Lezioni dal passato
Il rinnovato interesse delle politiche agricole ai vari livelli (comunitario, nazionale e regionale) per l’innovazione in agricoltura non può che essere accolto con favore dal momento che pone al centro dell’attenzione uno dei fattori determinanti, se non il più determinante, della competitività di lungo periodo delle nostre imprese agricole. Tuttavia, a questo interesse non sempre segue un’adeguata riflessione sul fatto che molte delle evidenze e delle convinzioni relative ai processi innovativi in agricoltura, con riferimento al passato, rischiano oggi non di non essere più valide o, comunque, sufficienti a definire una strategia appropriata.
Il secolo scorso è stato caratterizzato da una notevole crescita della produttività delle risorse agricole. L’agricoltura mondiale ha sperimentato nella seconda metà del secolo scorso un grande aumento delle perfomance, al punto che nell’arco di 50 anni (dal 1950 al 2000) la produttività per ettaro è cresciuta di quasi il 150%, quella del lavoro agricolo di quasi il 75%, la produttività totale dei fattori di circa il 55%. Questa crescita è principalmente attribuibile a un salto di qualità di ordine tecnologico che sembra quasi miracoloso. Una “magia lenta” (Pardey e Beintema, 2001) generata dal continuo e incessante progresso tecnologico capace di trasformare una serie di più o meno rivoluzionari passi in avanti nella conoscenza scientifica di interesse agricolo (soprattutto dei processi biologici) in conoscenza pratica, cioè in innovazioni impiegabili nel contesto produttivo agricolo.
Sono stati appropriati investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico a generare quelle innovazioni tecnologiche (principalmente di processo) che hanno avuto un tale impatto diretto sulla produttività. Nel caso delle innovazioni agricole, il loro avvento si è combinato con altri fattori che ne hanno favorito adozione e diffusione, quali la crescente scolarizzazione ed informazione dei lavoratori agricoli (education), l’insieme di servizi ed istituzioni finalizzate ad informare gli agricoltori circa l’esistenza di nuove soluzioni tecnologiche e la loro appropriata applicazione (extension).
Questa idea di un rapporto causa-effetto tra investimento (sopratutto pubblico) in ricerca, extension e education e crescita di produttività agricola, postula, a sua volta, una sottostante idea di Ssitema della Conoscenza e dell’Innovazione in Agricoltura (Scia). Si è venuta formando una letteratura molto ricca che ha cercato di capire, in sostanza, come funzionasse quel complesso insieme di relazioni, istituzioni e soggetti frapposto tra ricerca strictu sensu e produzione agricola, e che è stato appunto identificato come il Scia. Al di là della indiscussa complessità di questo sistema, buona parte di questa letteratura ha inteso comunque riconoscere un primato alla ricerca. Si è cioè imposta un’idea di Scia centrata sul sistema della ricerca, sui suoi attori, le sue istituzioni, le sue regole. Tale centralità ha teso a postulare un flusso top-down di conoscenza. Un’idea secondo cui l’innovazione rimane sostanzialmente science-based, cioè una soluzione “pre-confezionata” offerta dalla scienza a favore di più o meno numerose applicazioni “a valle”, tra cui l’agricoltura. Conseguenza tipica di questa concezione del sistema della conoscenza in agricoltura è l’idea secondo cui il potenziale innovativo del settore la sua innovation capacity, è in ultima analisi esprimibile da un insieme di indicatori riferibili proprio alla ricerca scientifica e alla sua gestione e promozione.
Questa idea di Scia ha avuto la sua giustificazione proprio nella natura e nell’intensità della crescita tecnologica sperimentata dall’agricoltura globale nel secolo scorso. Un progresso fatto prevalentemente di innovazioni di processo che hanno consentito risparmio di risorse e/o aumento di rese in maniera generalizzata (anche se non omogenea) tra diversi contesti applicativi, e costituite da pacchetti tecnologici da adottare per intero senza specifici sforzi di adattamento e, talora, neanche di apprendimento. Soluzioni tecnologiche che fluiscono top-down, pronte all’uso e che, indubbiamente, sono state alla base della impressionante crescita di produttività del secolo scorso.
