La normativa europea e i ritardi dell’Italia
Spesso accade che il progresso tecnico sia indotto da normative fortemente limitanti e che le scelte imprenditoriali siano vincolate dalla necessità di rispettarle e di adeguarvisi in breve tempo. Tale è anche il caso della cosiddetta “Direttiva Nitrati”, che da più parti è vista come “spada di Damocle” sulla zootecnia intensiva della pianura padana. Tuttavia l’applicazione della Direttiva in questione rappresenta anche un caso di cattiva o approssimativa gestione delle procedure da parte della pubblica amministrazione: infatti, oggi gli imprenditori e il sistema amministrativo devono adeguarsi in tempi molto stretti alle indicazioni che essa contiene perché per molti anni le decisioni richieste dalla Direttiva, risalente al 12 dicembre 1991, sono state rinviate o applicate solo parzialmente.
Nel corso degli anni ’80, quando l’attività agricola iniziò ad essere messa sotto osservazione per gli effetti indesiderati sull’ambiente e sulla salute umana, effetti in alcuni casi giustificati ed in altri solo presunti, uno dei primi campi di analisi fu la presenza di nitrati nelle acque (che crescevano al ritmo di 1 mg/l all’anno e per i quali furono stabiliti un valore guida di 25 mg/l e un valore soglia di 50 mg/l). Il loro incremento era dovuto in gran parte alla concentrazione di allevamenti intensivi; oltre i valori soglia vi sono conseguenze negative sulla salute dell’uomo, che li assume attraverso l’acqua potabile e gli alimenti, su quella degli animali stessi e sull’ambiente (il fenomeno più conosciuto è l’eutrofizzazione delle acque marine, presente in misura significativa nell’Adriatico). Ma contemporaneamente i nitrati sono fonte essenziale di nutrimento per le piante, la cui capacità di assorbimento dipende da numerosi fattori, quali le condizioni climatiche e la struttura dei suoli.
La Direttiva Nitrati (CE 91/676) forniva agli Stati membri indicazioni per determinare il livello di inquinamento effettivo o potenziale delle acque superficiali e profonde e dava tempo due anni per individuare le Zone Potenzialmente Vulnerabili ai nitrati (ZVN) e per redigere Piani di azione a carattere locale e codici di buona pratica agricola, contenenti criteri per limitare l’uso degli effluenti zootecnici e degli apporti dei concimi azotati. La mancata o incompleta definizione di queste misure (in particolare l‘individuazione delle ZVN non conforme ai criteri comunitari) sono valsi all’Italia una procedura d’infrazione, con la conseguente necessità di estendere notevolmente le aree comprese nelle ZVN e di imporre agli imprenditori vincoli molto stretti da rispettare in tempi rapidi. Le Regioni della pianura padana avevano applicato la Direttiva nei tempi previsti (ad es. la Lombardia con la L.R. 37 del 15/12/1993) stabilendo però ZVN molto limitate e parametri tecnici ritenuti insufficienti (quantità di azoto derivante dalle diverse specie). Si è quindi rinviato l’affronto del problema su vasta scala e, contemporaneamente, non sono state avviate efficaci azioni di governo e promosse tecniche di equilibrato smaltimento dei reflui zootecnici. In altri Paesi europei (quali Olanda, Belgio, Germania) il problema è stato affrontato con maggiore gradualità e con azioni condivise dai produttori, consentendo loro di ottenere anche deroghe temporanee o per alcune specifiche modalità di allevamento.
L’iniziale delimitazione di ZVN ristrette e di bassi parametri tecnici ha consentito sino al 2006 un generale aumento del carico di bestiame per ettaro ed agli allevamenti ricadenti nelle aree vulnerabili di rispettare agevolmente i limiti ricorrendo allo spandimento di reflui sui terreni di aziende vicine. Si sono, quindi, verificati rilevanti fenomeni di concentrazione in poche province dei capi allevati delle diverse specie (bovini, suini ed avicoli) che hanno portato ad elevati carichi zootecnici per unità di superficie e ad un peggioramento della qualità delle acque.
L’introduzione dei Piani di Utilizzo Agronomico (P.U.A.) dei reflui e dei bilanci di concimazione, previsti già dalle prime normative, ha comunque consentito agli agricoltori di migliorare le tecniche di concimazione e di ridurre l’impiego di azoto di sintesi, con la conseguente diminuzione dei costi: a livello europeo tra il 1999 ed il 2003 l’azoto distribuito è calato del 2% l’anno (Commissione UE, 2007), ma permangono numerose aree dove la “pressione dell’azoto” di origine zootecnica sulla superficie agricola supera abbondantemente il limite di 170 kg/ha stabilito dalla Direttiva.
La notifica nel 2006 della procedura di infrazione (1) e la richiesta dell’UE di estendere notevolmente le aree vulnerabili (documentata anche dalle analisi delle acque con valori spesso superiori ai limiti) hanno costretto lo Stato e le Regioni ad emanare nel corso del 2006 nuovi provvedimenti molto più restrittivi (2) (Sommariva, 2007). Nel frattempo, con la riforma Fischler del 2003, il rispetto della Direttiva è stato inserito tra gli obblighi della condizionalità e le nuove misure dello sviluppo rurale vietano finanziamenti alle imprese per l’adeguamento a norme già in vigore.
