Introduzione
Il dibattito sulla filiera corta, a più di vent’anni dal suo avvio, è entrato nella sua fase di maturità. Inizialmente, alla fine di un’epoca di forte evoluzione del sistema alimentare, prima guidata dall’industria alimentare e poi dalla grande distribuzione organizzata, le filiere corte sono state interpretate come ‘resistenza’ da parte di soggetti deboli, prima di tutto gli agricoltori, minacciati dalla marginalizzazione (Van der Ploeg et al., 2000). In quella fase, la filiera corta rappresentava per i piccoli agricoltori, e soprattutto per alcuni pionieri protagonisti di una prima ondata di ‘ritorno alla terra’ che aveva avuto inizio all’incirca negli anni ’80, uno strumento per la riappropriazione di quote di valore aggiunto che nel corso della modernizzazione, intesa come tendenza alla specializzazione e alla standardizzazione ai fini dell’integrazione di mercato, erano state erose dai soggetti forti della filiera. La possibilità di sganciarsi dai trend tecnologici e di mercato dominanti ha favorito lo sviluppo di forme di innovazione dal basso che incontravano bisogni emergenti dei consumatori, come la qualità dei prodotti legata alla loro origine, il rispetto dell’ambiente e i principi etici di produzione e distribuzione. Progressivamente, le filiere corte sono apparse come una delle molteplici forme dei cosiddetti ‘Networks alimentari alternativi’ (Alternative Food Networks) (Renting et al., 2000), canali commerciali appropriati alla commercializzazione di prodotti differenziati ad alto valore aggiunto, in grado di remunerare meglio l’azienda familiare e al tempo stesso comunicare ai consumatori valori – la cultura rurale, il rapporto con la natura - che i sistemi convenzionali non erano in grado o non volevano comunicare. Dallo studio delle filiere corte come ‘resistenza contadina’, in altre parole, si è passati a studiare le filiere corte come esempio di nuovi paradigmi di sviluppo agricolo (Van der Ploeg et al., 2000), e a discuterne il potenziale di trasformazione socio-economica (Goodman, 2004).
Se i “network alimentari alternativi” si sono andati evolvendo mantenendo una forte componente ideologica e il radicalismo delle origini, puntando su forme organizzative innovative come i gruppi di acquisto solidale o le community supported agriculture (Fonte et al. 2011; Brunori et al., 2012), l’affermarsi, in Italia e a livello internazionale di Slow Food (Leitch, 2003), ha traghettato molte delle tematiche care ai suddetti Network nel discorso istituzionale. L’incorporazione di queste tematiche da parte di Slow Food, movimento concentrato sulla valorizzazione della diversità biologica e culturale, sulla difesa dei territori e dei contadini e sul concetto di consumatore come co-produttore (Petrini, 2016), è apparsa per molti naturale, anche se, soprattutto in ambito anglosassone, tale incorporazione è stata vista con sospetto da chi sottolineava il carattere di ceto medio-alto dei consumatori di prodotti ‘etici’ (Tregear, 2011). Sotto questo ultimo aspetto, l’azione di Coldiretti ha contribuito alla ulteriore legittimazione delle filiere corte anche attraverso uno sganciamento (ma non certo in contrapposizione) di queste dagli altri elementi fondanti dei “network alimentari alternativi”, e in particolare dall’agricoltura biologica. Con il movimento di Campagna Amica, che oggi conta una rete fittissima di farmers’ markets e punti di vendita diretta in tutta Italia, il tema della convenienza per i consumatori e di un rapporto ‘win-win’ tra consumatori e produttori è diventato centrale. Attraverso Campagna Amica, agricoltori poco o per nulla ‘alternativi’ in termini ideologici trovano nella filiera corta uno sbocco di mercato adatto ad un modello di impresa di piccole dimensioni, i cui vantaggi sono legati alla diminuzione per l’agricoltore di incombenze formali legate all’accesso ai mercati (ad esempio non è necessario formalizzare un’associazione) ed al contempo al poter beneficiare della visibilità legata al marchio Campagna Amica. La recente saldatura tra Slow Food e Coldiretti attraverso la presidenza di Campagna Amica affidata a Carlo Petrini rappresenta il culmine di questo processo, e suggerisce l’emergere di un ‘blocco sociale’ con una fortissima influenza sul quadro politico. Questa alleanza combina infatti la grande capacità di Slow Food di intercettare l’immaginario dei consumatori e proporre nuovi significati per il cibo con la centralità di Coldiretti nel mondo dell’agricoltura e sulle reti politico-istituzionali legate al settore.
D’altronde, di fronte alla crescente sensibilità dei consumatori nei confronti del cibo, il sistema convenzionale è andato modificando i propri modelli di business, accogliendo la sfida della qualità e diversità, in molti casi incorporando messaggi e modelli organizzativi introdotti dalla filiera corta (Fonte, 2006; Carbone, 2016). Dal successo di Eataly alle iniziative dei principali supermercati per la promozione di prodotti locali, dall’ingresso dell’industria sementiera nel mercato del biologico e dei ‘grani tradizionali’1, per non parlare del recente acquisto da parte di Amazon di Whole Foods2, è chiaro che il sistema convenzionale ha ormai accettato la sfida della sostenibilità non come tattica di ‘green washing’ ma come strategia d’impresa.