Questa impostazione ha dettato per decenni l’agenda della politica della conoscenza in agricoltura. Non solo una politica fortemente centrata sulla ricerca, ma anche orientata alla soluzione dei problemi maggiori emergenti in questo tipo di configurazione. Da qui, la grande enfasi sul finanziamento pubblico della ricerca, sul ruolo della ricerca privata e sui possibili meccanismi incentivanti, la grande attenzione alla proprietà intellettuale della conoscenza e delle innovazioni, la predominanza degli spillover tecnologici tra comparti e territori e le relative implicazioni. In questa visione del Scia, questi sono stati a lungo (e sono tuttora, in parte) le tematiche più studiate e dibattute.
La principale lezione sedimentata dall’analisi di questo contributo del Scia alla notevole crescita della produttività agricola globale è che si sia trattato da un grande successo istituzionale. Un successo determinatosi per il buon funzionamento delle istituzioni, quelle formali ed informali, quelle pubbliche e quelle private, fatte di regole scritte o tacite. Questo buon funzionamento si è espresso nella capacità di gestire efficacemente il bene che è al fondamento del Scia e del suo impatto in termini di produttività, e cioè la conoscenza. Questo bene è per sua natura multiforme e mutevole nel tempo, allorché esso si muove tra i diversi soggetti e i diversi ambiti del Scia. Questo cambiamento di forma è reso possibile (o imposto) da appropriati assetti istituzionali ed è proprio quello che fa sì che questo movimento avvenga in modo efficace.
Problemi e paradossi del presente
Sopratuttto nell’ultimo decennio, tuttavia, è emersa una lettura decisamente più critica di tale assetto del Scia in particolare rispetto alla sua capacità di affrontare il presente e il futuro. In questa lettura prevale la convinzione che i grandi guadagni di produttività agricola messi in mostra negli ultimi decenni non derivino solo da contributi della scienza e della ricerca in qualche modo poi trasferiti a “valle” verso gli impieghi produttivi. Se si guarda dentro la “scatola nera” dell’innovazione agricola, si scopre che questo ruolo è stato spesso sovra-enfatizzato puntando su casi di successo che pure ci sono stati, ma non necessariamente costituiscono casi paradigmatici. Alla base della grande crescita di produttività, c’è piuttosto una collettivizzazione, una diffusione di conoscenza pratica, applicativa ed efficace che solo in piccola parte trova la sua matrice nella ricerca di base e più spesso dipende dalle fasi a “valle”, per esempio la divulgazione e l’assistenza tecnica, nonché dalla generalizzata maggiore circolazione delle informazione e l’altrettanto generale e imponente crescita del livello medio di scolarizzazione e di formazione del personale agricolo generalmente inteso. In questo senso, l’aver concentrato l’attenzione (e le risorse) solo su una porzione della conoscenza scientifico-tecnologica, nonché su una idea codificata di innovazione, è da considerare il principale limite del Scia, soprattutto perché ha lasciato ad uno sviluppo largamente spontaneo, poco governato e poco finanziato, quelle forme della conoscenza e quei processi innovativi informali, taciti, diffusi e graduali che hanno rappresentato il vero motore del “miracolo” della crescita della produttività del secolo scorso.
Alla base di questa critica vi è l’idea che il bene di riferimento di tutto il Scia sia qualcosa di sostanzialmente diverso da quanto postulato nella visione tradizionale: non conoscenza scientifica di rango accademico, né conoscenza incorporata in qualche soluzione tecnologica proprietaria, bensì una conoscenza diffusa quindi collettiva, non incorporata, talvolta tacita, e che comunque produce tanto più vantaggio quanto più è “pubblica”, cioè di libero accesso ed estendibile a tutti gli ambiti applicativi territoriali e settoriali.
