Introduzione
La descrizione dei tratti salienti della castanicoltura da frutto italiana, che ha già riguardato il commercio con l’estero (Castellotti, 2010), è ora estesa alle caratteristiche strutturali della produzione e all’organizzazione della filiera. In particolare, il lavoro vuole offrire uno sguardo d’insieme su un settore che può rappresentare un’importante fonte di reddito oltre che svolgere una fondamentale funzione di tutela ambientale e paesaggistica del territorio montano, ma che conosce una crisi produttiva che sembra non potersi arrestare. Su sollecitazione dell’Associazione Nazionale Città del Castagno è stato costituito, agli inizi dello scorso anno, presso il MiPAAF, il Tavolo della filiera castanicola che ha visto, per la prima volta, i rappresentanti degli operatori della filiera, della ricerca e delle istituzioni discutere delle politiche per il rilancio del settore e collaborare per l’elaborazione del Piano del settore castanicolo 2010/2013. Gli autori hanno collaborato alla stesura del Piano, rispettivamente come coordinatore del gruppo di lavoro per l’individuazione delle politiche di settore e come consulente del Ministero. Questo articolo è frutto anche della condivisione e dello scambio delle numerose informazioni e valutazioni che hanno portato alla stesura del Piano.
Struttura e produzione delle aziende castanicole: uno sguardo d’insieme
L’ultimo Inventario Nazionale delle Foreste (2005) riporta che in Italia il castagno è presente su 788.000 ha, pari al 7,5% della superficie forestale e al 2,6% di quella territoriale. La superficie castanicola è coperta per il 19% circa da castagneti da frutto e selve castanili, per il 75% da cedui da legno, la restante quota da altre tipologie da legno.
La castanicoltura da frutto italiana vive una lenta ma costante crisi sia sul mercato interno che sui mercati internazionali (su quest’ultimo aspetto si veda Castellotti, 2010). I dati sull’evoluzione del numero delle aziende agricole e della superficie investita dal 1970 al 2007 mostrano, infatti, una drastica diminuzione di entrambe le variabili. Tra il 1970 e 2000 le aziende si riducono del 51,3% e la superficie investita a castagneto da frutto del 47,5% (Figura 1). Nonostante la forte contrazione rimane uno zoccolo duro di castanicoltori che, secondo i dati relativi al 2007, è intorno alle 34 mila unità.
Figura 1 - Aziende con castagneto da frutto e relativa superficie investita - (superficie in ha)
Fonte: Istat - Censimento Agricoltura (anni 1970, 1982, 1991 e 2000) e Indagine SPA (anno 2007)
Diversi sono i vincoli strutturali ad uno sviluppo competitivo del settore (Figura 2). Le aziende castanicole sono di piccola-media dimensione: l’80% delle aziende e il 40% della superficie sono compresi nella classe di SAU 0-5 ettari, mentre la superficie media investita a castagneto da frutto è di circa 2 ettari (Fonte: Indagine SPA 2007, Istat). La crescente senilizzazione e il basso livello di istruzione dei conduttori spiegano anche il basso livello di diversificazione dell’attività aziendale. Il castagno risulta situato per oltre il 70% sopra i 500 metri di quota; la superficie accidentata è pari a circa un quarto di quella totale. Lo spopolamento di molte aree e gli ambienti pedoclimatici non favorevoli hanno indotto a praticare colture caratteristiche delle aziende di montagna, con prevalenza di prati permanenti e pascoli. Dal punto di vista fitosanitario molti impianti, pur sopravvissuti ai devastanti attacchi di cancro corticale (Endothia parasitica), restano soggetti ai periodici ritorni del mal dell’inchiostro (Phytophthora cambivora e P. cinnamomi) difficile da combattere. Ai noti insetti parassiti dei frutti (balanino, cidie) si è recentemente affiancato il cinipide galligeno, che danneggia pericolosamente la vegetazione e la fruttificazione delle piante. L’estensione delle infestazioni del cinipide alla quasi totalità del territorio italiano, sta già mettendo a dura prova la produzione castanicola italiana, mentre si attende che la normativa vigente venga presto modificata, sia per togliere sanzioni non più motivate, sia per agevolare l’applicazione di efficaci metodi di lotta e la ripresa commerciale dei vivai.