Le misure previste dalla Direttiva sono quindi divenute di colpo vincolanti ed i tempi di adeguamento per gli allevamenti sono molto ristretti. In numerose province della pianura padana la definizione di nuovi parametri tecnici per le diverse specie di azoto escreto e distribuito al campo, superiori rispetto ai precedenti, rendono arduo ed oneroso il mantenimento di tutti i capi attualmente allevati anche ricorrendo ad una gestione consortile dei reflui perfettamente ottimizzata.
Le soluzioni tecniche
In questa situazione di “emergenza”, accanto a soluzioni gestionali e tecniche sensate e ragionevoli, ma che comunque richiedono tempi non brevi per essere attuate e cospicui investimenti, sono state sottoposte agli allevatori soluzioni irrazionali o “miracolistiche”, non sostenute da seri dati scientifici. A fronte di uno scenario confuso e incerto i produttori zootecnici hanno reagito in modi differenti e non sempre razionali.
Uno dei primi effetti indesiderati si è verificato nelle aree caratterizzate dai carichi zootecnici più elevati, dove si è scatenata la corsa all’acquisizione di terreni, con immediati riflessi su valori fondiari e canoni di affitto già di per sé elevati. Il riequilibrio del carico di bestiame per unità di superficie potrebbe ovviamente essere raggiunto anche riducendo i capi allevati, ma tale soluzione porterebbe ad una sottoutilizzazione delle strutture aziendali e ad un incremento dei costi fissi per capo o per unità di prodotto, con la probabile chiusura di molte attività.
La quantità e le forme di azoto escreto dal bestiame dipendono anche dai sistemi di alimentazione e, ottimizzando la razione, si potrebbero ottenere significative riduzioni dell’azoto nitrico (Mantovi, 2007, Grignani et al.,2007): tuttavia tale soluzione rende necessario misurare l’azoto prodotto a livello aziendale con oneri superiori a quelli derivanti dalla semplice applicazione degli standard stabiliti dalle normative.
L’ottimizzazione delle epoche e delle modalità di distribuzione dei reflui, trattati e non trattati, anche se ottime dal punto di vista ambientale, non vanno a modificare il surplus di azoto apportato al campo. Numerosi studi documentano la possibilità di mantenere inalterato il carico di bestiame per ettaro riducendo notevolmente i surplus azotati, attraverso una corretta gestione della concimazione dei foraggi e dell’alimentazione dei capi: in particolare tale strada è stata seguita de tempo in Olanda con ottimi risultati sperimentali, che hanno portato ad una riduzione degli eccessi di azoto e fosforo (Aarts, 2007).
Le tecnologie legate alla realizzazione di impianti per la produzione di biogas sono state da più parti indicate come una possibile soluzione: tuttavia, secondo gli studi realizzati, il processo di digestione anaerobica dei reflui non contribuisce significativamente alla riduzione dell’azoto contenuto, mentre ne modifica sostanzialmente la forma chimica, rendendolo più facilmente assimilabile dalle colture ed incrementandone l’efficienza di utilizzo. Gli aspetti positivi consistono nella concentrazione dei reflui ottenuta attraverso il processo, che riduce i costi di trasporto e di spandimento, e nella possibilità di utilizzare localmente o di vendere l’energia prodotta dagli impianti che, unitamente ai certificati verdi ottenibili, possono attenuare l’impatto economico e finanziario degli investimenti necessari. Gli aspetti problematici di tale soluzione risiedono nel dimensionamento degli impianti, che rende necessario spesso realizzare strutture consortili sovra aziendali caratterizzate da significative problematiche gestionali. Inoltre, i migliori risultati tecnici si ottengono con l’aggiunta ai reflui di biomasse derivanti da residui delle coltivazioni o, meglio ancora, da colture appositamente realizzate: ciò rende necessario disporre di superfici dedicate a colture da biomassa che sottraggono spazio a destinazioni produttive per alimentazione animale o umana.
Quest’ultimo aspetto negativo, tuttavia, può essere superato integrando i reflui zootecnici con scarti organici di diversa origine, non da ultima la frazione organica dei rifiuti urbani, pratica che già trova applicazione in alcuni impianti lombardi e che permette un redditività aggiuntiva all’agricoltore. L’aggiunta di materiali organici ai reflui porta, però, ad un aumento dell’azoto complessivo e aggrava le problematiche di smaltimento.
