Introduzione
L’obiettivo di questo lavoro è fornire un contributo alla riflessione sull’agricoltura familiare, Tema del presente numero di Agriregionieuropa. La ricerca svolta si è posta il compito di tentare una misurazione quantitativa della consistenza dell’agricoltura “familiare” in Italia, rielaborando i dati del Censimento generale dell’agricoltura del 2010 e riprendendo la metodologia applicata su di esso in precedenti lavori (Arzeni, Sotte, 2013; Sotte, Arzeni, 2013, Arzeni, Sotte,2014).
Un compito arduo anche perché, come numerosi autori sottolineano (per tutti: Corsi, 2015), il termine agricoltura “familiare” viene utilizzato con differenti significati a seconda del contesto territoriale (es.: paesi sviluppati o in via di sviluppo) o temporale (es.: Italia negli anni ’50 o Italia oggi) e a seconda dell’approccio scientifico prevalente: sociologico, storico, antropologico, economico.
Così l’agricoltura “familiare”, che si definisce innanzitutto con la natura prevalentemente domestica del lavoro nell’azienda e dalla condizione di legame intrinseco e di co-evoluzione della famiglia e dell’azienda (Fao, 2015; Pierri, Hassan, 2015), talvolta è considerata sinonimo di agricoltura di “piccola scala”, includendo anche aziende di dimensioni talmente piccole da risultare del tutto accessorie rispetto agli interessi, agli impegni lavorativi e alla formazione del reddito della famiglia.
Altre volte nell’agricoltura familiare si comprendono anche le aziende in cui tutta l’attività di lavoro è svolta esclusivamente dal solo conduttore con buona pace per l’assunto che, perché l’agricoltura possa definirsi “familiare”, anche altri membri della famiglia dovrebbero essere coinvolti (Greco, 2015)1.
Su un altro piano, rimane spesso non chiarito se, riferendosi all’agricoltura familiare, specie nel contesto dei paesi sviluppati, ci si limiti a considerare l’agricoltura a carattere imprenditoriale e quindi rivolta al mercato: dove ha senso contrapporre l’agricoltura familiare a quella “capitalistica” (che impiega prevalentemente lavoro esterno salariato o bracciantile) o a quella “latifondistica” (il cui obiettivo primario è la rendita fondiaria), oppure si includano nella definizione anche tutte le forme di produzione agricola, anche per semplice autoconsumo, che allora potrebbero pure debordare dai censimenti per includere gli orti familiari: quelli annessi alle abitazioni, o quelli urbani su terreni adibiti allo scopo dalle municipalità.
Questa ambiguità definitoria influisce anche sulle statistiche. Innanzitutto perché, mancando una definizione chiara e inoppugnabile, il compito di misurare l’agricoltura “familiare” attraverso le rilevazioni statistiche appare particolarmente arduo. Il censimento rileva in effetti che su 1.603.709 aziende censite, in ben 696.084 (il 43,4%) lavora in azienda anche il coniuge del conduttore, in 277.151 (pari al 17%) lavorano in azienda anche altri familiari e in 161.247 (10%) anche altri parenti. È un impegno questo che appare numericamente molto consistente, ma che come si vedrà più avanti, a meno che non si parli di occupazione del tutto occasionale, non trova riscontro in quelle proporzioni nelle giornate lavorate.
Aspetti metodologici, aziende imprese e aziende non imprese
Riprendendo e adattando la metodologia già applicata nei lavori precedenti lavori già citati, il Censimento offre l’immagine dell’agricoltura italiana rappresentata in figura 1. In essa, le aziende agricole italiane sono suddivise sulla base della Produzione Standard (PS)2 e sono così classificate:
- “non imprese” se PS<8.000 euro/anno;
- aziende intermedie se 8.000<PS<25.000;
- piccole imprese se 25.000<PS<100.000 euro/anno;
- grandi imprese se PS>100.000 euro/anno;
- sono poi considerate disattivate le imprese di qualsiasi dimensione che presentino una delle seguenti caratteristiche:
- impiego di meno di 50 giornate di lavoro/anno;
- autoconsumo >50% della produzione;
- affidamento completo di almeno una produzione a contoterzisti.