Figura 2 - Caratteristiche delle aziende con castagneto da frutto
Fonte: Censimento agricoltura 2000 per le aziende per classi di SAU, Inventario Nazionale delle foreste 2005 per le classi di altitudine, Indagine SPA 2007 per gli altri dati
Tuttavia, l’Italia rimane tra i più importanti attori sul mercato internazionale: insieme alla Cina è il principale esportatore mondiale di castagne, con un prodotto che per proprietà organolettiche e caratteristiche estetiche e tecnologiche (tipiche della specie europea Castanea sativa) si differenzia qualitativamente in modo netto da quello prodotto in Cina (che deriva da Castanea mollissima) come da quello prodotto in Giappone (Castanea crenata). La propensione all’esportazione della castanicoltura italiana è elevata (le esportazioni rappresentano circa il 30-40% del raccolto) ed è fortemente caratterizzata a livello territoriale dato che le esportazioni italiane provengono per il 65% e il 12% da, rispettivamente, Campania e Piemonte (Castellotti, 2010).
Le filiere castanicole a livello regionale
I dati ISTAT del 2007 (Figura 3) evidenziano che la superficie coltivata a castagneti è concentrata principalmente in cinque regioni: Campania (13,3 mila ettari), Calabria (10,7), Toscana (7,8), Lazio (5,2) e Piemonte (5,4); segue a distanza l’Emilia-Romagna (2,2).
Figura 3 - Distribuzione regionale delle aziende castanicole e della superficie investita a castagneto da frutto, anno 2007
Fonte: Istat - Indagine SPA 2007
La castanicoltura italiana si presenta molto differenziata dal punto di vista ambientale, strutturale, tecnico ed economico. Le rese unitarie dipendono in gran parte dalle varietà e dalla loro rispondenza alle caratteristiche pedoclimatiche locali; alle varietà sono spesso legate le problematiche commerciali. In Italia predomina di gran lunga la coltivazione di varietà di Castanea sativa, ma in Piemonte sono state diffuse molte varietà di ibridi euro-giapponesi, che da quella regione hanno poi raggiunto altri areali italiani. Considerando la sola Castanea sativa, un’indagine approfondita in Campania (Santangelo et al., 1992) ha definito nove tipologie colturali distinte in relazione all’ambiente, al livello di evoluzione dell’agrotecnica applicata, all’età e alla produttività dei castagneti. Non si dispone di attendibili dati comparativi tra le diverse tipologie nelle regioni italiane; tuttavia, considerando che un castagneto tradizionale ma razionale oppure un nuovo impianto possono produrre 45-50 quintali annui ad ettaro nella migliore castanicoltura campana e nazionale, le basse rese medie (Tabella 1) testimoniano che in tutte le regioni è dominante il castagneto estensivo tradizionale, caratterizzato da basse densità di piantagione, scarsi input culturali, bassi livelli di produttività e di remunerazione dei fattori di produzione. In particolare, in Calabria le rese di un castagneto tradizionale di tipo estensivo possono arrivare a 3-4 quintali annui ad ettaro mentre un castagneto tradizionale razionale può arrivare intorno ai 25-30 quintali (Adua, 2001; Scalise, 2009). In Campania prevale il castagneto tradizionale razionale con rese elevate, soprattutto nelle aree in cui esiste una matura organizzazione della filiera (province di Avellino e Salerno) mentre nelle aree di minore produttività prevalgono fenomeni di abbandono e naturalizzazione degli impianti o di transizione al ceduo (Pomarici et al., 2006). La provincia di Caserta dà inizio alla campagna di commercializzazione nazionale delle castagne di tipo europeo, con la raccolta della castagna Tempestiva, a inizio settembre, in razionali impianti su suolo vulcanico (Grassi, 2006).
