Mediterraneo, un mare di pesca

Mediterraneo, un mare di pesca

Panoramica

La pesca è una attività primaria che nel Mediterraneo accompagna l’uomo dagli albori della civiltà, prima ancora dello sviluppo dell’agricoltura. Il profilo delle barche, il sapere legato ai venti, alle stelle, all’orientamento, i mestieri di pesca, le tradizioni gastronomiche hanno rappresentato durante i secoli un carattere distintivo della cultura e della storia del Bacino. L’economia ittica vi continua a giocare un importante ruolo socioeconomico: nel Mediterraneo, si pesca l’1,7% delle catture mondiali, pari, però, al 4% del valore, per il maggior pregio delle specie pescate. Le catture complessive, incluse quelle del Mar Nero, ammontano a circa un milione e cinquecentomila tonnellate, di cui un terzo, circa 500 mila comunitarie. Le cifre dell’Unione Europea allargata a 25, dopo l’ingresso di Malta e Cipro, indicano, di massima, un “esercito” di oltre 110 mila pescatori e 40 mila pescherecci, spesso obsoleti, di cui l’80% inferiore ai 12 metri. Quattro sono i principali sistemi di pesca: la piccola pesca artigianale, che rappresenta la stragrande maggioranza del naviglio mediterraneo in mare e negli 850 mila ettari di lagune costiere; la pesca con la sciabica per la cattura del pesce azzurro (dal 40 al 70% delle catture in volume); la pesca a strascico e la pesca d’altura. Oltre 500 sono le specie edibili su circa 7 mila specie complessive di pesci, molluschi e crostacei: solo 60 hanno un valore commerciale anche se, di fatto, il consumo si concentra su 20 specie. Specie cardine per l’industria della pesca mediterranea e per l’industria della conservazione del pesce è l’acciuga. Un elevato valore economico vanta la pesca dei grandi pelagici; tonno, pescespada, alalunga, e dei piccoli pelagici: nelle sponde comunitarie, sardine e acciughe; a sud, boghe e alaccie o sardelle d’Africa. L’Italia, per valore delle catture, è il primo paese “ittico” nel Mediterraneo: gli sbarchi nazionali ammontano a circa 260 mila tonnellate, per un valore della produzione di oltre 992 milioni di euro (dati Eurostat 2006).

La “specificità mediterranea”

La pesca mediterranea presenta caratteristiche irriducibili con quelle della tradizione e dell’attività di pesca del Nord Europa: l’una è artigianale, multi-specifica, cioè rivolta alla cattura di un numero elevato di specie, e per questo maggiormente selettiva; l’altra, quella del Nord, è industriale e mono-specifica, concentrata cioè sul prelievo massivo di singole specie. Proprio il carattere artigianale della struttura produttiva, oltre che una migliore situazione dell’ambiente marino, hanno consentito di evitare drammatiche situazioni di depauperamento, come nel caso del merluzzo nel Mare del Nord.
Come rileva anche l’ultimo rapporto ISMEA, l’80% della pesca mediterranea è pesca artigianale esercitata con imbarcazioni di lunghezza inferiore ai 12 metri. Una percentuale che sale al 90-95% nei Paesi Extra UE (dati OCDE, Eurostat e Fao).
Per questo si parla di una “specificità mediterranea”, da salvaguardare anche per il suo maggiore valore socio-economico per le realtà costiere. Non dimentichiamo che, per le sue caratteristiche, la pesca mediterranea è “labour intensive” a forte intensità di manodopera, profondamente diversa da quella praticata in altre aree quali quelle nord europee caratterizzate da una produttività media molto più elevata: vi si concentra il 42% dell’occupazione europea nella pesca marittima, che produce il 12% delle catture comunitarie totali. Ciò significa che qualsiasi misura restrittiva ha e, di fatto, ha avuto, ripercussioni dirette ed importanti sull’occupazione. Le politiche di espulsione degli addetti attraverso cui la Commissione europea ha creduto possibile perseguire l’obiettivo di una gestione razionale delle risorse di pesca ha causato, solo in Italia, la perdita di 14 mila posti di lavoro: da 52 mila nel 1990 ai 38 mila attuali.

