Degrado e fragilità: un tema interdisciplinare

Degrado e fragilità: un tema interdisciplinare

Abstract

Il punto focale di questo lavoro sono, non solo le conseguenze degli eventi estremi, ma soprattutto le cause che rendono “estremi” gli eventi naturali: tra queste, il degrado dei luoghi, non considerato mai come possibile esito della “normale” evoluzione delle relazioni economiche tra agenti. In stretta correlazione alla dinamiche che conducono al degrado, emerge il tema della natura del bene “sicurezza collettiva”. Si discuteranno le implicazioni del considerare la sicurezza un bene common, della stessa natura della “salute pubblica” e saranno infine presentati i risultati di un esercizio di valutazione.

 

While the occurrence of a natural hazard could be considered exogenous, its transformation into a disaster is not” (Rodriquez-Oreggia et al. 2013, p. 442)

 

Introduzione

Il fenomeno del degrado non è molto studiato dalla teoria economica e certamente, sotto la protezione del comportamento razionale, non è considerato un possibile esito dello “sviluppo” delle stesse relazioni economiche tra agenti. Il concetto è invece un argomento importante in altre discipline e professioni – architetti, urbanisti, sociologi, ingegneri, decisori, ecc. ‑ che riconsegnano il tema all’economia sotto la mutevole forma di conseguenze e fatti empirici non trascurabili: la fragilità delle aree interne, i danni provocati da eventi estremi, i costi crescenti di manutenzione delle infrastrutture, la perdita di valore di aree urbane,  l’ordine pubblico, le migrazioni, la formazione di sacche di povertà, la crescita delle diseguaglianze e di comportamenti devianti. La lista può essere assai più lunga.
I punti focali di questo lavoro sono, non solo le conseguenze degli eventi estremi, ma le cause che rendono “estremi” gli eventi naturali: il degrado ‑ in prima definizione, come progressiva perdita della fertilità economica delle risorse locali e, dunque, del valore dei luoghi ‑ sarà indicato come la causa principale della fragilità delle aree, non importa se urbane o rurali, se centrali o periferiche. Si vedrà come il tema costituisca, sia un punto di convergenza di diversi approcci analitici sia, al tempo stesso, una linea di partenza per affrontare la moltitudine di fatti empirici richiamati ed evidenziati da tutte le discipline. In sintesi, quello che si vuole seguire è una prospettiva che si potrebbe definire di “epidemiologia economica”; cioè: si cercherà di affrontare il tema delle modalità d'insorgenza, di diffusione, dell’intensità e degli effetti del degrado su un determinato sistema eco-sociale, in rapporto all’ambiente economico-naturale in cui è inserito.