Nel caso di trattamento dei reflui in impianti di adeguate dimensioni attraverso processi di digestione anaerobica si potrebbero utilizzare metodi di rimozione dell’azoto ammoniacale con diverse tecnologie (Regione Lombardia, 2008, in particolare la relazione di Malpei et al.): le più semplici consistono in processi fisici e termici (separazione, evaporazione, strippaggio dell’ammoniaca), mentre più complessi dal punto di vista gestionale sono i processi chimici e quelli biologici. In particolare questi ultimi possono consentire di rimuovere sino al 90% dell’azoto presente nei reflui: il tradizionale processo di nitrificazione/denitrificazione è efficace ma molto costoso mentre costi più contenuti presentano le tecnologie di “nitrificazione arrestata a nitrito+denitrificazione (SHARON® Process)” e l’impiego di microorganismi autotrofi (Batteri ANAMMOX®) o, meglio ancora, la combinazione dei due processi che, sia pure ancora allo stato sperimentale, sembrerebbe il più conveniente. Il costo stimato sarebbe pari a circa 1 euro per kg di azoto rimosso: tenendo conto che i quantitativi di azoto al campo (per t di peso vivo/anno) sono pari a 138 kg per le vacche da latte, a 100-110 kg per i suini e a 230-250 kg per gli avicoli, l’onere non appare eccessivo rispetto al valore della produzione realizzata per le vacche da latte (stimabile attorno a 4.000 euro per t di peso vivo/anno) mentre costituirebbe un notevole aggravio per suini ed avicoli. I dati economici ora ricordati per la rimozione dell’azoto, derivanti da sperimentazioni limitate e quindi non generalizzabili, possono essere confrontati con quelli stimati per lo smaltimento tradizionale dei liquami suini (Corradini, 2007) che incrementerebbero del 10% circa in tutte le diverse soluzioni esaminate dall’autore.
Considerazioni conclusive
Da quanto sinora descritto si possono trarre alcune considerazioni sia di carattere più generale sia per quanto riguarda le strategie produttive.
La prima riguarda la gestione politico amministrativa del problema: occorre evitare un ulteriore rinvio del problema che potrebbe portare a contenziosi simili a quelli avvenuti per l’applicazione delle quote latte, e non si possono perseguire strade, come quella di improbabili deroghe, che illudano i produttori, mentre è necessario mettere a punto piani seri e realistici che consentano di minimizzare gli impatti sulle imprese e sulle filiere.
La seconda considerazione è relativa alla scelta dei metodi di soluzione del problema: data la complessità dei fattori in gioco e le differenti scale territoriali di applicazione, la riduzione del carico di azoto non può essere ottenuta solo attraverso una strada, ma con l’integrazione di più sistemi (piani di smaltimento comprensoriali, impianti di trattamento collettivi, miglioramento delle tecniche di spandimento, razionalizzazione dell’alimentazione) differenziati anche in funzione delle aree (disponibilità o meno di terreni vicini).
La terza considerazione è che qualsiasi sistema di gestione del corretto smaltimento dei reflui comporta cospicui investimenti e costi di gestione rilevanti, che possono essere parzialmente compensati attraverso la valorizzazione del contenuto nutritivo dei reflui e/o la produzione di energia ottenibile. Ciò rende necessaria una corretta analisi di sostenibilità degli investimenti ed un attento monitoraggio dei costi di produzione.
La quarta è che le innovazioni indotte da questa normativa possono consentire di ottimizzare la gestione aziendale, portando alla riduzione di altri costi, come quello della concimazione o dell’alimentazione del bestiame e, dunque, non debbono essere viste solo come un aggravio ma come un’occasione per introdurre strumenti tecnico-economici di controllo della gestione aziendale. Riprendendo quanto accennato all’inizio dell’articolo, occorre che gli imprenditori colgano l’occasione di una normativa vincolante per introdurre innovazioni di processo e per ottimizzare le diverse fasi dei processi produttivi, trasformando una minaccia in un’opportunità.
L’ultima considerazione, ma non la meno importante, riguarda l’incremento delle conoscenze ed il loro trasferimento al sistema produttivo: nell’ultimo biennio sono stati avviati, generalmente con fondi regionali, numerosi studi interdisciplinari per individuare soluzioni tecniche e metodologie di intervento. Alcune ricerche sono già concluse mentre altre sono in corso di svolgimento e da esse si attende un ventaglio di possibili soluzioni che dovranno tradursi in metodologie di intervento gestite in modo coordinato anche a scala sovra regionale. Occorre quindi sfruttare questa occasione per attivare processi di trasferimento delle conoscenze con la formazione di tecnici ma soprattutto con l’obiettivo di aumentare le capacità imprenditoriali: l’obiettivo generale dovrebbe essere quello di migliorare il capitale umano, sia nelle imprese sia nel sistema tecnico ed amministrativo.
Note
(1) Si ricorda che in caso condanna per il mancato adeguamento alla Direttiva si può arrivare al blocco dei contributi del FEASR e a sanzioni alle regioni inadempienti.
(2) Il limite di 170 kg/ha di azoto derivante da reflui zootecnici nelle ZVN è rimasto fisso, mentre dal 2006 sono stati notevolmente aumentati i parametri di misura dell’azoto escreto per t di peso vivo, di circa tre volte per i bovini e del 50% per suini ed avicoli.
Riferimenti bibliografici
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- Coldiretti Veneto (2007), Atti del convegno “La gestione delle deiezioni animali” 16/03/2007, [link]
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- Regione Emilia-Romagna - Le aree vulnerabili ai fini della direttiva "Nitrati”, [link]
- Regione Piemonte – Direttiva nitrati, [link]
- Regione Veneto – Direttiva nitrati, [link]