La figura fornisce un’immagine dell’agricoltura italiana decisamente polarizzata. Da un lato, quasi due terzi delle “aziende non imprese” censite (1.018.496 unità, pari al 62,8%) impiega un quarto delle giornate di lavoro (25,2%), coltiva il 14,8% della Sau e produce soltanto il 5,3% della PS complessiva. Dall’altro lato, sommando assieme tutte le imprese, queste rappresentano meno di un quinto (18,8%) delle aziende censite. Con il 55,3% delle giornate di lavoro e il 69,7% della Sau, forniscono l’85,9% di tutta la PS (61,8% dovuto al solo 5,2% delle aziende agricole grandi imprese). Restano le aziende intermedie. Se si osserva che queste, pur essendo il 18,3%, impiegano il 19,2% di tutte le giornate di lavoro e il 15,6% della Sau, ma producono soltanto l’8,6% della PS, si può concludere che la loro natura è più simile a quella delle non-imprese che delle imprese.
Figura 1 – Riclassificazione delle aziende agricole censite
Fonte: Ns. elaborazioni su Censimento generale dell’agricoltura 2010
Dov’è l’agricoltura familiare ?
In questo contesto, cos’è l’agricoltura familiare in Italia e qual è il suo peso? In tabella 1, per le differenti tipologie aziendali, sono riportati i valori medi rispettivamente del numero di giornate lavorate nell’anno, della valorizzazione economica del lavoro espressa in termini di PS, per giornata e la dimensione economica complessiva delle aziende anch’essa calcolata in euro di PS.
Osservando quei dati, è discutibile che si possa associare l’attributo di agricoltura “familiare” (piuttosto è corretto definirle aziende con un solo occupato) a quel 62,8% di aziende censite che abbiamo classificato come non-imprese. Questo per più di un motivo.
- Con quel numero davvero esiguo di giornate di lavoro (soltanto 62 all’anno) questa tipologia aziendale non offre opportunità occupazionali neanche per un terzo del lavoro di una sola persona full time3. Questa è una constatazione che si impone, nonostante i risultati delle statistiche censuarie sul lavoro familiare che, ad esempio, rilevano come nelle 757.917 aziende con meno di 50 giornate lavorate all’anno, in 283.408 (37,5%) lavori in azienda oltre il conduttore anche il coniuge, in 79.421 (10,4%) altri familiari, in 56.893 (7,5%), altri parenti. Forse in passato il lavoro di questi stessi familiari aveva una certa consistenza (per questo motivo forse sono ancora computati nel Censimento), ma oggi è del tutto occasionale e poco rilevante per le strategie aziendali.
- La produttività in termini di PS di quelle poche giornate di lavoro appare peraltro particolarmente modesta: soltanto 41 euro/giornata a fronte di una media di 197 euro/giornata calcolata su tutte le aziende censite. Se ne può arguire che il calcolo economico e l’economicità della gestione in queste non imprese siano in gran parte trascurati, privilegiando altri obiettivi: la soddisfazione di avere in casa prodotti di qualità superiore e non più reperibili nei mercati ordinari o (specie in tempi di crisi) di risparmiare sui consumi alimentari attraverso l’autoproduzione e l’eliminazione di ogni costo di intermediazione, l’impiego del tempo libero in attività piacevoli e a contatto con la natura, il recupero di tradizioni apprese in altri tempi (specie per i più anziani), l’opportunità di svolgere esercizio fisico in attività utili, la volontà di gestire una proprietà per ragioni economiche minimali (capitale fondiario, Pac), per legami familiari, o in attesa di tempi migliori per la vendita.
- D’altra parte il 42,3% di queste non imprese dichiara di produrre soltanto per l’autoconsumo e di non avere di conseguenza alcun rapporto con il mercato, mentre un altro 13,9% dichiara di auto-consumare la maggior parte della propria produzione.
- La dimensione economica complessiva è peraltro così modesta: solo 2.584 euro/anno da apparire del tutto accessoria rispetto ad altre attività ed altri redditi della famiglia.
- In questo aggregato si concentra decisamente la presenza di conduttori con età particolarmente avanzate (il 42,3% ha più di 65 anni ed il 19,7% addirittura più di 75 anni).
Salendo di scala, nelle aziende classificate come intermedie l’occupazione in giornate di lavoro/anno: 162 mediamente, appare tale da coprire l’offerta di lavoro di un occupato part-time al 50%. La produttività del lavoro è più che raddoppiata rispetto alle non imprese: 89 euro/giornata, ma è pur sempre attestata ancora a meno della metà della media complessiva calcolata su tutte le aziende censite. Si tenga conto che la PS è al lordo di tutti i costi diretti ed indiretti sopportati dalle aziende. Queste considerazioni suonano a conferma della associazione già accennata di questo tipo di aziende più al campo delle non imprese che a quello delle imprese.
Sommando tutte le aziende fin qui considerate siamo già a un milione 348 mila aziende censite (l’83,2 %).
