Introduzione
Nell’ultimo decennio diversi autori hanno sottolineato con forza l’esigenza di mettere a punto uno schema interpretativo di ampio respiro che spieghi il persistere delle diseguaglianze territoriali di sviluppo, evidenziando inoltre come sia necessario, che lo Stato si faccia carico di una politica di redistribuzione territoriale esplicita (Martin, 2015; Margarian, 2013; Woods, 2006), per garantire condizioni di vita adeguate nelle aree rurali e periferiche.
Tali elementi concettuali sono contemplati dall’azione di policy sottesa all’Accordo di Partenariato (Ap) per la programmazione comunitaria 2014-2020 che propone, tra gli strumenti per il perseguimento dell’obiettivo di coesione territoriale, la Strategia Nazionale per le aree interne del paese, affiancata all’individuazione di alcune priorità della politica di sviluppo rurale sul territorio.
Questo contributo, dopo aver evidenziato le evoluzioni della politica comunitaria di sviluppo rurale con particolare riferimento ai passaggi che determinano la sua valenza di intervento territoriale e agli elementi concettuali ad essi sottesi, analizza le principali relazioni esistenti tra lo sviluppo rurale e la strategia aree interne.
L’analisi svolta consente di evidenziare i punti di contatto e gli elementi di innovazione introdotti, il contributo che lo sviluppo rurale può dare alla declinazione della Snai come politica di sviluppo territoriale e le implicazioni di policy che possono scaturire da questa sperimentazione.
L’evoluzione della politica di sviluppo rurale
La politica di sviluppo rurale è, accanto a quella di mercato, ossia il cosiddetto primo pilastro, una delle componenti della Politica Agricola Comunitaria (Pac), La nascita della Pac, sancita nel trattato di Roma (art. 38), doveva servire a gestire l’ammodernamento dell’agricoltura europea. Nel progetto iniziale essa doveva tradursi principalmente in una politica di trasformazione strutturale, che accompagnasse l’aggiustamento del settore in un contesto di forte crescita, affiancata da una politica dei prezzi concepita come intervento di stabilizzazione e sostegno, destinato a mettere al riparo l’agricoltura dagli effetti delle fluttuazioni di mercato di breve periodo, attraverso la fissazione di prezzi minimi garantiti e la protezione commerciale alla frontiera. Nonostante le intenzioni iniziali, è l’intervento sui mercati quello che ha maggiormente caratterizzato il sostegno della Pac nelle prime fasi del processo di integrazione europea, mentre la politica delle strutture agricole, partita con molto ritardo e applicata poco e male, è rimasta il braccio debole, con una spesa che per oltre un trentennio è stata inferiore al 5 per cento del bilancio complessivo del Feoga (De Filippis, Salvatici, 1991 e 1997).
La prima proposta organica di politica per le strutture si ebbe nel 1968 con il cosiddetto memorandum Mansholt (CE, 1968) periodo in cui l’orientamento prevalente in materia di politica economica per le regioni meno sviluppate prevedeva l’industrializzazione e la modernizzazione del settore agricolo come momenti essenziali di evoluzione strutturale verso stadi successivi di crescita economica.
In linea con tali orientamenti, la politica prospettata da Mansholt prevedeva interventi che favorissero l’adozione di forme di organizzazione industriale della produzione, l’aumento della dimensione aziendale, la concentrazione e specializzazione dell’offerta di prodotti agricoli, l’introduzione di processi produttivi ad alta intensità di capitale e ad elevata qualificazione professionale della manodopera, il riallineamento dei redditi agricoli a quelli extragricoli (Fabiani, 1986). Gli interventi per l’ammodernamento delle strutture dovevano essere differenziati tra regioni per tenere conto delle diverse situazioni, e ad essi si sarebbero dovute affiancare, nelle aree più arretrate, misure complementari di sviluppo economico e occupazionale nei settori extragricoli volte a limitare lo spopolamento e l’insorgere di tensioni sociali. Le direttive attuative del memorandum ne ripresero tuttavia l’impostazione con un approccio fortemente riduttivo e nel 1983 alla chiusura del loro periodo di applicazione il bilancio della loro attuazione appariva fallimentare per le scarse risorse stanziate e per il basso livello di applicazione proprio nelle regioni ad agricoltura più debole tanto da rendere evidente l’esigenza di un ripensamento della politica delle strutture agricole (De Filippis, Storti, 2001). All’inizio degli anni Ottanta l’avvio del processo di revisione della Pac è reso necessario anche dall’insostenibilità finanziaria e dall’indifendibilità politica di una policy basata sul sostegno accoppiato alla produzione e causa di pesanti effetti distorsivi (internazionali, ambientali, finanziari, distributivi). Tali sviluppi avvengono sulla spinta delle pressioni internazionali associate al negoziato dell’Uruguay round del Gatt, e costituiscono una svolta importante, perché con essi si iniziò a mettere in discussione il tradizionale sistema di sostegno dei prezzi della vecchia Pac, segnando una decisa svolta neoliberista nell’impostazione della politica comunitaria.