Nell’ultimo decennio, l’idea di un necessario ripensamento del Scia è stata rafforzata dalle nuove e crescenti sfide che l’agricoltura globale è chiamata ad affrontare nel prossimo e nel lontano futuro. Accanto alla sfida principale del secolo scorso, la capacità di produrre cibo a sufficienza per una popolazione mondiale in crescita nei numeri e nei livelli di consumo (food security), si pone un’altra fondamentale questione: quella sfida va oggi vinta solo a precise condizioni. La principale condizione è quella della compatibilità ambientale o, detto in maniera più propria, della sostenibilità. La seconda condizione è quella della multifunzionalità. L’agricoltura del futuro dovrà necessariamente avere la capacità di produrre, oltre ad alimenti, anche altri beni e servizi non-food, pubblici o comunque di interesse collettivo. Certo, tra questi ci sono i servizi ambientali che ci riportano alla sostenibilità, ma, soprattutto nelle società ricche e post-industriali, all’agricoltura viene richiesto anche di produrre paesaggio e valori estetici, servizi culturali e ricreativi, benessere fisico e mentale, ecc.. Nonché di essere garante, quale primo anello della filiera alimentare, di food safety e food quality; cioè, garantire sicurezza sanitaria, nutrizionale, ambientale ed etica degli alimenti, nonché la loro origine e provenienza. Sostenibilità e multifunzionalità, tuttavia, richiedono una produzione di conoscenza e di innovazioni di natura diversa rispetto alla convenzionale sfida della food security. Innovazioni di prodotto (o di funzione, come si dirà più avanti) più che di processo; innovazioni organizzative e di marketing oltre che tecnologiche; innovazioni più complesse e, soprattutto, una conoscenza più ampia rispetto a quella relativa ai “soli” processi produttivi e ai “soli” mercati agricoli.
Il Scia va dunque ridisegnato al fine di fronteggiare queste sfide e cogliere le opportunità offerte dai cambiamenti tecnologici in corso. A guidare questa riorganizzazione sembra essere soprattutto la progressiva emersione di un vero e proprio nuovo paradigma tecnologico, e di nuove traiettorie tecnologiche che da esso si delineano. Le nuove General Purpose Technologies (Gpt) già oggi dominanti o, comunque, molto promettenti per gli sviluppi futuri (Ict, microelettronica e nanotecnologie, moderne biotecnologie, neuroscienze, robotica, materiali avanzati, fotonica) offrono un potenziale applicativo in ambito agricolo altrettanto ampio di quelle del secolo scorso, ma di natura sostanzialmente diversa. La natura della innovazione nel comparto agroalimentare è passata da prevalentemente meccanica e chimica a biologica-biotecnologica e, più di recente e sempre più in futuro, informatica.
Ma c’è di più. Queste soluzioni tecnologiche oggi disponibili consentono all’agricoltura di aprirsi alle nuove funzioni (dall’agriturismo, alla produzione di energia, alla vendita diretta), cioè di orientarsi verso le sfide tipiche della sostenibilità e della multifunzionalità. In altre, parole, questo nuovo paradigma tecnologico consiste in una nuova dimensione innovativa che si aggiunge all’innovazione di processo e all’innovazione di prodotto: l’innovazione di funzione (o funzionale). E’ bene sottolineare che introdurre nell’esercizio dell’impresa agricola nuove attività o business è di norma il risultato non tanto di innovazioni tecnologiche in quanto tali bensì di innovazioni organizzative, gestionali/manageriali, di marketing. Tuttavia, queste hanno sempre una “attivazione” tecnologica che è resa possibile o facilitata dalle nuove soluzioni sviluppate nell’ambito delle Gpt.
Questa evoluzione verso un nuovo paradigma tecnologico modifica sostanzialmente i confini settoriali. L’ampiezza di questo spazio innovativo potenziale verso una molteplicità di nuovi prodotti e funzioni espande e rende meno netti i confini di ciò che consideriamo “settore agricolo” rispetto ad altri settori con qui questa espansione va a sovrapporsi e, quindi, convergere: il food sector, in tutte le sue varie fasi; il settore del recupero, della tutela e della riqualificazione ambientale; il settore energetico; il settore turistico e delle attività culturali, educative e del tempo libero. L’esito principale di tutti i cambiamenti di paradigma tecnologico è proprio la ridefinizione degli ambiti settoriali e, dunque, questa convergenza di settori precedentemente visti come ambiti distinti. Proprio per meglio comprendere le nuove traiettorie tecnologiche, quindi, è evidente la necessità di ampliare quelli che tradizionalmente erano i confini propri dell’agricoltura e dell’industria alimentare verso una più ampia e inclusiva combinazione settoriale oggi identificata, secondo un’accezione ormai prevalente, come economia bio-based o bioeconomia.