In Piemonte, la produzione proviene per la maggior parte da castagneti tradizionali soggetti a regolare manutenzione, sebbene in alcune realtà (Monregalese) la raccolta sia effettuata anche su superfici non coltivate o semi-abbandonate. Il basso valore unitario relativo a questa regione risente del calo produttivo causato sia dalle avverse condizioni meteorologiche registrate negli ultimi anni, sia dalla crescente intensità degli attacchi del cinipide galligeno diffusosi a macchia d’olio in quasi tutti gli areali castanicoli della provincia di Cuneo.
Situazioni strutturali difficili sono riscontrabili nelle regioni in cui la castanicoltura riveste oggi un ruolo marginale: in Liguria, per esempio, i castagneti ancora produttivi sono generalmente vecchi impianti, anche secolari, con varietà per farina, con struttura e fisionomia spesso più affini ai boschi ed in condizioni morfologiche e di accesso non sempre facili e, pertanto, poco meccanizzabili. Recupero e razionalizzazione di impianti effettuati nel ventennio scorso nelle province di Sondrio, Como, Aquila e Teramo hanno migliorato le rese in marroni di Lombardia e Abruzzi. La Basilicata ha nell’areale del Vulture la sua migliore castanicoltura, ove il locale Marroncino è ancora in parte coltivato negli impianti a tradizionale struttura di ceduo fruttifero, in filari di ceppaie su cui due polloni sono alternati a rinnovo e innesto ogni 20-30 anni.
In Toscana si raccolgono sino a 35 quintali ad ettaro di ottime varietà di marroni casentinesi, in impianti razionali presenti in più aree regionali, che costituiscono elemento di intelligente e multifunzionale valorizzazione del territorio (Amiata, Marradi).
In Sardegna la castanicoltura ha presenza limitata alla parte interna del nuorese e sta evolvendo dagli estensivi impianti con varietà tradizionali e talora antiche, a frutteti di castagno con marroni selezionati.
La castanicoltura laziale presenta valori in linea con la migliore castanicoltura nazionale grazie all’efficienza delle tecniche produttive, con la diffusa adozione della raccolta meccanizzata e la qualità delle produzioni (sia castagne sia marroni). In particolare, la provincia di Viterbo traina il settore con una produttività degli impianti e i prezzi delle castagne e dei marroni che contribuiscono a determinare una buona redditività delle aziende castanicole dei Cimini.
Tabella 1 - Produzione raccolta di castagne nelle principali regioni castanicole. Anni 2004 – 2008.
*Media 2004-2007, ** Media 2004 e 2008, ***Media 2004-2006
Fonte: Istat - Statistiche forestali
Le singole regioni hanno pesi diversi sulla produzione nazionale a seconda che si consideri la produzione in quantità oppure in valore (Tabella 1).
La differenza nell’andamento del prezzo tra le diverse regioni dipende da diversi fattori (Castellotti, 2005), fra cui:
- il maggior valore unitario dei marroni di tipo casentinese, prodotti esclusivamente nel centro-nord;
- la qualità della produzione raccolta: per esempio, in Calabria la percentuale di bacato raggiunge il 30-40% della produzione raccolta;
- dall’organizzazione della raccolta, lavorazione e distribuzione del prodotto.
Per quanto riguarda quest’ultimo fattore, l’organizzazione economica della filiera presenta una molteplicità di situazioni e di livelli di integrazione tra i diversi operatori a livello regionale. Lo schema che segue (Figura 4) propone tutti i possibili passaggi della castagna dalla produzione al consumo specificandosi e caratterizzandosi a livello regionale1. In particolare, le diverse fasi possono essere svolte attraverso l’integrazione dei processi sotto un unico controllo imprenditoriale oppure attraverso intermediari (raccoglitori, responsabili d’acquisto, grossisti, mediatori) che si inseriscono tra una fase e l’altra lungo l’intero processo.