Da questo momento prende l’avvio a livello comunitario il tentativo di disegnare una politica organica che perseguisse l’obiettivo esplicito di riduzione delle diseguaglianze territoriali. In quegli anni si prendeva atto dell’esistenza nell’Unione Europea di un forte livello di diseguaglianza nel livello di sviluppo economico interregionale interrogandosi sul potenziale impatto in termini di diseguaglianze nello sviluppo (Perrons, 1992) dell’accresciuto grado di integrazione economica.
Si avviava inoltre una riflessione sull’opportunità di un’azione congiunta dei Fondi che costituivano allora gli strumenti dell’intera politica comunitaria per le strutture che, anche in presenza delle difficoltà di bilancio di quegli anni (cfr. De Filippis, Storti, 2001), consentisse il conseguimento di un effetto moltiplicativo dei loro intervento. Nel 1985 tale soluzione viene sperimentata con i Programmi Integrati mediterranei (Pim, Reg. 2088/85), programmi pluriennali e intersettoriali destinati a consentire alle regioni mediterranee di Italia, Francia e Grecia, ossia alle agricolture strutturalmente più deboli in ambito comunitario, di fronteggiare le conseguenze dell’allargamento a Spagna e Portogallo.
I Pim rappresentarono un punto di svolta verso la definizione di una nuova politica comunitaria per le aree rurali. Nel 1986 l’atto Unico europeo, modificando il Trattato di Roma, introduceva tra le finalità della Comunità il rafforzamento della sua coesione economica e sociale, attraverso la riduzione del divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e un’azione specifica in quelle meno favorite o insulari, con particolare riguardo alle zone rurali (art. 158). Nel 1988 la successiva riforma dei Fondi strutturali sancì il passaggio dall’approccio settoriale a quello integrato tra fondi nella programmazione degli interventi. L’individuazione sulla base di criteri comuni a livello comunitario di obiettivi prioritari regionali, riguardanti specifiche zone - comprese quelle rurali in declino - o regioni geografiche, doveva consentire la concentrazione territoriale degli interventi e la definizione di strategie di sviluppo differenziate per tipologia di area. In questo quadro vengono individuate tra le aree rurali (definite come aree a bassa densità di popolazione e elevata occupazione agricola) quelle più marginali facendo riferimento ai bassi livelli di reddito, allo spopolamento, all’invecchiamento demografico e al livello di disoccupazione. Nel progetto che viene delineato due sono gli elementi caratterizzanti l’intervento in queste aree: il primo è l’importanza di affiancare alla politica delle strutture agricole strumenti capaci di promuovere la diversificazione delle aree rurali; il secondo è l’esigenza di un’azione congiunta del fondo agricolo e degli altri fondi strutturali.
Parallelamente, già alla fine degli anni Ottanta, a seguito della crisi del modello fordista di organizzazione industriale e l’emergere di nuove forme basate sulla specializzazione flessibile, si iniziava a riflettere sull’importanza dei fattori locali come elementi in grado di differenziare i processi di crescita e sul fatto che il modello di sviluppo dell’agricoltura non necessariamente dovesse seguire un percorso uniforme in regioni diverse. A seguito dell’emergere di queste differenziazioni territoriali l’analisi del rurale sposta l’enfasi sulla messa a fuoco di sistemi territoriali con connotazioni agricole e agro-alimentari (Fabiani, 1991; Storti, 2001) e sullo studio e l’interpretazione dei casi di successo (Terluin, 2001), nel tentativo di trarre da questi esempi indicazioni di policy replicabili altrove. Nascono diversi filoni di analisi tesi ad esplicitare le specificità del rurale e la loro capacità di sviluppo autonomo e molteplici concettualizzazioni sullo sviluppo rurale (l’approccio territoriale come contrapposto a quello settoriale, la valorizzazione delle risorse locali, il focus sui bisogni e le capacità dei soggetti locali, la smart specialization). Tali concetti rimandano a loro volta a diversi approcci teorici dal milieu innovateur, alle teorie sui network, alla teoria evoluzionista.
