Questo editoriale inizia con una confessione. La confessione di chi da anni studia la politica agricola ed in particolare quella dell’Unione europea. È l’ammissione di un errore di previsione. Ciò che poi aggrava la colpa è che lo stesso errore è stato ripetuto più volte nel tempo, a distanza di anni. E invece di fare tesoro della evidenza della volta precedente, l’errore è stato ripetuto in quella successiva. Sistematicamente.
L’errore è di non essere stati in grado di comprendere quale enorme capacità di conservazione e sopravvivenza avesse la politica agricola comune e di preconizzare ogni volta l’impossibilità di andare avanti, soprattutto di salvare il budget e le sue destinazioni, senza cambiamenti sostanziali.
Non ci riferiamo tanto alle misure della Pac o al suo impianto tecnico. Che sono cambiati nel tempo. Siamo passati infatti dai prezzi garantiti ai pagamenti compensativi per ettaro e capo della riforma Mac Sharry, ai pagamenti diretti ancora accoppiati ma obbligatoriamente eco-condizionati di Agenda 2000, poi ancora al pagamento unico aziendale disaccoppiato della riforma Fischler ed infine, in questi anni, ai pagamenti “spacchettati”: base, green, giovani, ecc. Siamo passati dalla politica settoriale di garanzia e orientamento finanziata dal Feoga, ai due pilastri, settoriale l’uno e territoriale l’altro, finanziati rispettivamente dal Feaga e dal Feasr.
Ciò che invece non è mai sostanzialmente cambiato, salvo riduzioni tutto sommato modeste e comunque inferiori alle previsioni, è l’entità della spesa associata alla Pac e soprattutto la sua distribuzione. I maggiori beneficiari, in buona sostanza, in cinquant’anni e passa sono sempre gli stessi e la distribuzione dei fondi per tipologie di agricoltura e per tipologie aziendali è sempre sostanzialmente quella. Con il paradosso di una concentrazione nelle aree agricole più avvantaggiate e vicine ai centri urbani ed una correlazione inversa tra livelli di spesa e grado di ruralità e di perifericità.
Le critiche alla iniqua distribuzione dei benefici della Pac erano presenti già negli anni Sessanta quando si decise di puntare sul sostegno dei prezzi. Era una distribuzione squilibrata anche tra agricolture, perché quella “continentale” europea delle commodity e degli allevamenti riceveva molto di più di quella mediterranea (specie l’italiana) della frutta, degli ortaggi, del vino e degli agrumi. Ma in quegli anni l’obiettivo fondamentale era produrre di più per la sicurezza alimentare. E con i prezzi garantiti si produsse effettivamente di più. Talmente di più da passare dalla penuria alle eccedenze.
Fin dagli anni ’80, ad ogni ricorrente scadenza della Pac, la nostra tesi era che occorreva cambiarla in profondità. Questa tesi aveva delle solide motivazioni: l’agricoltura aveva bisogno di potenti misure strutturali per non perdere in competitività in un mercato via via più aperto e globale; le imprese dovevano essere di dimensioni adeguate ed operare con efficienza e così attrarre i giovani; si doveva puntare sull’integrazione tra le imprese sia in senso orizzontale che verticale, per fornire al consumatore prodotti di qualità a prezzi remunerativi e, al tempo stesso, assicurare una più equa distribuzione del valore aggiunto tra i soggetti della filiera; si dovevano pagare gli agricoltori per i beni pubblici che producono/tutelano e che il mercato non remunera; si doveva puntare non solo sull’agricoltura, ma anche sullo sviluppo locale nel territorio nel quale essa opera. D’altra parte, la difesa della politica agricola richiedeva sempre di più l’alleanza degli agricoltori con i consumatori, con gli altri soggetti della filiera alimentare, con i residenti rurali non agricoltori, con gli ambientalisti, con i contribuenti. Anche perché il numero degli agricoltori scendeva rapidamente e con esso il peso politico della loro rappresentanza: i più anziani ricordano come la Coldiretti, in un tempo ormai remoto, eleggeva nelle liste DC un centinaio di “propri” parlamentari.
Insomma ci voleva, dicevamo, una politica agricola e di sviluppo rurale comune più mirata (targeted) ad obiettivi meno settoriali e più condivisi e più a misura (taylored) per realizzare il massimo valore aggiunto economico e sociale con la spesa a disposizione. Ci voleva una politica sostenuta da solidi programmi pluriennali che andasse nella direzione degli interessi dei cittadini/contribuenti/consumatori e che si concentrasse sugli agricoltori più innovativi ed impegnati imprenditorialmente. La cartina al tornasole di questo mutamento di strategia sarebbe stata la diversa distribuzione della spesa, più a vantaggio dei comportamenti che degli status, rivolta più ai progetti che ai soggetti, più al futuro che al passato. Era questa, dicevamo, la sola condizione per difendere la politica agricola comune e la relativa spesa agricola, pena altrimenti una sua pesante ed incombente decurtazione.