In questa fase, la filiera corta viene interpretata come ‘nicchia di innovazione’, capace di introdurre in un sistema altrimenti bloccato dal paradigma della modernizzazione elementi di innovazione dal basso, e dunque potenziale oggetto di politiche di sostegno finalizzate all’innovazione di sistema (Seyfang e Smith, 2007; Brunori et al., 2008). Non è un caso che il sostegno alla filiera corta sia, nel più recente quadro strategico per lo sviluppo rurale, esplicitamente menzionata tra le possibili priorità dei piani di sviluppo rurale (Tarangioli, 2012; Brunori e Bartolini, 2013). Grazie agli strumenti dello sviluppo rurale, la filiera corta è diventata parte di strategie regionali di costruzione di sistemi alimentari locali le cui finalità rispecchiano le condizioni specifiche del contesto di riferimento, come il rafforzamento delle identità locali in sinergia con i sistemi turistici (Guarino, Doneddu 2011; Tanasa, 2014), o il consolidamento dei legami tra città e campagna attraverso la rilocalizzazione dei consumi (Grando, 2009; Press et al., 2017). Non di rado, la filiera corta rappresenta un canale complementare e sinergico con la filiera lunga, come nel caso del settore del vino dove la vendita diretta svolge un ruolo crescente in aziende peraltro vocate alle esportazioni (Contò, 2015; Francioni et al., 2017).
La filiera corta e le concezioni del mercato
In questi ultimi venti anni il ruolo della filiera corta ha rappresentato per un numero crescente di ricercatori una importante sfida teorica ed empirica, e ha consentito un aggiornamento di principi ritenuti fino a pochi anni fa immodificabili. Insieme alle produzioni biologiche e alle indicazioni geografiche, la filiera corta ha infatti dimostrato come la libera circolazione delle merci non debba necessariamente portare alla standardizzazione dei prodotti e dei territori, e come il mercato unico europeo non sia di per sé incompatibile con la costruzione di sistemi alimentari territoriali in grado di rispondere ad una domanda sempre più diversificata e sensibile a temi etici. Se da una parte le politiche comunitarie di qualità sostengono l’azione dei piccoli produttori e dei territori nella segmentazione del mercato attraverso i vari schemi pubblici di qualità, è oggi possibile osservare come l’alleanza tra agricoltori, piccole imprese alimentari, società civile, amministrazioni locali e consumatori-cittadini sviluppatasi intorno allo sviluppo rurale sia in grado di costruire alternative reali ai soggetti forti della filiera sui mercati, proponendo strategie di differenziazione che fanno leva sulla mobilizzazione di valori non commerciali.
Gli strumenti di sviluppo rurale attualmente disponibili consentono oggi di sostenere il consolidamento di reti infrastrutturali – magazzini, impianti di trasformazione, piattaforme logistiche, mercati dei produttori - in grado di favorire le piccole dimensioni, la diversità e l’avvicinamento tra produttori e consumatori. Le politiche del public procurement aprono nuovi sbocchi di mercato alle produzioni di qualità (Galli e Brunori, 2012) richiedendo al tempo stesso un adeguamento delle infrastrutture e stimolando la ricerca di forme di coordinamento tra le imprese agricole, ad esempio attraverso la realizzazione di contratti di rete. Le tecnologie dell’informazione rendono meno costosa la gestione della diversità – ad esempio in relazione alla rintracciabilità dei processi, alla creazione dei cataloghi, alla comunicazione con i consumatori, alla gestione degli ordini - favorendo nuove configurazioni relazionali e rendendo meno necessaria l’intermediazione. La partecipazione attiva di nuovi soggetti sul mercato favorisce – come nel caso degli ogm, dell’olio di palma, dell’impronta ecologica, del benessere animale, del fair trade - l’ibridazione della sfera di mercato con la sfera pubblica (Brunori et al., 2013) facilitando, attraverso l’informazione, l’educazione e la pubblica discussione, la problematizzazione etica dei comportamenti di consumo, sviluppando nel consumatore il senso della responsabilità proprio del concetto di cittadinanza e portandolo a rivedere le routine di consumo.
Tutti questi aspetti mostrano processi di ‘costruzione sociale del mercato’ che precedono e influenzano le transazioni. Se in una concezione di mercato di tipo convenzionale il comportamento del consumatore è del tutto indipendente dalla preoccupazione per gli altri e per il bene della comunità, il concetto di mercato che si afferma nel caso della filiera corta è fortemente permeato dai temi etici, e l’interazione tra attori della filiera appare sempre più finalizzato alla condivisione di significati piuttosto che alla formazione del prezzo, che risulta conseguenza di questa condivisione.