Restano 413.655 aziende “imprese” (18,8% del totale) distinte in piccole (188.733), grandi (84.214) e disattivate (32.913). Solo queste aziende, che hanno caratteristiche più confacenti alla definizione di impresa, presentano condizioni di economicità e risultati economici decisamente più consistenti e tali da assicurare possibilità di permanenza e sviluppo, in condizioni di mercato, anche nel lungo termine.
Il confronto più interessante ai nostri fini è tra le piccole e le grandi imprese agricole. Purtroppo, attraverso i dati elaborati, non è possibile distinguere in questi aggregati le imprese “familiari” dalle altre. E naturalmente, dal momento che il confronto è sulle medie, le generalizzazioni che si possono trarre dai dati, non escludono che ci siano degli outlier in ogni gruppo, che si comportano in modo originale ed opposto rispetto alla massa. Ciò detto, comunque, dal confronto si può trarre la conclusione che le piccole imprese (50,7 mila euro in media di PS) possono essere effettivamente meglio associate alle definizioni di agricoltura “familiare”, mentre le grandi imprese (in media sette volte più grandi: 362,7 mila euro di PS) abbiano piuttosto i connotati di quella che, per contrasto, viene spesso definita “agricoltura capitalistica”4.
Nelle prime, infatti, il lavoro richiesto è tale da implicare l’impegno di un paio di persone: 361 giornate/anno, compatibile con una struttura familiare di piccole dimensioni come la generalità delle famiglie attuali e con un impegno rilevante (diversamente dalle non imprese). Sull’altro fronte, le grandi imprese si caratterizzano per una occupazione media di 784 giornate di lavoro/anno. Un volume di lavoro più facilmente rinvenibile in imprese con manodopera reclutata prevalentemente all’esterno.
Ciò che comunque valida maggiormente l’associazione tra piccola impresa e agricoltura familiare e tra grande impresa e agricoltura capitalistica è il confronto tra le produttività giornaliere del lavoro: 140 euro/giornata nel primo caso e ben 460 euro/giornata nel secondo. Un divario certamente condizionato anche dal fatto che al censimento possono essere stati sottaciuti dei lavoratori dipendenti, specie se occasionali, assunti in modo irregolare, ma tale comunque da suggerire la considerazione che mentre nel primo caso l’obiettivo prevalente sia quello di valorizzare una disponibilità di lavoro abbondante rispetto agli altri fattori (terra e capitale), stante la dimensione economica contenuta dell’impresa, con relativamente poche e scarsamente remunerative alternative occupazionali (quindi con prezzo ombra basso). Nel secondo caso, invece, in cui la dimensione economica e quindi anche la disponibilità di capitali è meno costringente e il lavoro reperito all’esterno ha costi unitari relativamente maggiori, prevale una selezione di ordinamenti produttivi risparmiatori di lavoro, ad alta ed altissima intensità degli altri fattori (capitale, terra, servizi agro-meccanici) tale da elevare notevolmente la produttività del lavoro.
Si ottiene così nelle grandi aziende una valorizzazione del lavoro che appare molto prossima a quella ancora maggiore, ma non di molto, delle aziende destrutturate (488 euro/giornata), che si avvalgono di lavoro esterno sotto forma di servizi contoterzistici, risparmiando ulteriormente il lavoro aziendale.
Tabella 1 – Valori caratteristici delle diverse tipologie aziendali
Fonte: Ns. elaborazioni su Censimento generale dell’agricoltura 2010
Considerazioni conclusive
L’agricoltura “familiare” un tempo aveva in Italia una chiara identificazione. Con questo termine si faceva riferimento a quella modalità, di gran lunga prevalente, di organizzazione economica e sociale dell’agricoltura (opposta all’agricoltura capitalistica o a quella latifondistica), in cui famiglia e azienda agricola erano un tutt’uno. Per cui, anche con dimensioni aziendali limitate, tutta la famiglia era coinvolta nell’attività agricola, condizione necessaria perché tutto il lavoro disponibile fosse valorizzato, sia pure con risultati modesti.
Questo avveniva nel contesto di una condizione di separatezza tra rurale e urbano, per cui il rurale era soltanto e ineluttabilmente agricolo e gli ordinamenti agricoli erano essenzialmente intensivi di lavoro. L’unica alternativa era l’emigrazione, che però essendo lontana e spesso in altri Paesi, richiedeva una pesante rinuncia e non di rado una rottura dei rapporti familiari e sociali. L’agricoltura era “familiare” dunque per necessità, più che per scelta.