Un quadro molto disomogeneo

Da una parte si colloca la pesca dei 6 Stati membri UE (Spagna, Francia, Italia, Grecia, Malta e Cipro), fortemente e giustamente regolamentata; dall’altra la pesca dei paesi nordafricani e della sponda orientale, in crescita, ma che tende a ripetere gli errori fatti dai Paesi già sviluppati, di una pesca non sempre razionale. All’attività dei Paesi rivieraschi, prettamente di carattere artigianale, si aggiunge e quasi si contrappone una flotta che svolge attività industriale, battente bandiera giapponese, coreana, più spesso bandiera di comodo, come quella di Panama o dell’Honduras, che continua a pescare oltre i limiti delle acque territoriali in assenza di qualsiasi controllo.
Siamo in presenza prevalentemente di piccoli battelli, con spostamenti limitati delle flotte da pesca lungo i litorali. Dal mare di Albora, al bacino algero-provenzale, dal Golfo del Leone al bacino tirrenico e al mar Ligure, dal mare Adriatico allo Stretto di Sicilia, al mare Ionio, mare di Levante al mare Egeo, dal mare di Tracia al Golfo della Sirte al mar di Marmara: ogni comunità peschereccia pesca nel “suo” mare e ciò ha dato vita ad una forte differenziazione di tradizioni, mestieri e attrezzi. Spesso non si tratta solo di differenti tipologie di pesca, ma anche di una grande eterogeneità culturale ed etnica, di un differente grado di sviluppo e consapevolezza riguardo alle tematiche ambientali e produttive. La regione adriatica, l’area occidentale e l’area meridionale centrale sono state oggetto di diversi progetti regionali della FAO, in particolare Adriamed, Copemed e Medsudmed.

Ritardi e limiti della politica comunitaria

Le azioni scoordinate e prive di una visione di insieme e di cooperazione della Commissione Europea hanno accentuato la frattura tra le due sponde settentrionale e meridionale del Bacino. Questa infatti continua a privilegiare un approccio tecnicista, secondo cui si crede di poter ridurre il complesso obiettivo di governo della pesca del Bacino ad una semplicistica serie di misure tecniche, via via più drastiche, limitate alle sole flotte comunitarie: una visione che esclude il dialogo e preclude un approccio globale ai problemi del Mediterraneo. Emblema della politica dei “due pesi e due misure” è stata la stortura del bando totale delle reti derivanti spadare, vietate per le flotte europee, mentre i pescherecci extracomunitari continuano la loro attività, con evidenti squilibri sui mercati e sul lavoro. Solo nel Mezzogiorno, circa 8 mila posti di lavoro sono andati drammaticamente perduti nel quinquennio 1996-2001, in realtà costiere dove mancano reali alternative occupazionali. Si registrano forti ritardi nella direzione dell’armonizzazione dei regimi di pesca.
La nuova politica di vicinato promossa dalla Unione Europea sembra registrare un passo indietro rispetto agli obiettivi della cooperazione multilaterale fissati dal processo di Barcellona. Gli Organismi internazionali segnano il passo: il Consiglio generale della pesca del Mediterraneo (CGPM/FAO), quale sede di confronto e adozione delle politiche di bacino, da cui rimangono ancora esclusi i produttori, deve ancora entrare nella piena operatività e la sua stessa missione andrebbe rivista, per passare da una mera funzione di tutela e conservazione, ad una funzione di gestione attiva delle risorse biologiche. Non parliamo della Commissione Internazionale per la Conservazione dei Tonnidi in Atlantico (ICCAT) le cui recenti risoluzioni in materia di pesca del tonno rosso, frutto di pressioni e di interessi commerciali, hanno creato una ridda di contraddizioni che annunciano pesanti ripercussioni socioeconomiche in assenza di reali risultati in termini di tutela. Anche il Regional Advisory Concil (RAC) per il Mediterraneo, di imminente avvio nella sede di Roma, sembra un’altra occasione mancata per promuovere il dialogo ed il confronto. Mentre si fanno attendere i risultati dei tavoli negoziali, la discrezionalità degli Stati (Tunisia, Libia e, più recentemente, Croazia) dà ancora adito alle diverse forme di conflittualità, legate alla dichiarazione di zone esclusive di pesca.

La priorità ambientale

La sfida ad una politica di Bacino è tanto più importante per le tematiche ambientali. Non solo perché, a causa della pesca, alcune specie migratorie risultano a rischio di sovrasfruttamento (come il nasello nel Golfo del Leone e nel mar Tirreno, la sardina in Adriatico, l’aragosta in Corsica e Sardegna, l’occhialone nello stretto di Gibilterra) ma, soprattutto, per la minaccia rappresentata, a danno della pesca e delle sue produzioni alimentari, dal più vasto fenomeno dell’inquinamento marino, nelle sue diverse forme, prima fra tutti quella da idrocarburi (nel Mediterraneo, appena l’1% dei mari del Pianeta, si concentra il 28% del traffico mondiale di petrolio). Sono preoccupazioni cui si aggiungono i timori circa gli effetti dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi acquatici. Questi riguardano innanzitutto l’aumento progressivo della temperatura superficiale delle acque, che ha causato l’incremento delle popolazioni provenienti da mari caldi, i minori apporti di acque dolce dai fiumi, che modificheranno la salinità alle foci, con effetti particolarmente sensibili nei bacini semi-chiusi come l’Adriatico. Essi comprendono anche le ripercussioni sulle catene trofiche, anche per i fenomeni di erosione della fascia costiera, la cui gestione integrata rappresenta un obiettivo sempre più urgente per orientare verso lo sviluppo la moltitudine di attività e di interessi che si concentrano su queste aree particolarmente sensibili (trasporti, navigazione, commercio, industrie costiere e portuali, pesca, acquacoltura, ricerca marina, nautica, turismo e urbanizzazione). Non è un caso che il tema della gestione della fascia costiera sia di grande attualità e si collochi al centro del proscenio internazionale.

