2007, che - sulla base di quanto previsto dalla legge finanziaria del 2007 - ha finanziato in via sperimentale alcuni progetti regionali e nazionali in favore di distretti produttivi, con un finanziamento assai limitato, che per tutte le regioni ammonta a 40 milioni di euro, e per i progetti nazionali a 10 milioni di euro complessivi. Questo finanziamento sperimentale è indirizzato a “distretti produttivi”, le cui caratteristiche e modalità di individuazione rimangono incerte, non essendo stati adottati i decreti del Presidente del Consiglio, che ai sensi del comma 366 dell’art. 1 della legge 266/2005 avrebbero dovuto definire “caratteristiche e modalità di individuazione dei distretti produttivi”.
E’ tuttavia significativo sottolineare che nei primi progetti sperimentali ammessi a finanziamento sulla base del D.M. 28 dicembre 2007, le iniziative agricole ed agro-alimentari hanno trovato spazio non secondario, con ciò confermando la tendenza ad assumere anche il settore primario e quelli ad esso collegati in una considerazione unitaria, all’interno delle leve di governo territoriale dell’economia.
Da ultimo, poi, hanno fatto il loro ingresso, fra gli strumenti disponibili ai fini del sostegno all’innovazione delle strutture produttive, le reti di imprese ed i contratti di rete, con contenuti e formule interamente riscritti e modificati nell’arco di pochi mesi, in un continuo sovrapporsi di provvedimenti legislativi.
Nell’agosto 2008, la legge n. 133, di conversione del d.l. 25 giugno 2008, n. 147 ha introdotto, con la rubrica “Distretti produttivi e reti di imprese”, disposizioni per favorire lo sviluppo del sistema delle imprese attraverso azioni di rete.
Pochi mesi dopo, e prima di qualunque concreta applicazione, tali disposizioni sono state abrogate – ad opera della legge n. 33/2009, di conversione del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5 – e sostituite con l’introduzione del contratto di rete, con ciò intendendo il contratto «con cui due o più imprese si obbligano ad esercitare in comune una o più attività economiche rientranti nei rispettivi oggetti sociali allo scopo di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul mercato», e prevedendo che alle reti di imprese risultanti da questi contratti si applicano le disposizioni previste per i distretti produttivi dalla legge finanziaria del 2006, con l’eccezione di quelle relative ai profili fiscali.
Un siffatto alluvionale approccio legislativo rischia evidentemente di risolversi in enunciati affermati più che praticati. Ne risulta tuttavia confermata la tendenza verso l’adozione di regole dell’agire su base insieme consensuale e territoriale, per loro stessa natura interagenti con le forme organizzazione della produzione in agricoltura.

Distretti e Sviluppo rurale: regole ed opportunità

Il processo di riforma che ha segnato questi anni, e che si è articolato in una pluralità di provvedimenti non sempre tra loro coesi, ha dunque introdotto elementi peculiari nella disciplina dei sistemi locali nelle aree rurali.
Ne emergono alcune possibili considerazioni di sintesi, alla stregua in particolare delle linee evolutive della politica agricola.
Nel complessivo disegno istituzionale, la leva territoriale è andata assumendo il ruolo di decisivo componente nelle scelte di mercato, a fini di utilizzazione sostenibile delle risorse esistenti, accanto a quello tradizionale di sede di allocazione di beni o di iniziative.
Lo stesso tema della programmazione ha assunto contenuti originali, in ragione insieme delle finalità, degli strumenti, e delle modalità operative adottate.
Accanto alla previsione di flessibili modalità di regolazione, che dal piano delle leggi trasmigrano nella sede propria degli atti di governo (sicché la temporaneità e tentatività proprie di ogni scelta di programmazione si traducono in strumenti, che del fenomeno assumono l’identità), rilievo crescente hanno assunto – anche nelle più recenti innovazioni legislative – i temi del contratto e del mercato.
Ne risulta evidente il legame tra distrettualità, contratti e partenariato territoriale.
La configurazione di attività plurime, complessivamente e congiuntamente assunte dalle comunità locali e dai produttori in essa stabiliti, si connota, in questa prospettiva (confortata da emergenze normative, incerte nei singoli contenuti ma inequivoche nella linea evolutiva), non quale presupposto per un sostegno occasionale inteso a riequilibrare condizioni vantaggiose, ma piuttosto quale componente stabile di sistemi territoriali.
Il soggetto pubblico – ed in particolare il soggetto di governo locale, sia esso la Regione o altro Ente, territoriale o non territoriale – è chiamato a porsi come contraente-committente-cliente-fornitore, con ciò che ne segue in termini di obbligazioni, responsabilità, garanzie, tempi, azioni, danni, nei confronti dell’intera comunità locale dei produttori.
A sua volta, l’impresa agricola di propone come impresa di fase e distrettuale, collocata in una dimensione di integrazione territoriale e produttiva.
In esito al sedimentarsi di tasselli e frammenti di norme e di regolazioni, le regole di diritto dell’oggi, comunitarie e nazionali, consentono così – sul piano della disciplina giuridica - di individuare nel distretto rurale un modello di organizzazione e di governo diffuso e condiviso, chiamato ad articolarsi in forme legate al fare, privilegiando originali moduli convenzionali fra soggetti privati e pubblici.
Certo, la pratica di questi anni dei soggetti pubblici di governo, regionale e statale, appare largamente inadeguata e contraddittoria rispetto alle rilevanti innovazioni legislative sin qui richiamate. Spetta dunque alle comunità ed ai sistemi produttivi locali assumere l’iniziativa, utilizzando in modo attivo le opportunità offerte dal nuovo sistema di regole.

Riferimenti bibliografici

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