Questa condizione è ancora presente in gran parte delle aree rurali e agricole del mondo, ma non più in molti territori rurali in Italia (come negli altri paesi sviluppati).
Lo sviluppo nelle aree rurali, o comunque in territori contigui, di opportunità occupazionali negli altri settori (industria, servizi, pubblica amministrazione, turismo, ecc.), ha consentito in numerosi contesti territoriali di rompere l’isolamento del passato e l’assenza di alternative all’impegno nell’unica attività: quella agricola “familiare”. L’innovazione tecnologica (specie lo sviluppo della meccanizzazione) ha decisamente abbassato la quantità di lavoro umano necessario alla produzione agricola.
Così, le tantissime aziende di piccolissime e piccole dimensioni economiche (1 milione 348 mila “non imprese” e aziende intermedie sulla base delle nostre elaborazioni, l’83,2% delle aziende censite) si sono gradualmente trasformate in aziende a bassissimo impiego di lavoro (anche perché a bassissima produttività): più aziende di un familiare, che “familiari”, sempre più accessorie e secondarie nell’occupazione e nella formazione del reddito familiare.
Sul fronte delle imprese, invece, (ma stiamo parlando di circa 400 mila aziende, meno di un quinto di quelle censite) indubbiamente persiste nella gran parte dei casi l’agricoltura “familiare”, perché l’apporto di lavoro prevalente è assicurato dal conduttore e da membri della sua famiglia. La prevalenza del carattere imprenditoriale ha però trasformato il rapporto famiglia-azienda, sia perché, pur facendo parte della famiglia, alcuni suoi membri possono trovare occupazione in altri settori, sia perché la gestione dell’impresa richiede specializzazioni disponibili soltanto all’esterno della famiglia o prevede mansioni (è questo spesso lo spazio per gli immigrati) che i membri della famiglia dell’imprenditore agricolo non sono più disposti a svolgere.
È questa l’agricoltura effettivamente “familiare” in Italia: perché la famiglia è decisamente impegnata nel lavoro richiesto dall’impresa, e perché dall’impresa, confrontandosi con il mercato e con l’innovazione, trae la remunerazione congiunta delle sue due attività: quella imprenditoriale e quella lavorativa.
La principale differenza, in positivo rispetto al passato, è che questa è una agricoltura “familiare” per scelta, non per necessità. Seppure in termini quantitativi conta un numero di unità molto inferiore che in altri tempi (ed anche rispetto a letture meno analitiche dei dati statistici recenti), essa assicura gran parte del valore prodotto dall’agricoltura italiana.
Compito della ricerca (con l’aiuto di statistiche appropriate) è approfondirne la conoscenza per comprenderne meglio le potenzialità e i bisogni, senza confonderla con le altre forme di agricoltura, pur presenti nel variegato panorama dell’agricoltura italiana. Compito della politica agricola e di sviluppo rurale è individuare modalità di sostegno specifiche per garantire all’impresa ed alla famiglia le condizioni e i servizi necessari alla permanenza nel tempo e allo sviluppo di questa agricoltura effettivamente “familiare”.
Riferimenti bibliografici
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Pierri F.M., Hassan S. (2015), “L’anno internazionale dell’agricoltura familiare: risultati, conquiste e sfide future”, Agriregionieuropa n.43
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Sotte F., Arzeni A. (2013), “Imprese e non-imprese nell’agricoltura italiana”, Agriregionieuropa n.32
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Sotte F. (2006), “Quante sono le imprese agricole in Italia?”, in Agriregionieuropa, n.5
- 1. Può essere utile ricordare che “famiglia” è per il Sabatini-Colletti, Dizionario della lingua Italiana, il “Nucleo elementare della società umana, formato in senso stretto e tradizionale da genitori e figli, con l'eventuale presenza di altri parenti”. La definizione è chiara anche in altre lingue. Ad esempio per l’Oxford Advanced Learner’s Dictionary, “family” è “A group consisting of two parents and their children living together”.
- 2. La Produzione Standard o Standard Output è una stima del valore della produzione aziendale basata su medie unitarie quinquennali applicate alle principali attività agricole e zootecniche (Regolamento (CE) N. 1242/2008). Non comprende gli aiuti pubblici, le imposte e le eventuali attività connesse e di trasformazione (ad esclusione di vino ed olio).
- 3. Considerando convenzionalmente in 210 giornate/anno l’impegno di un lavoratore full-time.
- 4. Questa affermazione può essere supportata dal fatto che l’incidenza delle aziende con salariati cresce dal 5% al 13% passando dalla classe di PS tra 25-100 mila euro a quella con più 100 mila euro.