Le conseguenze sociali degli eventi estremi

Posta di fronte agli effetti del degrado, l’economia può rispondere con una ricchissima dotazione di strumenti per analizzare e concettualizzare i diversi problemi, cercando di calcolare rischi, stimando costi e modellando comportamenti. La maggioranza dei temi trattati possono essere raccolti sotto due voci: da un lato, gli studi e le misure (soprattutto macroeconomiche) della vulnerabilità dell’unità x considerata; dall’altro, l’analisi degli effetti di un evento estremo sulla qualità/disponibilità delle risorse e, dunque, sull’impatto nello sviluppo di x a seguire. La prima voce raccoglie fatti e dati ex-ante; la seconda racconta e analizza le conseguenze ex-post successive al t0 (l’evento catastrofico). In generale però, non viene analizzato il processo socioeconomico che porta alla progressiva perdita di fertilità delle risorse e della capacità di resilienza dei “luoghi” in cui tali risorse vengono utilizzate. Il problema teorico è che tale processo di perdita progressiva deve essere definito nel tempo e contestualizzato rispetto all’ambiente esterno. In altri termini, si pone un problema di relazioni funzionali all’interno dell’unità considerata e con il contesto “esterno”. Un tema molto scomodo per la teoria economica che si trova di fronte unità di analisi (ad esempio, un’area o una regione) diverse da quelle standard, che si basano sul comportamento di attori che scelgono all’interno di un set dato di opzioni puramente individuali.
L’esigenza di modificare la prospettiva analitica emerge dalla stessa evoluzione della letteratura sulle conseguenze della fragilità territoriale e degli eventi estremi. Come hanno notato molti autori (Juntunen 2006; Kahn 2005; White e Haas 1975) prima della metà degli anni settanta il problema degli effetti degli eventi catastrofici era studiato unicamente dal punto di vista ingegneristico/geologico. Solo successivamente aumentano gli studi che mettono in evidenza che la vulnerabilità è determinata da processi sociali, economici e politici e che, in ultima istanza, tali fattori definiscono il pericolo stesso (Bolin and Stanford, 1991; Blaikie, 1994; Cannon, 1994;  Wisner, 1998; Mileti, 1999; Morrow, 1999; Steinberg, 2000; Klineberg, 2002; Wisner et al. 2003; Lim et al. 2017; Ward et al. 2017). Tuttavia, anche se l’attenzione al problema è cresciuta nel corso del tempo, esso sembra aver interessato assai più le indagini sociologiche che quelle economiche.
Questa evoluzione concettuale conduce ad un paradosso: la valutazione del rischio individuale è uno dei temi che costituiscono il core delle discipline economiche, ma non la valutazione del rischio sistemico. Infatti, il calcolo del rischio rimanda alla valutazione dei comportamenti individuali, al valore dell’informazione e del tempo nell’allocazione delle risorse, ecc. seguendo una prospettiva di scelta individuale. Anche la distinzione tra rischio (insieme degli eventi di cui è possibile stimare una distribuzione probabilistica) e incertezza (le conseguenze dell’impatto di un evento estremo), porta alla domanda: rischio/incertezza da quale punto di vista? È vero che da un punto di vista individuale il rischio di un evento estremo, e l’incertezza sulle conseguenze economiche sulla ricchezza – in termini di fertilità delle risorse possedute – è difficilmente calcolabile. Non lo è però dal punto di vista della specie umana: soprattutto in determinati contesti, c’è l’assoluta certezza dell’alta frequenza di fenomeni naturali “fuori scala” e con conseguenze certamente più dure rispetto alla fragilità sociale e, dunque, economica dei gruppi sociali e dei territori. In altri termini, se dal punto di vista individuale rischio e incertezza possono rendere assai complessa la valutazione economica, non è lo stesso per le istituzioni che dovrebbero incorporare nei propri fondamentali la memoria storica delle conseguenze degli eventi estremi, più gravi in contesti di fragilità eco-sociale, che generano ulteriori condizioni di debolezza.
Per approfondire il tema dal punto di vista (micro)economico possiamo interrogarci sulla natura del bene sicurezza”, in reazione inversa con la vulnerabilità intesa come “male” economico.

Che tipo di “bene” è la sicurezza?