E’ interessante notare come in questa difficoltà di adeguare, non solo in agricoltura, il sistema della conoscenza e dell’innovazione alle nuove tendenze possiamo individuare la radice di due paradossi tipicamente europei su questo tema. Il primo paradosso, di portata generale ma certamente applicabile all’ambito agroalimentare, consiste nel fatto che l’Europa (e, in particolare, l’UE) presenta al suo interno grandi eccellenze di ricerca e investe ingenti risorse in ricerca pubblica, anche e soprattutto nell’ambito delle nuove Gpt.
Tuttavia, a questo sforzo, che certamente garantisce all’UE un primato scientifico mondiale conteso solo dagli Usa, non fa riscontro un’altrettanto brillante performance di innovazione tecnologica. Il sistema produttivo europeo, fatica a mostrare tassi innovativi comparabili non solo a quelli di realtà socio-economiche analoghe (Usa e Giapppone, in particolare) ma anche rispetto a realtà emergenti quali Corea del Sud e Cina.
Il secondo paradosso è più tipicamente agricolo. Infatti, proprio nel periodo in cui l’agricoltura europea sta ridisegnando le sue funzioni e, quindi, sta ridefinendo le sue scelte tecnologiche e produttive proprio nel senso della maggiore compatibilità ambientale e della multifunzionalità, all’agricoltura europea viene contestato un calo di produttività e, quindi, implicitamente una ridotta capacità innovativa. Da un lato, il primo paradosso segnala un sistema europeo della conoscenza e dell’innovazione una po’ “arrugginito” nella sua capacità di essere cinghia di trasmissione tra ricerca e applicazioni in campo. Dall’altro lato, il secondo paradosso segnala la difficoltà di cogliere come e quanto questo sistema stia contribuendo a definire dell’agricoltura europea nuovi orizzonti produttivi e tecnologici non riconducibili all’ormai datata visione produttivistica del settore.
Sfide per il futuro
Alla base dello stesso concetto di Scia vi è il cosiddetto knowledge system thinking (Röling, 1992), cioè la convinzione, dettata dall’evidenza, che le perfomance innovative e quindi di produttività di un’agricoltura non siano il risultato di un semplice processo lineare, unidirezionale, che va dalla produzione della conoscenza (ricerca) alla sua applicazione produttiva, bensì l’esito di complesse interazioni sistemiche tra diversi soggetti ed istituzioni coinvolte in vario modo nella produzione e diffusione della conoscenza, e nella sua incorporazione in soluzioni innovative applicabili. Questa visione sostanzialmente non gerarchica, bensì fondata sulla quantità e qualità (cioè intensità) delle interazioni, dei flussi di conoscenza, più o meno incorporata, e delle informazioni all’interno di questo sistema, è l’elemento che viene maggiormente esaltato nelle proposte di riassetto dei Scia. Si tratta di proposte in cui il sistema non sia tanto un’articolazione di astratte componenti istituzionali interagenti (il triangolo della conoscenza: ricerca, education, extension), quanto piuttosto un network di soggetti eterogenei (anche all’interno della stessa componente; per esempio, la ricerca pubblica) e dinamici interagenti secondo forme e modalità a loro volta in continua evoluzione. Soggetti che travalicano i confini tradizionali del sistema, giacché in questo insieme di interrelazioni, diventano rilevanti anche i consumatori organizzati, i gruppi di pressione, i movimenti di opinione; insomma, una vasta gamma di stakeholders. Non solo, quindi, si perde la dimensione gerarchica, ma la stessa statica distintività di fasi e componenti del sistema si fa più confusa e meno rilevante. Il sistema diventa in realtà un network attivamente partecipato che opera sia su scala locale che sovra locale.
In questo quadro, risulta necessario che la ridefinizione del sistema prenda atto che le nuove traiettorie tecnologiche non solo hanno reso utile nuova conoscenza, ma hanno anche modificato sostanzialmente che cosa si intenda per conoscenza, come questa venga scambiata, comunicata, implementata per tradurla in innovazione. La conoscenza, infatti, non esiste in astratto. Vi è sempre qualcosa o qualcuno che la incorpora. Queste forme di incorporazione della conoscenza/informazione sono oggi profondamente modificate, continuamente in evoluzione e certamente molto più modulari e mobili di quanto non fosse in passato (Esposti, 2009).