L’insieme di questi filoni può essere raggruppato sotto l’etichetta di “teoria dello sviluppo endogeno”. La teoria dello sviluppo endogeno presenta tre principali elementi fondanti: l’approccio territoriale piuttosto che settoriale, la valorizzazione delle risorse locali, il focus sui bisogni, la capacità e le visioni degli attori locali (Ray, 2000). Tale approccio ha una stretta relazione con la teorizzazione sui distretti industriali (Becattini, 1991; Becattini, Rullani, 1993). Appartiene allo stesso insieme anche la teoria evoluzionista che introduce una dimensione dinamica nell’analisi delle caratteristiche socio-economiche delle aree rurali e della loro evoluzione (Esposti, R., Sotte, F., 2002).
Questo dibattito supporta l’esistenza di una politica mirata alle aree rurali e fornisce elementi che vengono incorporati nell’ambito di diverse esperienze di politiche comunitarie, primo tra tutti l’iniziativa comunitaria Leader (introdotta nel 1991).
Sul fronte concettuale va assunto che le aree rurali seguono differenti traiettorie di sviluppo rispetto alle aree di agglomerazione in ragione di specifiche caratteristiche distintive. Si potrebbe sostenere che questa specificità risieda nella presenza di mercati incompleti e nella risultante necessità di meccanismi di coordinamento delle attività economiche diversi dal prezzo (Margarian 2013). Da qui l’idea, su cui si basa il Leader, che una visione comune degli attori a livello locale e una loro attiva cooperazione possa dare l’avvio a un processo di sviluppo endogeno in un dato territorio.
Alla fine degli anni Novanta l’obiettivo della coesione e del riequilibrio territoriale inizia a perdere forza nell’ambito dello Sviluppo rurale e si avvia una progressiva revisione del progetto disegnato a fine anni Ottanta, che risponde anche allo scopo di conservare lo status quo nell’ambito dei servizi comunitari, mantenendo sotto la competenza della DG-Agri le nascenti politiche di sviluppo rurale.
A partire da Agenda 2000 lo sviluppo rurale acquisisce una relativa autonomia rispetto alle altre politiche di coesione; essendo attuata (con l’eccezione delle aree Obiettivo 1 nel periodo 2000-2006) attraverso programmi separati rispetto a quelli degli altri fondi strutturali. Nel periodo 2007-2013, questa separazione viene sancita anche dall’esistenza di due documenti strategici differenziati: il Quadro Strategico Nazionale (Qsn) per i Fondi strutturali, da un lato, e il Piano Strategico Nazionale (Psn) per il lo sviluppo rurale dall’altro. A partire da questo momento le misure di sviluppo rurale sono applicabili a tutte le aree dell’Unione e vanno declinate all’interno degli Stati membri secondo una classificazione in tipologie di aree, funzionale all’analisi di contesto e all’individuazione di alcune priorità della politica di sviluppo rurale sul territorio. La definizione del concetto di area rurale rimane necessaria ma viene superata l’esigenza di individuare le aree rurali in declino tra gli obiettivi prioritari territoriali. Nel nuovo assetto rimane sempre più sfumato il possibile contributo dello sviluppo rurale alla riduzione dei divari tra i livelli di sviluppo delle varie regioni. La politica di sviluppo rurale essendo applicabile a tutte le aree dell’Unione, finisce con l’assumere, nel complesso, un carattere di orizzontalità e un’impostazione diffusa che la distingue dalle politiche a carattere regionale, caratterizzate da una maggiore specificità territoriale.
Contemporaneamente l’evoluzione della politica rurale europea è stata influenzata dalla crescente preoccupazione dell’opinione pubblica, che cominciava a farsi strada in quegli anni, riguardo l’impatto ambientale dell’agricoltura, il benessere degli animali e la qualità dei prodotti. Gli obiettivi della politica (almeno quelli dichiarati) sono sati rivisti In risposta a queste istanze facendo ricorso tra l’altro al concetto di multifunzionalità dell’agricoltura, utilizzato impropriamente come sinonimo di agricoltura “ambientalmente corretta” o produttrice di prodotti di qualità (Henke, 2004).