La sicurezza è un bene pubblico o un bene di lusso? Un bene club o un common? Si può partire dalla definizione proposta da J.Boyce (2000, p.4): “Vulnerability to natural and technological disasters is to a large extent a public bad: such disasters typically strike communities, not isolated individuals. By the same token, measures to reduce vulnerability are to a large extent public goods.”
La definizione potrebbe risultare perfettamente condivisibile, ma solo se la definizione di “public good” fosse rigorosa e inoppugnabile sul piano della coerenza interna. In realtà, la sicurezza non è un “bene” ma un esito di un processo eco-sociale determinato da un suo funzionamento (measures to reduce vulnerability). I risultati di tale processo potrebbero essere associati alla categoria di “public good” – o meglio di “common” – ma solo in una classificazione ex-post e, certamente, solo parzialmente attribuibili a scelte di “consumo” strettamente individuali (es. spese di natura difensiva).
Per non rendere astratta la discussione, si può partire da un esempio: come – ma soprattutto – perché dovremmo ricostruire “dove prima, meglio di prima” (Esposito et al. 2017) in un luogo già economicamente e socialmente fragile, reso non-luogo da un evento estremo? Dati i tempi, anche i più ottimistici necessari alla ricostruzione – e dati anche gli effetti dell’età (elevata) della popolazione residente– è assolutamente certo che molti degli abitanti non avranno più la possibilità di rientrare nelle loro case o riprendere le loro attività.
Se la discussione sulla vulnerabilità venisse posta in questa prospettiva – ontologicamente orientata dall’assetto ex-ante dei diritti di proprietà – significherebbe che un evento estremo, nei fatti, risolverebbe in modo darwiniano anche il problema della fragilità stessa: la vulnerabilitàrivelerebbe solo il precedente scarso valore economico del bene danneggiato, e l’abbandono di ciò che resta sarebbe dunque un comportamento razionale, perfettamente coerente con l’esercizio individuale del diritto di proprietà. Ma se così fosse, osservata nello spazio, la geografia della fragilità non sarebbe solo una fotografia di un problema privato, ma la mappa epidemiologica degli effetti interattivi della diffusione inarrestabile del “virus” del degrado dei luoghi e della vulnerabilità territoriale. Dunque, il reale peso della sicurezza, quale prerequisito indispensabile per la conservazione del valore dei beni privati, non può che essere affrontato dal punto di vista del funzionamento generale dei sistemi eco-sociali.
I processi di degrado sono potenzialmente presenti in tutti i sistemi eco-sociali (Ostrom, 1990; 2003), ma qui l’attenzione si vuole concentrare soprattutto nelle aree rurali e interne (Barca et al., 2014). Il degrado nella definizione qui proposta è in relazione inversa con il concetto di sostenibilità: ovvero, conseguenza diretta e indiretta di scelte di una non-sostenibile allocazione/riproduzione delle risorse. Rispetto al concetto di sostenibilità, il degrado è più facilmente analizzabile e misurabile sul piano analitico/fattuale, e la sua definizione teorica è aperta alla verifica di un’ampia platea di contributi interdisciplinari.
Seguendo lo schema proposto della letteratura sui sistemi eco-sociali (Anderies et al., 2004), si possono definire due concetti operativi principali: la cultura e la memoria di un sistema eco-sociale. Per cultura si adotta una definizione molto vicina a quella dell’antropologia: usi/costumi, strumenti e istituzioni (insiemi di regole) condivisi e convissuti da una determinata comunità in un certo tempo/luogo. La cultura è il functioning di un sistema eco-sociale. Per memoria si indica l’insieme di capabilities presenti e disponibili in un sistema eco-sociale: conoscenza tecnologica nell’allocazione delle risorse (private, pubbliche e beni comuni); ovvero la specifica abilità degli attori di ordinare in modo razionale – privatamente e socialmente – le necessità/preferenze, sotto il vincolo delle risorse scarse e delle specifiche circostanze determinate dall’ambiente naturale e dalle regole istituzionali.
Come drammatico esempio dell’importanza nella definizione dei luoghi della interazione tra capabilities e functioning, tra cultura e memoria, si osservi la mappa degli incendi che ogni anno affliggono sempre le stesse zone del Paese, inversamente correlata al livello di capitale sociale presente nella comunità. Nel caso specifico degli incendi, si veda il caso virtuoso del Trentino o del Friuli, dove la protezione dei luoghi avviene grazie all’interazione delle forme organizzative (quotidiane) della protezione civile e del volontariato, con la cultura della protezione ambientale condivisa dalla comunità: per tali comunità, l’ambiente intorno all’abitato non è uno spazio “contenitore delle esternalità”, ma un common perché, non diversamente da una piazza o da una via – e grazie all’azione continua di monitoraggio istituzionale e volontaria – è parte costitutiva e identitaria, risorsa economica irrinunciabile del villaggio stesso1.