Un’espressione abbastanza esemplare di questa evoluzione dell’”oggetto” conoscenza/innovazione che il Scia è chiamato a gestire, è proprio l’emergere di una idea più complessa e articolata di innovazione, maggiormente capace, in agricoltura e nella altre componenti della bioeconomia, di affrontare le nuove sfide. Si tratta del concetto di system innovation, che incorpora/ibridizza nell’innovazione sia la sua dimensione più propriamente tecnologica che spesso si limita alla relazione fornitore-produttore, che la dimensione sociale ed ambientale che chiama in causa anche i consumatori, i cittadini, tutta la comunità agricola-rurale, le istituzioni, i settori di trasformazione e commercializzazione a valle, ecc.. E’ evidente che ogni “innovazione sistemica” così definita non può che prevedere l’interazione di tutti questi soggetti, la condivisone di informazione e conoscenza, processi continui e diffusi di apprendimento.
Considerando questa ipotesi di disegno reticolare del Scib secondo una prospettiva più critica, tuttavia, emergono anche alcuni rischi. Il principale rischio è che l’idea astratta di system innovation o innovation network trovi il suo corrispettivo, in pratica, in un sistema altamente frammentato. Connesso a ciò, vi è il rischio che l’enfasi sul network risulti in realtà l’argomento retorico per smantellare i tradizionali pilastri del sistema “precedente”. Quindi, non un nuovo disegno per rilanciare il ruolo del Scia, bensì una “scusa” per ridurre gradualmente l’investimento e l’impegno (soprattutto pubblico ma anche privato) nel sistema.
Visti i rischi e le opportunità di questo processo evolutivo del Scia, viene ovvio chiedersi quale sia la politica più appropriata per assecondare, favorire e condizionare tale evoluzione. Certamente, il caso della UE è qui di massimo interesse. Non solo perché riguarda l’Italia e quei paesi con economie e agricolture evolute, ma soprattutto perché il caso della UE sembra esemplare delle difficoltà che si possano incontrare nell’impostare politiche coerenti ed efficaci per un nuovo Scia. In particolare, l’ambizione dell’UE di costruire un Scia comunitario incontra due rilevanti problemi di coordinamento che tendono a rafforzarsi reciprocamente. Il primo è la solita difficoltà di ogni politica europea di armonizzare e, gradualmente, indirizzare, politiche nazionali (e talora regionali) profondamente eterogenee e specifiche, anche perché applicate a Scia a loro volta peculiari. Il secondo problema riguarda il difficile coordinamento tra le due linee politiche che, nella UE, si occupano di questi aspetti, cioè le politiche settoriali (e in particolare la Politica Agricola Comunitaria) e la politica della ricerca.
Se si considerano le politiche europee attuali, questa contrapposizione è in realtà meno visibile dal momento che la Pac contiene un numero piuttosto limitato di misure (e di risorse) destinate al Scia. Nulla praticamente nel primo pilastro; alcune misure concentrate nell’Asse 1 nel caso del secondo pilastro. Al contrario, ispirata dall’Agenda di Lisbona che ha nella conoscenza e nell’innovazione tecnologica il suo principale punto di interesse, la politica della ricerca del periodo in corso incorpora già numerose delle suggestioni relative all’evoluzione recente del Scia. Trattandosi di politica della ricerca, ancorché con estensioni anche all’alta formazione e all’innovazione (il “triangolo della conoscenza” secondo la UE), questa impostazione del sistema rimane ancora abbastanza top-down. Manca l’altra parte, bottom-up, che dovrebbe essere data, almeno per quanto concerne l’agricoltura, dalla Pac e dal suo secondo pilastro, in particolare. Di questa carenza cerca di tener conto la programmazione e il disegno delle politiche comunitarie per il periodo 2014-2020. La politica della ricerca prosegue lungo la linea già definita nel periodo precedente, ma viene condotta in un nuovo quadro, quella dell’iniziativa Innovation Union [link] European Commission, 2010).