L’enfasi sulla multifunzionalità, insieme a un sostanziale mutamento delle modalità di intervento, ha influenzato nell’ultimo ventennio anche i cambiamenti della componente di mercato della politica agricola comunitaria, ossia il cosiddetto primo pilastro. In questo ambito infatti si è passati da misure accoppiate alla produzione, attraverso il sostegno ai prezzi, a misure prevalentemente disaccoppiate con pagamenti corrisposti (pagamento di base, componente greening, altri pagamenti aggiuntivi) come remunerazione di una serie di beni pubblici prodotti dall’agricoltura che i cittadini europei hanno mostrato di ap-prezzare e per i quali sembrano disposti a sostenere un costo come contribuenti (De Filippis, 2012).
Oggi alla politica di sviluppo rurale viene destinato il 24% delle risorse complessive della Pac (pari a 95,5 mld euro). Le misure settoriali per l’agricoltura e le foreste sono ancora quelle che caratterizzano questa politica, anche se sono previste misure per la diversificazione economica miranti alla creazione di posti di lavoro al di fuori del settore agricolo, per l’animazione sociale e l’offerta di servizi destinati alle imprese.
Esse includono azioni volte a incentivare gli investimenti, promuovere l’innovazione, migliorare la sostenibilità ambientale e climatica delle produzioni, sostenere la multifunzionalità dell’agricoltura ossia non solo la sua funzione produttiva, ma anche quella turistica, ricreativa, di presidio del territorio e di salvaguardia ambientale e paesaggistica e la produzione di beni pubblici legati all’ambiente, al territorio ed alla cultura locale. Un ruolo centrale a tale riguardo lo assumono le misure agro ambientali e forestali, le cosiddette Misure di accompagnamento introdotte, insieme alla misura per il pre-pensionamento in agricoltura, dalla riforma della Politica agricola comunitaria del 1992. Il Community-led local development (Clld) in continuità con l’iniziativa comunitaria Leader partita nel 1991, supporta la creazione di partenariati locali e la realizzazione di programmi di sviluppo integrato nelle aree rurali dell’Unione che adottino soluzioni innovative calibrate sulle specificità locali.
Aree interne e sviluppo rurale: complementarietà e implicazioni di policy
L’ultima riforma dei Fondi comunitari ha previsto come opzione per superare la separazione tra l’azione del fondo per lo sviluppo rurale (Feasr) e quella degli altri fondi strutturali il rafforzamento dell’integrazione strategica, attraverso l’introduzione di un Quadro Strategico Comune (Qsc) a livello europeo, preparato dalla Commissione, ma approvato dal Consiglio. Inoltre, ciascun paese dovrà declinare gli obiettivi tematici comuni previsti dal Qsc attraverso un documento nazionale, l’Accordo di Partenariato (AP), che di fatto sostituisce il Qsn dei Fondi strutturali e il Psn dello sviluppo rurale della fase 2007-2013. L’AP, che è il documento nazionale che fa da cornice metodologica e strategica ai programmi operativi finanziati dai diversi Fondi, ha una capacità di indirizzo dei programmi che appare più sostanziale rispetto al passato. Tra le altre cose l’AP dovrà definire quali approcci adottare per: i) coordinare i Fondi; ii) assicurare l’integrazione degli stessi nei diversi tipi di territori (urbani, rurali, costieri e della pesca); iii) indirizzare i Fondi verso i bisogni di specifiche aree o gruppi target (Mantino, 2013).
A fronte di queste evoluzioni della politica comunitaria di sviluppo rurale, nelle ultime tre decadi le politiche pubbliche in molte nazioni avanzate sono state impostate perseguendo un modello di crescita neoliberale basato sulla deregulation e sulla privatizzazione, con il conseguente ridimensionamento del ruolo dello Stato. Ciò ha determinato uno sviluppo fortemente sbilanciato e ineguale sia tra paesi, che al loro interno non solo tra gruppi sociali ma anche tra aree. Questi processi sono stati accompagnati nell'ambito della new e-conomic geography (Neg) da una rinnovata enfasi sui vantaggi delle agglomerazioni. I modelli Neg, partendo dal contributo di Krugman nei primi anni Novanta (Krugman, 1991) hanno finito con l'esercitare una rilevante influenza sui policy maker nelle economie più avanzate. In questi modelli l'agglomerazione delle attività economiche è un processo spontaneo determinato dalle forze di mercato che può avere effetti positivi sulla crescita a livello nazionale. Da tali elementi deriva una politica economica che minimizzi l'intervento pubblico e una comoda giustificazione alla scelta di rinunciare al governo delle diseguaglianze territoriali (Martin, R. 2015).