Micro relazioni, evoluzione dei sistemi eco-sociali e macro effetti

Uno dei risultati della realizzazione di specifiche capabilities sociali in functioning è la definizione del significato e del valore dei luoghi, ovvero la trasformazione dello "spazio" in senso economico. In apparente analogia con la nota classificazione delle tipologie di beni economici, è possibile distinguere i “luoghi” economici in privati, pubblici, pubblici prodotti da privati, e commons (vedi tabella 1). Normalmente, nel linguaggio economico corrente, si ritiene che le diverse tipologie di beni si fondino, da un lato, sull’esercizio dei diritti di proprietà (privati) e, dall’altro, sui limiti che tale esercizio incontra in relazione all’escludibilità/rivalità oggettiva nell’uso di tali beni. Nel caso dei “luoghi” le relazioni casuali si invertono.

Tabella 1 - Dagli spazi ai luoghi: esercizio e condivisione dei diritti di godimento

Fonte: elaborazione propria

Nel caso dei luoghi, sono gli esiti dell’interazione tra Memoria (istituzioni e capabilities) e Cultura (functioning) che definiscono storicamente l’escludibilità/rivalità dei beni nello spazio economico; quindi, non solo i limiti, ma la natura degli stessi diritti di proprietà/accesso alle risorse.
È da notare il diverso significato del concetto di “rivalità” nel momento che viene modificata l’unità di analisi, dall’individuo al sistema eco-sociale, dagli spazi ai luoghi. Già la Ostrom e i suoi collaboratori hanno modificato quel termine – coniato per vestire l’homo oeconomicus – proponendo il concetto di subtractability che può essere interpretato anche in termini di “contendibilità” nell’uso della risorsa (o dello spazio, come in tabella 1). Ad esempio, un sistema idrico locale gestito da un comune di montagna che assicura libero accesso all’acqua per i suoi abitanti (quindi assegna un preciso valore alle rendite economiche che si trasferiscono nei valori dei beni privati e pubblici locali) potrebbe essere conteso, a valle, da un sistema economico più povero di risorse idriche e che, dunque, rivendica il diritto all’acqua come “bene comune”: in questi casi, gli esiti delle soluzioni istituzionali possono essere molteplici, in grado di rimodellare i confini stessi delle comunità. In sintesi, il concetto di “contendibilità” si riferisce all’uso interno delle risorse da parte di un sistema eco-sociale, rispetto all’utilizzo alternativo di quelle stesse risorse dai sistemi limitrofi e/o dal più ampio contesto economico. Da questa prospettiva diventa molto chiaro anche il concetto di degrado: una perdita netta di risorse umane e naturali che, “riducendo” il valore collettivo dei luoghi, rende progressivamente insostenibile la produzione di beni pubblici, non conveniente la produzione di luoghi privati ad uso pubblico e, infine, determina inesorabilmente l’isolamento progressivo dai network socio-economici, distruggendo così il valore dei beni privati stessi: immobili, attività, competenze (Càrdenas et al. 2017).
In particolare, il processo economico che porta al degrado trova sempre origine dalla progressiva caduta del valore condiviso degli spazi comuni, questo riduce l’incentivo ai privati di costruire attività economica attraverso la produzione di spazi collettivi; segue infine la non sostenibilità economica degli interventi di produzione/riproduzione degli spazi pubblici. Gli effetti congiunti di queste tre cause determinano inevitabilmente la progressiva caduta del valore economico degli spazi/risorse privati, indipendentemente dalla razionalità di esercizio dei diritti di proprietà da parte dei proprietari di quelle risorse. A causa di tale processo vi è una sempre più rapida divergenza tra i processi di localizzazione delle imprese (alta mobilità nella domanda di risorse) e l’abitare delle persone che rimangono (e i processi di rigenerazione delle risorse stesse).
Si può proporre un test di quanto affermato: si provi a stimare il valore immobiliare o commerciale di un edificio perfettamente conservato nel mezzo di rovine prodotte da un evento estremo. Ci si renderà conto che la sicurezza ha la stessa natura della “salute pubblica”: non dipende, e non può dipendere solo dalla razionalità del comportamento individuale – dalla personale propensione o avversione al rischio, dall’entità delle spese difensive sostenute – bensì dal livello di sicurezza/salute dei luoghi e delle persone con cui si è in relazione e che, in ultima istanza, determinano l’effettivo valore “di mercato” dei beni privati.
Mentre la letteratura internazionale ha ormai focalizzato il rapporto stretto tra fragilità socio-economica e severità delle conseguenze di un evento estremo, assai più rara è l’attenzione all’interazione dinamica tra “luoghi”. Ovvero tra i cambiamenti nei diversi stati in cui l’attività umana si snoda e si articola: dai luoghi common a quelli privati, dagli spazi pubblici a quelli privatamente condivisi. Nelle aree urbane, l’avvio di un processo di degrado è più nascosto e, spesso, le azioni di contrasto scattano in modo più automatico, come previsto dalla teoria, attraverso l’esercizio dei diritti di proprietà e dai processi di “gentrificazione”: il degrado di uno stabile può estendersi ad un isolato e ad un quartiere – anche per molti anni a seguire – ma trova poi un probabile contrasto dal livello delle rendite urbane, comunque sostenute ed alimentate dall’ampia disponibilità di luoghi pubblici, privati ad uso pubblico e comuni che normalmente caratterizzano una città. Andamento radicalmente diverso può caratterizzare le aree rurali e remote. In questi contesti l’abitare delle persone è potentemente influenzato – assai spesso con scarse alternative – dall’abitare delle imprese e dalla riallocazione delle attività che seguono i mutamenti della divisione territoriale del lavoro: il processo di degrado prende sempre avvio dalla progressiva scomparsa dei luoghi necessari alla ricostruzione della identità comune, dunque dalla non riproduzione del patrimonio delle capabilities e, dunque, della memoria. Il problema non è locale, ma planetario: dagli effetti dello sprawl nella localizzazione delle attività produttive nella Pianura Padana, alla distruzione delle foresta di mangrovie per la localizzazione dell’acquacultura industriale dei gamberi in Tailandia (Sathirathai e Barbier 2001; Das 2017).