Le motivazioni a favore di una consistente riforma, già valide trent’anni e più fa, si sono fatte con il tempo sempre più consistenti. Quegli indirizzi di politica agricola sono diventati sempre più condivisi e urgenti. La comunità scientifica europea pressoché unanime si è espressa più volte e continua ad esprimersi a riguardo. Mentre i pagamenti diretti, che avevano una motivazione nel breve periodo (quando furono introdotti con finalità compensative della fine della politica dei prezzi alti), hanno perso nel tempo ogni valida giustificazione. Per questi motivi, nonostante le sistematiche smentite, insistevamo nelle profezie pessimiste. Di fronte ad ogni ricorrente sconfessione della nostra tesi in base alla quale, se la Pac non fosse significativamente cambiata non tanto nella forma quanto nella sostanza, non sarebbe stato possibile difendere quel budget, insistevamo con l’affermare che la volta successiva sarebbe stato impossibile trovare il consenso necessario per salvarla. Peraltro nell’Unione europea, mentre addirittura scendevano le entrate, nuove politiche reclamavano maggiori fondi: per l’occupazione, per la ricerca, per i collegamenti stradali/ferroviari e della banda larga, per far fronte alla crisi economica, per salvare i “Pigs”, per gestire l’immigrazione, per il cambiamento climatico, per tenere a freno gli euroscetticismi montanti. D’ora in poi serviranno fondi anche per fare quadrare i conti del deficit che sarà creato dalla Brexit.
E invece niente. Le nostre pessimistiche profezie venivano sistematicamente smentite dai fatti. Così è stato anche nell’ultima riforma 2014-2020. Nonostante si siano conservati, sia pure “spacchettati”, i pagamenti diretti, si sia bloccata la modulazione che trasferiva fondi dal primo al secondo pilastro, si sia adottata una convergenza parziale che consente di mantenere, sia pure smussandone le punte, i pagamenti su base storica e addirittura si sia consentito che il greening fosse applicato in proporzione al pagamento base, dunque anch’esso, inopinatamente, su base storica. Nonostante questo ed altro, la spesa complessiva della Pac registrava una riduzione, tutto sommato, molto modesta.
Da qualche mese, come documenta magistralmente Maria Rosaria Pupo D’Andrea nella sua Finestra sulla Pac, mentre la Pac 2014-2020 sta ancora andando a regime, è partita la discussione per la Pac che verrà dopo il 2020 e l’anno prossimo sarà avviata una vasta consultazione per arrivare entro l’anno ad un documento di indirizzo che preluderà alla Pac del futuro.
Stando al mea culpa sui ricorrenti errori di previsione che abbiamo qui confessato, dovremmo smettere i panni di Cassandra e dirci ottimisti circa la capacità della Pac, anche dopo il 2020, di auto-conservarsi, assieme al suo budget, senza sostanziali cambiamenti. Saremmo d’altra parte in buona compagnia, con tanti difensori ad oltranza dei pagamenti diretti e di una spesa che nel primo pilastro, e talvolta anche nel secondo, è fatta di trasferimenti di dubbia efficacia. Difensori che nei prossimi mesi, finché si discuterà di grandi obiettivi e di principi, si terranno nell’ombra. Ma che verranno allo scoperto, come sempre è successo, al momento di scendere nel concreto e definire le misure e a chi dovranno andare i finanziamenti.
E invece purtroppo non ci sono ancora bastate le lezioni del passato. Il dubbio che questa volta, se non si cambia davvero, i conti possano non tornare continua a tormentarci, nonostante la resilienza fin qui dimostrata dalla vecchia Pac. Ci perdonino i nostri lettori. Ormai d’altra parte sono avvertiti. Ci siamo tante volte sbagliati e quindi le nostre funeste profezie (forse) valgono ben poco.
Il tema di questo numero di Agriregionieuropa, curato da Fabio Santeramo, è la gestione del rischio e delle politiche agricole volte a difendere i redditi degli agricoltori dalle oscillazioni e dalle cadute. Il tema è da sempre presente nella riflessione degli economisti agrari. Ma negli anni ha assunto un’importanza centrale per il sommarsi di più effetti: la più alta volatilità dei mercati, la maggiore frequenza di eventi estremi dovuti al cambiamento climatico, la crescita dell’incertezza connessa alla rapidità dei cambiamenti tecnologici, alla globalizzazione ed alla crisi economica.
L’Europa, a parte le misure per la gestione del rischio nel secondo pilastro, è ancora attardata, con la parte maggiore del suo budget, su pagamenti disaccoppiati con obiettivi imprecisati e di dubbia efficacia. All’opposto tutti gli altri Paesi, Usa in testa, hanno da tempo radicalmente riformato le proprie politiche agricole, abbandonando i vecchi schemi, per centrarle (almeno ci provano) sulla difesa dei redditi e sulla persistenza e lo sviluppo delle imprese.