In Italia, come in altri paesi dell’Unione, i territori rurali più periferici a seguito di decenni di politiche liberiste sono state oggetto di un progressivo ridimensionamento dei servizi e delle infrastrutture pubbliche e ciò ha generato nelle comunità rurali un’esigenza di transizione da una politica rurale tradizionale, indirizzata all’agricoltura, alle foreste e più in generale alla gestione del territorio, a una politica del rurale con più ampi risvolti sociali che includa politiche di mainstream quali l’istruzione, la salute, il welfare, la fornitura di servizi pubblici e la giustizia sociale (Woods, 2006).
Dopo l’avvio della crisi nel 2007 si è riaperto il dibattito sull’esigenza di porre tra le priorità di politica economica ai vari livelli (nazionale e comunitario) il riequilibrio territoriale.
La crisi infatti ha evidenziato come la persistenza di disparità territoriali determini il sottoutilizzo delle risorse umane e fisiche in alcuni luoghi creando costi sia economici che sociali e ponendo un problema di equità territoriale oltre che individuale in termini di opportunità di lavoro e accesso ai servizi pubblici. La ricerca di una maggiore equità in questi termini diviene la nuova frontiera per le politiche pubbliche in generale e per le politiche di sviluppo rurale in particolare tradizionalmente indirizzate alle aree agricole, meno caratterizzate per loro natura da processi di agglomerazione. Si rende necessario un intervento pubblico che non solo enfatizzi il supporto ai fattori di localizzazione ma sia anche in grado di definire nuovi concetti di solidarietà e democrazia a sostegno dei territori più deboli. Vi è l’esigenza di definire una politica rurale che tenga conto di tutte quelle politiche oltre quelle settoriali che possono avere un impatto sull’agricoltura e sul territorio rurale.
Tali elementi concettuali sono contemplati dall’azione di policy sottesa all’Accordo di Partenariato (Ap) per la programmazione comunitaria 2014-2020 che propone, tra gli strumenti per il perseguimento dell’obiettivo di coesione territoriale, la Strategia Nazionale per le aree interne del paese. La Strategia Nazionale Aree interne (Snai) risponde in qualche modo a tali istanze, perché riapre il dibattito sull’esigenza di intervenire nei territori più periferici come scelta esplicita del governo nazionale garantendo in queste aree la possibilità di accesso ai servizi di cittadinanza.
Concentriamo ora l’attenzione sulle relazione tra Snai e politiche di sviluppo rurale. La Snai offre allo sviluppo rurale l’opportunità di rimettersi in gioco come politica di riequilibrio territoriale. In continuità con i tentativi passati (si pensi alle aree obiettivo 5b) consente di reintrodurre un principio forte di concentrazione territoriale degli interventi. Infatti, l’incrocio tra la classificazione in tipologie di aree rurali (Figura 1, Tabella 1) richiesta dalla Commissione (Storti, 2013) e la mappa statistica delle aree interne (Lucatelli, 2013) prodotta a servizio della Snai ha consentito di selezionare, attraverso un processo di istruttoria pubblica, 65 aree a rischio di abbandono su cui concentrare l’attuazione integrata dei fondi strutturali e dello sviluppo rurale e l’azione diretta a migliorare l’offerta sui servizi di cittadinanza (scuola, salute e mobilita) prevista dalla strategia.
Inoltre l’analisi fin qui svolta mostra come il metodo proposto dalla Snai si ponga in continuità rispetto agli sviluppi concettuali che hanno accompagnato le evoluzioni dello sviluppo rurale: l’esigenza di un’azione integrata dei fondi e l’importanza della concertazione tra gli attori locali nella definizione delle strategie di sviluppo locale come elementi fondanti l’intervento in queste aree.
Gli ambiti di intervento per l’azione diretta allo sviluppo locale nell’ambito della Snai, infine, sono quelli tradizionalmente finanziati dalle politiche rurali: tutela del territorio e comunità locali; valorizzazione delle risorse naturali, culturali e del turismo sostenibile; sistemi agroalimentari; risparmio energetico e filiere locali di energia rinnovabile; saper fare e artigianato.