L’iniziativa Innovation Union prevede oltre 30 diverse azioni. Tra queste, quella che rappresenta maggiore novità è la possibilità di costituire European Innovation Partnerships (Eip) tematiche, proprio con lo scopo di far convergere politiche e risorse sull’obiettivo dell’innovazione. In quest’ambito, una delle Eip che sta venendo alla luce riguarda l’agricoltura: the European Innovation Partnership for agricultural productivity and sustainability (Eip-A). Benchè vi sia ancora un’informazione incompleta circa il funzionamento di questo nuovo strumento, le più recenti comunicazioni della Commissione Europea (European Commission, 2012) chiariscono i suoi obiettivi e il suo disegno. Su questa base, la Eip-A appare come un effettivo passo in avanti nella direzione di uno Scia coerente con l’evoluzione fin qui delineata, le nuove sfide e le nuove traiettorie tecnologiche.
In primo luogo, viene chiaramente riconosciuto che le innovazioni agricole non sono solo quelle che aumentano la produttività convenzionalente intesa ma anche la perfomance riferita ad altre funzioni (European Commission, 2012, p. 4). In secondo luogo, e in relazione con il punto precedente, la Eip-A sembra in linea con una lettura più ampia del sistema, passando da una lettura strettamente settoriale (agricola) alla bioeconomia, come chiaramente enfatizzato in molte delle aree individuate per le azioni innovative (European Commission, 2012, p. 8-9). In terzo luogo, la Eip-A presta particolare attenzione al fatto che il sistema di conoscenza e innovazione in agricoltura abbia una prevalente struttura reticolare, debolmente gerarchica e che coinvolge molti ed eterogenei soggetti (European Commission, 2012, p. 6) da cui derivano anche alcuni dei suoi potenziali punti di debolezza: “the scientists do not know what the farmers want and the farmers do not know what the science do” (Matthews, 2011). Infine, questa iniziativa chiaramente ambisce a gettare quel ponte fin qui mancante tra la politica di ricerca della UE e la Pac (in particolare il secondo pilastro) (European Commission, 2012, p. 7), cioè, a coordinare e combinare le iniziative top-down con quelle bottom-up.
Al fine di rendere operativi questi potenziali punti di forza dell’Eip-A, la Commissione Europea ha proposto un apposito strumento, i cosiddetti Operational Groups (OG). Gli OG dovrebbero funzionare come veri e propri network innovativi che coinvolgono tutti gli stakeholder rilevanti e operare su tutti le possibili aree di interesse della bioeconomia. Finanziati sia da Horizon2020 che dal secondo pilastro della Pac, la finalità principale degli OG dovrà essere quella di contribuire ad incrementare la perfomance innovativa dell’agricoltura e della bioeconomia della UE riducendo la distanza esistente tra produzione scientifica (i ricercatori) e applicazione pratica (gli imprenditori agricoli). In realtà, benchè si debba riconoscere che questi OG possano risultare di rilevanza strategica, rimane il fatto che al momento si sa molto poco di come essi verranno costituiti e come funzioneranno in pratica. Perciò, solo nei prossimi anni, quando l’iniaziativa Eip-A sarà interamente definita e implementata, sarà possibile chiarire fino a che punto questa sostanziale rivisitazione dell’intevento europeo in ambito di innovazione agricola sarà davvero capace di assecondare gli obiettivi dichiarati e produrre i risultati attesi.
Riferimenti bibliografici
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Esposti, R. (2009). Solving the controversy between functional and natural food: is agrifood production becoming modular? In: Lindgreen, A., Hingley, M., Vanhamme, J. (eds.), The Crisis of Food Brands. Sustaining Safe, Innovative and Competitive Food Supply. Aldershot: Ashgate-Gower Publishing, 139-153
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European Commission (2010). Europe 2020 Flagship Initiative Innovation Union. Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions, Com(2010) 546, Brussels
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European Commission (2012). Communication from the Commission to the European Parliament and the Council on the European Innovation Partnership “Agricultural Productivity and Sustainability”. European Commission, Com(2012) 79 final, Brussels
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Matthews, A. (2011). The future role for the European Innovation Partnership for agricultural productivity and sustainability. Cap Reform blog http://capreform.eu/), downloaded on 1 April 2012
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Pardey, P.G., Beintema, N.M. (2001). Slow Magic: Agricultural R&D a Century after Mendel. Food Policy Report, International Food Policy Research Institute (Ifpri), Washington, D.C.
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Röling, N.G. (1992). The emergence of knowledge systems thinking: A changing perception of relationships among innovation, knowledge processes and configuration. Knowledge and Policy: the International Journal of Knowledge Transfer and Utilization, 5, 42-64