Sostenibilità vs. degrado, resilienza vs. fragilità: alla ricerca di una misura

 Per affrontare in poche righe questo intricato problema, possiamo partire da un’affermazione condivisa dagli ingegneri strutturisti: i muri hanno memoria. Il che implica che possano essere considerati “processi” attivi. Segue che le misure (e le politiche) non possono essere concepite in un framework di equilibrio statico: generazioni che consumano in modo ottimale, scontando i bisogni delle generazioni future; sistemi che “ritornano” automaticamente allo stato originario. Purtroppo, la piacevole foto di una vivace via del centro si può trasformare, lo stesso giorno, in una trappola mortale che inghiotte 249 vite umane. I muri hanno memoria: l’immagine di un percorso apparentemente sostenibile dello sviluppo locale, può nascondere i progressivi effetti del degrado; la normale resilienza sociale prodotta della vita e delle attività quotidiane, una impensabile fragilità. L’evento estremo è un “acceleratore” del tempo e rivela – in modo spesso drammatico – cosa contiene davvero la “memoria dei muri”. Dato questo, costruire esperimenti di misura, ex-ante e/o dal confronto con controfattuali, del degrado o della fragilità è questione tutt’altro che semplice. Dunque non è semplice indicare le corrette politiche di prevenzione, individuali e collettive, rispetto al rischio. In ogni caso, come i muri, le istituzioni non dovrebbero perdere la memoria.
Tre geologi dell’Ingv e una vulcanologa-documentarista dell’Eedis2 hanno recentemente pubblicato uno studio (Valensise et al. 2017). che propone un quadro analitico, utilissimo per un esercizio di valutazione: quali sono comparativamente le motivazioni dei danni subiti da Amatrice e la straordinaria “resilienza” mostrata da Norcia nel corso degli eventi sismici del 2016/17. In grande sintesi, queste sono le domande di ricerca proposte dagli autori: come è possibile osservare una tale differenza nelle conseguenze dello stesso fenomeno, comparabile per geometria della fonte, profondità dell’ipocentro e presumibilmente con una scossa di entità simile? Inoltre, dopo i differenti esiti seguiti alla prima scossa del 24/8/2016, come è possibile che Norcia resista ancora ad un evento sismico, che raggiunge proprio il punto più alto della sequenza (6.5 Mw), e solo dopo un brevissimo lasso di tempo il 30/10/2016? Che lezione possiamo imparare per prevenire le distruzioni e le conseguenze che inevitabilmente saranno causate da futuri terremoti nelle aree limitrofe o in generale in Italia? Tre sono le ragioni che vengono proposte per spiegare la drammatica differenza dell’impatto dello stesso evento sismico:

  • Norcia, dal terremoto del 1703, ha visto tre grandi interventi di ristrutturazione che sono stati tutti sottoposti a specifiche regole antisismiche. In particolare, gli interventi più importanti sono seguiti agli eventi sismici del 1979 (Mw 5.8) e del 1997 (Mw 5.5 – 5.7).
  • Norcia è un centro economico straordinariamente più vitale di Amatrice, in una zona di passaggio strategica, , che vive un processo di ristrutturazione continuo come normale “ammortamento” necessario al funzionamento della macchina economica (Tabella 2)3.
  • Amatrice nei trascorsi tre secoli non ha avuto alcun processo di ristrutturazione e preparazione agli eventi sismici. Per rendere le cose peggiori, negli ultimi decenni Amatrice è diventata una destinazione turistica, nel boom per la seconda o la terza generazione di "amatriciani" che ora vivono in grandi città come Roma o nelle vicine Rieti e per i turisti “parsimoniosi”, da Roma e dall'Italia centrale in generale. Nella maggior parte dei casi le loro seconde case sono state ottenute dalla ristrutturazione di ex edifici rurali o addirittura di stalle; la maggior parte di queste case sono state costruite in modo precario con muratura non rinforzata - generalmente usando i ciottoli - e senza fondamenta. (Valensise et al. 2017; p. 293).

Gli autori non ne fanno menzione ma a tutto questo si può aggiungere l’importanza strategica assunta a Norcia, nel processo di ricostruzione, dalla specifica perimetrazione dei danni e la definizione di Unità Minime d’Intervento (Umi) estese per blocchi grandi come gli isolati, per rendere maggiormente coerente e unitaria la progettazione, e gli edifici maggiormente resilienti; il protocollo non ha seguito la geografia delle convenienze e dei diritti di proprietà individuali, ma ha puntato prioritariamente alla sicurezza come bene comune (Giovannetti 2016).
Con queste analisi sullo sfondo, è possibile pensare alla costruzione di un indicatore economico in grado di tracciare l’evoluzione dei fenomeni socioeconomici che spiegano le differenze strutturali accumulate nel corso del tempo? Si può costruire uno strumento che provi ad interpretare la “memoria del muro”? Non si dispone di una risposta a queste domande, si può solo proporre il risultato di un esercizio statistico.

Tabella 2 - Un confronto dei sistemi eco-sociali di Amatrice e Norcia (dati censimento 2011)

Fonte: Giovannetti e Pagliacci (2016)

I dati riportati in tabella 2 confermano largamente le conclusioni qualitative del lavoro appena commentato; dall’altro lato, la descrizione degli eventi e delle circostanze geologiche e sismologiche confortano l’ipotesi che le due località possano costituire uno straordinario laboratorio per un’analisi controfattuale. In particolare Norcia mostra tutte le caratteristiche di un’area economicamente vitale e meno esposta agli effetti del degrado, quindi meno fragile nei confronti degli eventi estremi e più resiliente nei confronti dei danni subiti: maggiore presenza di giovani e delle fasce attive della forza lavoro; importante presenza della manifattura e delle altre attività economiche (minore presenza di inattivi).
Ma su un punto specifico è necessario soffermarsi – un punto scomodissimo sul piano politico – che indica l’azione di un driver fondamentale nella progettazione degli interventi nelle aree distrutte dal sisma e, in generale, per le aree interne: la rigenerazione demografica attraverso la gestione dei flussi migratori. In particolare deve essere notato l’effetto congiunto del contributo all’economia locale (percentuale di stranieri a Norcia doppia rispetto ad Amatrice) e la ristrutturazione soprattutto della base (percentuale di popolazione 0-14 anni) della “piramide delle età”; in sintesi, il segno della rigenerazione delle risorse umane e delle capabilities.