Figura 4 - Organizzazione della filiera castanicola
Nei castagneti tradizionali estensivi delle aree interne l’offerta è molto frazionata e differenziata sia per varietà, sia per qualità (pezzatura, forma del frutti, bacato) e non adeguata alle esigenze dell’industria che chiede invece partite grosse e omogenee in modo da non dover modificare le linee di lavorazione. I mediatori sopperiscono a questa debolezza strutturale della produzione. Pertanto, essi sono diffusamente presenti nelle aree arretrate quanto a impianti e associazionismo (soprattutto le aree interne), e lo sono sempre meno quanto più ci si sposta verso aree a imprenditoria castanicola più evoluta e dove c’è stato sviluppo di integrazione tra le fasi di filiera. Interviste a interlocutori privilegiati testimoniano una lenta semplificazione dei rapporti di filiera, che porta a contratti diretti tra produttori e agenti delle industrie di lavorazione e trasformazione (Campania in primis, poi Toscana, Piemonte e Lazio). In particolare, per conferire il raccolto dal produttore a una industria di lavorazione (che poi vende alla GDO o esporta), occorrono ancora da 4 a 3 passaggi di intermediari nelle aree interne della Calabria e nelle altre regioni dove mancano forme di aggregazione dell’offerta, da 3 a 2 se vi sono cooperative, da 1 a 0 se vi sono cooperative efficienti. Pertanto, in molti casi, i mediatori hanno costruito, dopo il magazzino, centri di prima lavorazione (cernita, calibratura, poi curatura), per poi consegnare il fresco a grossisti e GDO; in qualche caso, hanno creato centri di prima trasformazione (pelatura), per poi consegnare alla industria.
Esistono situazioni di arretratezza economica e produttiva in cui politiche pubbliche hanno incentivato l’associazionismo dei produttori. In Liguria alcune forme di associazionismo tra produttori e trasformatori hanno consentito di accrescere la massa critica del comparto e strutturare anche interventi di filiera tramite l’accesso ai finanziamenti pubblici. Il “Progetto pilota per la montagna spezzina” ha attivato un interessante sostegno all’associazionismo tra produttori secondo l’approccio della cosiddetta “filiera corta” avente come capofila il Parco Nazionale delle Cinque Terre. In Trentino, la filiera risulta estremamente corta e riguarda quasi esclusivamente il mercato fresco: produttore-consumatore oppure produttore-punto venditaal dettaglio sito nel circondario del luogo di produzione. I produttori associati nella “Cooperativa castanicoltori del Trentino Alto Adige” unitariamente commercializzano il prodotto e gestiscono le iniziative di marketing e promozione. Questa struttura corta della filiera permette un’ottima remunerazione del prodotto (Castellotti, Fazzi, 2010b).
Nelle regioni Campania e Piemonte si concentrano tra i più importanti operatori della filiera castanicola italiana ed europea. Il distretto castanicolo avellinese è composto da migliaia di piccoli produttori, da dodici aziende di trasformazione, di cui tre grosse industrie di surgelazione, caratterizzate da un buon livello tecnologico; questa provincia è uno dei principali poli europei di trasformazione e alimenta la sua attività con materia prima proveniente anche dall’esterno della regione (Viterbo, Mugello, Calabria, Portogallo e Spagna). Nei comprensori avellinesi di Montella e Serino l’organizzazione della filiera vede un’integrazione tra produzione, raccolta e prima trasformazione e quindi cessione, diretta o attraverso dei mediatori, a grossisti per il consumo diretto o agli operatori della seconda trasformazione (Pomarici et al. 2006). Alcune imprese di trasformazione si occupano anche della commercializzazione e sono tra i più importanti operatori sui mercati nazionali e esteri.
In Piemonte, il distretto castanicolo cuneese è composto da migliaia di piccoli produttori e decine di commercianti nazionali ed internazionali raggruppati nel consorzio di tutela del marchio I.G.P. I trasformatori sono una ventina e vanno dal leader mondiale di prodotti di qualità (Agrimontana) ai produttori di paste alimentari a base di farine di castagne, di castagne conservate, di creme di castagne e di basi per pasticceria e gelateria, ai mulini per la farina di castagne. L’industria fornisce macchine per la raccolta meccanizzata e per la lavorazione; l’università di Torino è presente con la sua Facoltà di Agraria a Cuneo; al Centro di Castanicoltura di Chiusa Pesio contribuiscono enti di ricerca ed amministrazioni territoriali.