La Snai introduce anche degli elementi ulteriori che tuttavia risultano coerenti rispetto alla tradizione di intervento che è venuta maturando nell’ambito dello sviluppo rurale. Si tratta della sperimentazione di una modalità nuova di governo del territorio, di tipo multilivello (nazionale, regionale e locale) che pone al centro l’associazionismo tra i comuni e che prevede la possibilità di attivare feedback sulle politiche nazionali dal livello locale. Il ruolo delle istituzioni locali (pubbliche e private), delle aggregazioni locali non di tipo amministrativo e dei livelli amministrativi sub-regionali (comuni, province e comunità montane) è risultato centrale nella definizione e realizzazione delle strategie di sviluppo locale sostenute dal Leader. La novità introdotta dalla Snai risiede da un lato nel tentativo di istituzionalizzare il ruolo delle associazioni dei comuni e dall’altro nella possibilità di integrazione tra gli interventi di sviluppo con l’attuazione di soluzioni innovative per la fornitura di servizi ordinari, finanziata con fondi nazionali (Legge di Stabilità). In sostanza l’esperienza della Snai si differenzia da quelle precedenti per il tentativo di definire obiettivi strategici comuni per le diverse politiche pubbliche (compresi i servizi) che impattano su un dato territorio.
Ulteriore aspetto innovativo, rispetto alle prassi sperimentate nell’ambito dello sviluppo rurale, sta nell’applicazione del principio di coprogettazione tra i vari livelli di governo ai fini della definizione delle strategie locali. Infatti nelle aree Snai l’individuazione degli obiettive e degli interventi da realizzare avviene attraverso il lavoro dei diversi livelli di governo coinvolti.
Al di la del contributo che lo sviluppo rurale può dare alla declinazione della Snai come politica di sviluppo territoriale, da questa sperimentazione possono scaturire delle indicazioni utili per la definizione di una policy per le aree rurali e periferiche più vicina ai fabbisogni emergenti. L’esperienza della Snai sta evidenziando l’esigenza di definire obiettivi strategici comuni per le politiche rurali il cui perseguimento coinvolga tutti i livelli di governo e gli ambiti rilevanti (quindi non solo politiche di sviluppo regionale ma anche i servizi pubblici). Perché ciò sia possibile è necessaria la definizione di nuovi modelli di governance in grado di garantire un migliore coordinamento verticale e orizzontale tra le diverse politiche.
Rimane da chiarire in che misura questo approccio sia generalizzabile. Lo spostamento della politica per le aree rurali e periferiche verso un approccio strategico richiede competenze complesse e capacità progettuali elevate da parte dei diversi livelli della pubblica amministrazione coinvolti e dei soggetti beneficiari stessi, implica dunque la messa in campo di ingenti risorse istituzionali. Occorre quindi essere consapevoli che il lavoro da fare è lungo e difficile ed i suoi risultati non sono per nulla scontati.
Figura 1 – Mappatura delle aree rurali 2014-20
Fonte: elaborazioni Crea - Centro Politiche e bioeconomia - su dati Istat e Agrit-Popolus
Tabella 1 – I principali indicatori per tipologia di area rurale
Fonte: elaborazioni Crea - Centro Politiche e bioeconomia - su dati Istat, Agrit-Popolus
Conclusioni
L’analisi dell’evoluzione che ha interessato le politiche comunitarie di sviluppo rurale evidenzia come la visione di una politica rurale di stampo territoriale integrata con l’intervento per la coesione e focalizzata sulla riduzione delle divergenze tra regioni, che ha ispirato alcuni passaggi chiave in questo processo, si sia progressivamente indebolita e l’azione del fondo per lo sviluppo rurale si sia sostanzialmente separata da quella degli altri fondi.
L’ultima riforma comunitaria introduce, tuttavia, il rafforzamento dell’integrazione strategica tra fondi come opzione per superare la separatezza della loro azione e in Italia l’AP propone, tra gli strumenti per il perseguimento dell’obiettivo di coesione territoriale, la Strategia Nazionale Aree Interne.
La discontinuità introdotta dalla Snai rispetto agli approcci già sperimentati nell’ambito dello sviluppo rurale è solo apparente. La conclusione qui è che la strategia nazionale aree interne si ponga in continuità rispetto alla componente territoriale della politica di sviluppo rurale, sia sul piano concettuale che delle prassi di intervento, offrendole l’opportunità di avviarsi verso il superamento dell’impostazione orizzontale di “politica diffusa” assunta a seguito delle successive riforme. Tuttavia l’esperienza della Snai si differenzia dalle precedenti esperienze per il tentativo di definire obiettivi strategici comuni per le diverse politiche che impattano su un dato territorio, compresi i servizi. Si tratta di un primo passo verso la definizione di una politica rurale più moderna, capace di rispondere ai nuovi bisogni delle aree rurali e di impattare più efficacemente sulla riduzione delle diseguaglianze territoriali anche prevedendo, laddove necessario, misure di redistribuzione spaziale esplicita.
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