Considerazioni conclusive

Per le considerazioni appena proposte, il degrado si presenta in relazione inversa alla sicurezza (economica, sociale ed ambientale) in quanto bene comune; quindi, in relazione diretta alla non-sostenibilità di un sentiero di sviluppo e, dunque, al crescente grado di fragilità che può caratterizzare un territorio, ovvero uno spazio urbano, così come un’area rurale/interna.
Come si è detto, le aree interessate dalla prospettiva del presente lavoro possono essere sia quelle rurali, sia quelle interne assai spesso, ma non necessariamente, coincidenti (Bertolini e Pagliacci, 2017). Queste aree sono soggette a progressivo abbandono e degrado architettonico e socio-culturale, a causa dei flussi migratori in uscita, bassa natalità, invecchiamento della popolazione, debolezza del sistema economico locale (spesso agricolo), bassi livelli di istruzione e marginalità sociale, fuga di competenze disponibili in loco, progressiva non sostenibilità dell’erogazione dei servizi alle persone. In questo quadro, gli eventi estremi si dimostrano un test di resilienza e la capacità di lettura a grana molto fine delle caratteristiche socio-economiche del territorio permette la costruzione di controfattuali per verificare le ipotesi proposte (Pagliacci e Russo 2016; Giovannetti e Pagliacci 2016).

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  • 1. Se questa argomentazione risultasse astratta e non osservabile si consiglia di visitare il sito dei vigili del fuoco – tutti volontari – in alta Val Badia e ascoltare il racconto del perché la frana del 2012, che ha distrutto parte delle frazioni di Anvì e Sottrù, non ha provocato alcun danno alle persone; (Corriere della Sera 14/12/2012).
  • 2. www.eventiestremiedisastri.it.
  • 3. Per gli autori, l’assenza di vittime e di feriti è anche parzialmente attribuibile alle precedenti evacuazioni dopo il 24/8 e ai ricoveri in sicurezza approntati dalla protezione civile (Valensise et al. 2017; p. 293). In realtà, non bisognerebbe ignorare due importanti “dettagli”: in primo luogo, la popolazione del centro storico era ancora largamente presente il giorno 30/10. Le precedenti evacuazioni riguardavano soprattutto i quartieri “nuovi” della periferia cittadina, assai più danneggiati e pericolosi dopo gli eventi del 24/8. Il secondo particolare, è che il 30/10 ha coinciso con una domenica e il ritorno all’ora solare. Osservando i danni subiti dai capannoni nell’area industriale e dalle chiese – dove era slittata avanti di un’ora l’inizio delle funzioni – si può affermare che la sorte è stata, in queste circostanze, assai benigna. Gli autori, in un passaggio, affermano un fatto perfettamente condivisibile: “From the point of view of seismic codes Italy is unfortunately – but also traditionally – characterized by a systematic “loss of memory” of the generally wise rules devised after a large earthquake, starting with the end of the XVII century.” (p. 297). Riflettere su quel che resta sulla chiesa di S.Benedetto – e sull’azione delle Belle Arti che hanno conservato il patrimonio, proteggendolo così bene dalle opere di consolidamento strutturale, tanto che ora non c’è più nulla da conservare – oppure, osservare nell’area industriale di Norcia – in fabbricati nuovi, costruiti dove l’avvento dei terremoti è un fatto certo – la stessa tipologia di danni ai capannoni industriali della bassa modenese, riempie di sconforto e di paura per la sorte che può attendere tutti i “patrimoni”, privati, pubblici e comuni di questo Paese.
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