Tuttavia, sia la castanicoltura campana che quella piemontese, come pure quella toscana (che pur annovera circa 17 associazioni), sono caratterizzate dal generale scarso potere contrattuale dei produttori nei confronti degli altri attori della filiera, con perdita di importante quota di valore aggiunto e di remunerazione del loro raccolto.
Conclusioni
L’analisi del settore castanicolo mostra che in Italia sono individuabili realtà estremamente differenziate dal punto di vista della dotazione delle risorse, delle caratteristiche strutturali ed economiche della filiera e del grado d’integrazione tra le sue componenti. La filiera castanicola italiana è costituita da pochi operatori che trasformano e commercializzano il prodotto sui mercati nazionali ed esteri, da un’offerta frammentata costituita da aziende di piccole dimensioni e dalla presenza di numerosi intermediari tra la produzione e il consumo. Tale struttura si riflette sia sul prezzo alla produzione (poco remunerativo) che su quello al consumo (troppo elevato), mentre pregiudica la costanza degli approvvigionamenti, in qualità e quantità, e la lavorabilità del prodotto fresco. A tal fine gli operatori commerciali importano prodotto estero al fine di stabilizzare la capacità d’offerta sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Uno dei maggiori vincoli al suo sviluppo è, pertanto, l’assenza di rapporti consolidati tra le varie componenti. I casi di successo mostrano la necessità di politiche che portino ad una redistribuzione del valore aggiunto tra gli operatori della filiera che permetta ai produttori la remunerazione adeguata dei fattori di produzione. L’adozione di approcci di tipo integrato e partecipato da un lato e di politiche di sostegno all’associazionismo tra produttori dall’altro potrebbero migliorare le prospettive della castanicoltura italiana.
Riferimenti bibliografici
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- Castellotti T. (2005), “Il castagno” in Briamonte L. (a cura) Il comparto della frutta in guscio in Italia, INEA, Roma, pp. 107-121
- Castellotti T. (2010), “Luci ed ombre della castanicoltura italiana nel commercio internazionale”, Agriregionieuropa, n. 22, [link]
- Castellotti T., Fazzi L. (2010a), “Relazione dei Coordinatori per il Gruppo I Politiche di settore: produzione, trasformazione, commercializzazione e problematiche comunitarie” in MiPAAF, Piano del Settore Castanicolo 2010/2013, parte 3: Elaborato dei gruppi di lavoro, pp. 25-53
- Castellotti T., Fazzi L. (2010b), “Relazione dei Coordinatori per il Gruppo I Politiche di settore: produzione, trasformazione, commercializzazione e problematiche comunitarie” in MiPAAF Piano del Settore Castanicolo 2010/2013, parte 4: Elaborato delle Regioni sulla castanicoltura territoriale, pp. 4-85
- Grassi G. (2006), “Germoplasma e biodiversità del castagno da frutto in Campania” in Cristinzio G. e Testa A. (a cura) Il castagno in Campania, problematiche e prospettive della filiera, Ed. Imago Media, Dragoni (CE), pp. 62-73
- ISTAT (2008), Indagine sulla struttura e le produzioni delle aziende agricole (SPA) – Anno 2007
- Pomarici E., Raia S., Rocco L. (2006), “La castanicoltura in Campania: aspetti strutturali e problematiche di filiera” in Cristinzio G. e Testa A. (a cura) Il castagno in Campania, problematiche e prospettive della filiera, Ed. Imago Media, Dragoni (CE), pp. 92-120
- Santangelo I., Picariello C., Ferrantino E., Pesa P. (1992), “Tecnica di coltivazione nei castagneti tradizionali” in Atti del Convegno Nazionale sulla Castanicoltura da Frutto, Avellino 21 e 22 ottobre 1988. CCIAA AV, pp. 121-144
- Scalise A. (2009), “Castanicoltura, la Calabria ha cultivar resistenti”, Calabria rurale, n. 2 novembre-dicembre, Dipartimento Agricoltura, Foreste e Forestazione, Regione Calabria, Ed. L’informatore Agrario, pp. 33-36
- 1. Lo schema è stato proposto per la filiera castanicola campana in Pomarici et al., 2006.