Insoddisfacente il nuovo Regolamento Mediterraneo

E’ stato approvato da poco il Piano d’Azione Mediterraneo (Regolamento CE n. 1967/2006): grandi aspettative hanno accompagnato il suo annuncio. Esse si sono presto smorzate una volta che si è venuto chiarendo che l’Unione Europea rinunciava ad avviare una reale consultazione con la categoria, ad una politica di cooperazione e di accordo multilaterale, per ricadere nel predominio delle misure tecniche su maglie, reti, attrezzi, e così via. Non è stato compiuto quel salto di qualità culturale, profondo e radicale, che avrebbe potuto consentire di guardare al Mediterraneo non come ad un ambito marginale della politica generale, ma come un nodo di questioni che richiedono risposte e strategie funzionali alle sue caratteristiche. Ha prevalso un’impostazione rivolta essenzialmente ad un modello di stampo Nord-europeo che relega, di fatto, le specificità della piccola pesca mediterranea, con tutte le implicazioni di carattere socio-economico e ambientale, ad un ruolo puramente marginale. Per limitare l’impatto delle restrizioni del Regolamento si confida ora nei Piani di Gestione nazionali, che dovranno coordinarsi con quelli previsti dal Fondo strutturale di settore FEP e contenere indicazioni relative anche all’evoluzione della flotta.

Il ruolo dell’Italia

Le Associazioni di categoria italiane sono state anche molto attive nel promuovere il confronto con gli altri Paesi. Per la Lega Pesca il dialogo e la collaborazione con i Paesi del Mediterraneo è una realtà avviata da tempo, con diversi protocolli d’intesa siglati con Marocco, Algeria, Tunisia, e Albania, oltre che con progetti transnazionali per l’Alto Adriatico. Più recentemente, è stata costituita anche l’Associazione Medisamak, che rappresenta le organizzazioni professionali di tutti i Paesi rivieraschi e che si pone come interlocutore degli organismi internazionali. Oltre che per la formazione, l’assistenza tecnica, il trasferimento delle competenze in un’ottica di sviluppo sostenibile che eviti con cura la politica dell’”arrembaggio”, il ruolo che può giocare l’Italia nel Mediterraneo è strategico anche per le innovazioni apportate con il fattivo contributo delle ricerca ai modelli di gestione delle risorse, attraverso gli strumenti del fermo biologico, dei distretti di pesca, delle aree marine protette e delle zone di tutela biologica, fino ai consorzi di gestione condotti con il coinvolgimento diretto dei ceti professionali.

Le sfide per il futuro

Per quanto riguarda la pesca, l’area mediterranea rappresenta una grande opportunità non solo di tipo economico e commerciale, ma anche per una gestione unitaria e sostenibile delle risorse, della politica ambientale e della ricerca. Solo un complesso normativo omogeneo può creare le condizioni di una maggiore tutela e di una più efficace gestione delle risorse, nonché di una leale e trasparente concorrenza tra tutti gli operatori della pesca mediterranea. Premesso che occorre un maggiore coinvolgimento dei ceti professionali e un cospicuo investimento di risorse per mettere in atto insieme misure di tipo biologico e socioeconomico, la vera priorità rimane quella di un approccio eco-sistemico ai problemi delle zone costiere e della pesca, in grado di considerare l’impatto complessivo delle alterazioni ambientali, dell’inquinamento, e non solamente, come spesso accade, delle attività di cattura.
Occorre, in prospettiva, ridurre i margini di discrezionalità e autonomia dei diversi Paesi e riconoscere pari dignità a tutti, ponendo l’accento sugli squilibri attualmente esistenti tra nord e sud, così come tra stati membri e paesi terzi. Occorre una politica incisiva volta al rilancio della pesca artigianale, debole nei tavoli negoziali, ma fondamentale per la memoria dei costumi e delle tradizioni, per il contributo all’alimentazione e alla gestione sostenibile delle risorse costiere. La razionalizzazione dell'esercizio della pesca deve essere un obiettivo condiviso da tutti i Paesi del Mediterraneo. Il processo produttivo deve essere gestito e governato in forma razionale e prevedibile, ovvero ulteriormente controllata, tenendo conto della capacità riproduttiva degli stock, rafforzando la lotta contro la pesca illegale e nel contempo migliorando, grazie ad una ricerca scientifica indipendente, la base dei dati per il supporto decisionale.

Riferimenti bibliografici

  • EUROSTAT (2006), La PCP in cifre, Dati essenziali sulla politica comune della pesca
  • FAO, Fisheries Reports, [link]
  • GFCM, Studies and reviews, [link]
  • OECD (2005), Review of Fisheries in OECD Countries, Volume 1: Policies and Summary Statistics
  • ISMEA (2006), Il settore ittico in Italia e nel mondo: le tendenze recenti, gennaio
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