Quale futuro per la filiera corta
Da strumento per il consolidamento di reti alternative ad un sistema dominante, e dunque espressione di un’identità radicalmente alternativa ad esso, le filiere corte sono oggi viste come un fattore di innovazione e di riequilibrio dell’intero sistema, in competizione ma non necessariamente in opposizione ad altre configurazioni. In primo luogo, uscendo da un circuito ‘alternativo’ le filiere corte saranno sempre di più tenute a dimostrare l’effettivo livello di sostenibilità, anche nel confronto con le filiere lunghe (Tregear, 2011). Questo potrebbe implicare l’adozione di strumenti di misurazione rigorosi della performance ancorchè adeguati alle loro caratteristiche (Brunori et al., 2016). In secondo luogo, alle filiere corte potrebbe essere richiesto di contribuire in modo sostanziale al consolidamento dei sistemi alimentari urbani. Sotto questo aspetto, molto dipenderà da come si orienterà il quadro di policy. Se, come risulta dal dibattito in corso, il centro dell’attenzione si sposterà dall’agricoltura al cibo, dalla produzione ai consumi, dai sistemi rurali ai sistemi urbani, le nuove politiche alimentari dovranno affrontare nuovi temi – il rapporto tra cibo e nutrizione, lo spreco, la responsabilità di impresa, l’assistenza alimentare ai gruppi più bisognosi - e includere nuovi soggetti – trasformatori, distributori, fornitori di servizi, autorità sanitarie, organizzazioni non governative - nella distribuzione dei ruoli e delle responsabilità. In uno dei documenti che hanno avviato il dibattito, scritto da Luise Fresco e Krijn Poppe (Fresco and Poppe, 2016), si sottolinea ad esempio il ruolo dell’industria alimentare e della grande distribuzione, che a loro avviso possono promuovere sistemi alimentari sostenibili, in maniera più efficace di quanto non abbiano fatto le misure agro-ambientali, attraverso le forme contrattuali legati a schemi di qualità, e delle politiche pubbliche come soggetti in grado di orientare i consumi verso stili alimentari più salutari e sostenibili. Un rafforzamento del ruolo dei soggetti forti della filiera potrebbe favorire un ridimensionamento del ruolo delle filiere corte, con la loro ricollocazione all’interno di nicchie di prodotti di alta qualità per ceti medio alti (come Poppe e Fresco lasciano comprendere).
Ben altro scenario si prospetterebbe nel momento in cui prevalesse la posizione di De Schutter e Petrini (2017), che seguendo una lunga scia di studi in materia sottolineano il ruolo centrale delle città, luoghi in cui si concentrano i consumatori e in cui la multidimensionalità del cibo si manifesta, nelle politiche alimentari. Se finora le città hanno potuto delegare ai soggetti forti della filiera e alle politiche agricole e rurali la gestione dell’accesso e dell’utilizzazione del cibo, nella presunzione che la regolazione di questi aspetti potesse essere affidata al mercato o alle norme comunitarie e nazionali, nel prossimo futuro le città si troveranno a dover definire strategie alimentari in grado di affrontare la multidimensionalità e complessità dei temi relativi al cibo, perseguendo il coordinamento dei diversi settori amministrativi intorno ad un quadro di intervento unitario, come sottolinea il patto di Milano sottoscritto nel 2015 da 140 città italiane (Ipes-Food, 2017).
Con adeguati strumenti e attraverso la sinergia con gli altri livelli di governance come quello regionale, nazionale ed europeo, le città sono infatti gli ambiti più adatti alla gestione dei temi dell’ambiente, della salute, della competitività dei sistemi produttivi, dell’accesso da parte dei gruppi più vulnerabili, della cultura che riguardano il cibo. Il punto centrale delle politiche alimentari urbane è la possibilità di agire sull’ambiente alimentare, ovvero dell’insieme dei fattori materiali e immateriali che influenzano le scelte dei consumatori, rendendolo maggiormente plurale rispetto ad una situazione in cui operano solo i soggetti forti della filiera. Alle città è infatti demandata l’allocazione degli spazi commerciali, del rapporto tra aree agricole ed aree urbane, la prevenzione sanitaria, la gestione dei rifiuti, l’educazione, l’informazione. In questo caso le filiere corte possono rappresentare un elemento strategico. Privilegiando la produzione fresca rispetto a quella trasformata e proponendo una comunicazione personale tra agricoltori e consumatori, coinvolgendo la società civile e stimolando l’interazione tra consumatori, le filiere corte rafforzano il processo di costruzione di stili di consumo sostenibili. Ad esempio, l’apertura di farmers’ markets in zone dove in assenza di attenzione sopravviverebbe solo la distribuzione organizzata, consentirà di ampliare la libertà di scelta dei consumatori, esponendoli ad una gamma di prodotti e ad un flusso di informazioni aggiuntivi rispetto a quelli forniti dagli altri canali. Il sostegno ai gruppi di acquisto attraverso il supporto logistico o fiscale può favorire la partecipazione dei consumatori e delle organizzazioni della società civile alla definizione di norme sociali per il consumo. La presenza di una solida rete di filiera corta in città è anche lo strumento per favorire la partecipazione degli agricoltori alle politiche urbane sul cibo. Strumenti di partecipazione in grado di favorire il coordinamento con gli altri soggetti del sistema potrebbero favorire sinergie e collaborazione per la condivisione e la realizzazione di finalità pubbliche.
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