Intorno all’azienda familiare c’è tradizionalmente molta discussione, spesso con connotazioni anche ideologiche. Questo non sorprende: l’agricoltura familiare è stata al centro di aggregazioni politiche, dai populisti americani di fine ‘800, alla Coldiretti che in Italia ha monopolizzato il consenso contadino per un trentennio, alla “via campesina” attuale, per citare tre esperienze molto diverse. Spesso l’azienda familiare è presentata in opposizione alla grande impresa, o come un modo alternativo di produzione. Indubbiamente le aziende familiari presentano caratteri sociali che ne fanno un soggetto particolare, e sono spesso portatrici di una cultura specifica. Quello che però vorremmo presentare qui sono alcune brevi considerazioni sulle aziende familiari come possono essere interpretate dal punto di vista strettamente economico, sulla base della letteratura scientifica economica che ne ha analizzato diversi aspetti. Con l’avvertenza che si tratta della teoria economica mainstream: che segue cioè l’ipotesi che il comportamento degli operatori sia finalizzato alla massimizzazione di un obiettivo nel rispetto dei vincoli posti dalle condizioni tecniche e economiche date.
Che cos’è una “azienda familiare”?
La dichiarazione del 2014 come “Anno dell’agricoltura familiare” da parte della Fao ha determinato una serie di iniziative e di studi al riguardo. Ma la stessa Fao ha avuto difficoltà a darne una definizione, tanto da dover promuovere uno studio diretto a trovarne una adeguata (Garner e de la O Campos, 2014), che è arrivato alla seguente formulazione: “L’agricoltura familiare è un mezzo di organizzazione della produzione agricola, forestale, ittica, pastorale e di acquacoltura che è gestito e messo in opera da una famiglia e che si basa prevalentemente su lavoro familiare, sia maschile che femminile. La famiglia e l’azienda sono collegate, co-evolvono e combinano funzioni economiche, ambientali, riproduttive, sociali e culturali”.
Questa definizione cerca di mettere insieme numerosi aspetti che sono stati esaminati dalla letteratura economica e soprattutto sociologica rispetto all’agricoltura familiare. Si tratta di elementi che sono entrati, a diverso titolo, nelle differenti definizioni di agricoltura familiare reperibili nella letteratura e che fanno riferimento al lavoro fornito dalla famiglia, alla gestione dell’azienda, alle piccole dimensioni aziendali, alla trasmissibilità intergenerazionale, ai legami sociali e familiari, alla produzione per la sussistenza.
Le definizioni possono servire per classificare l’appartenenza o meno ad un insieme, per scopi statistici o di accesso a politiche di sostegno; ma dal punto di vista economico, quello che conta è capire se il fatto che un’azienda sia familiare determina differenze nei comportamenti economici rispetto alle altre imprese. Sotto questo aspetto, allora, ciò che è rilevante per una definizione di agricoltura familiare dal punto di vista economico, è la coincidenza fra l’unità di produzione (l’impresa agricola) e l’unità di consumo e di allocazione delle risorse personali (la famiglia). È quindi il conferimento del fattore produttivo lavoro, insieme ai capitali, che fa distinguere l’azienda familiare dalle altre imprese. Detto in altri termini: sui risultati economici della Ferrero (per prendere come esempio un’impresa a capitale familiare) il lavoro dei membri della famiglia Ferrero ha un’influenza assolutamente trascurabile rispetto a quella dei capitali conferiti dalla famiglia stessa; viceversa nella tipica azienda agraria (anche una azienda medio-grande) il peso del reddito derivante dal lavoro in azienda del titolare e dei suoi familiari non è mai trascurabile. Di conseguenza, il reddito dell’agricoltore familiare (il reddito netto) è composto, in proporzioni diverse, da redditi da lavoro e da redditi da capitale (agrario e fondiario), ma sempre con una presenza sostanziale dei primi.
Il comportamento delle aziende familiari è diverso da quello delle altre imprese?
La risposta della teoria economica è: dipende. Ma, si può aggiungere, in genere sì. La ragione sta appunto nella duplice natura del lavoro familiare, da una parte costo per l’azienda, dall’altra reddito per la famiglia. In genere, gli agricoltori non considerano il proprio lavoro un costo, dato che non lo pagano. Ma se invece che lavorare in azienda hanno la possibilità di lavorare altrove, il reddito che questo lavoro alternativo fornirebbe rappresenta il costo effettivo (il costo-opportunità) del loro lavoro in azienda, perché è il reddito a cui rinunciano per lavorare nella propria azienda. In una situazione di questo genere, l’agricoltore prima o poi considererà queste possibilità alternative, e calcolerà il proprio lavoro come costo, in questo avvicinandosi al comportamento delle altre imprese. Ma se questa possibilità non esiste, allora il costo del lavoro familiare diventa soggettivo: in sostanza, è di quanto si accontenta l’agricoltore per il lavoro che svolge in azienda. E questa è la situazione di molte aziende familiari, vuoi perché si trovano in zone marginali in cui le occasioni di occupazione sono scarse, vuoi quando, per ragioni di età o di formazione, l’accesso ad una occupazione esterna è difficile o addirittura impossibile. E poiché ciò di cui l’agricoltore si accontenta per fornire il proprio lavoro in azienda è tanto minore quanto minore è il suo reddito complessivo, ne deriva che molte piccole aziende familiari sopravvivono anche con redditi bassi proprio perché valutano poco il proprio lavoro.
La seconda conseguenza di una situazione di mancanza di occupazioni alternative è che le reazioni di queste aziende familiari agli stimoli di mercato sono minori che nelle altre, in quanto l’adattamento, ad esempio, ad una variazione dei prezzi agricoli non può avvenire nello stesso modo con cui avviene in un’azienda con salariati, che può reagire diminuendone o aumentandone l’impiego per variare l’offerta. In termini tecnici, l’elasticità della offerta ai prezzi è minore in queste aziende, per la presenza di un effetto reddito che contrasta l’effetto sostituzione rispetto al lavoro familiare: un calo dei prezzi spinge l’agricoltore a lavorare di più per contrastare la caduta di reddito, mentre la minore redditività del lavoro agricolo porterebbe ad una minore convenienza del lavoro in azienda e quindi ad una sua riduzione. Sul lungo periodo, la minore capacità delle aziende familiari di questo tipo ad adattarsi agli stimoli di mercato le mette in una situazione di svantaggio rispetto alle altre in termini di reddito, e quindi anche di possibilità di investimento e di crescita; il che spiega il peso progressivamente decrescente di queste aziende sul totale.
In effetti, se consideriamo la storia dell’agricoltura italiana dal dopoguerra ad oggi, i grandi cambiamenti strutturali si possono leggere in questa chiave. Il grande esodo agricolo degli anni 1950-60 deriva fondamentalmente dall’aprirsi di possibilità occupazionali nel nord-Italia e all’estero, a livelli di remunerazione maggiori di quelli possibili in agricoltura. L’esodo è poi continuato in forme più attenuate, interessando fondamentalmente il mancato ingresso in agricoltura dei figli di agricoltori, e parzialmente agricoltori di età maggiore.
Un ulteriore elemento per il quale il comportamento delle aziende familiari si può discostare da quello delle altre imprese riguarda gli obiettivi stessi dell’agricoltore. Accanto all’obiettivo di reddito, molto spesso contano nel comportamento degli agricoltori altri elementi, ad esempio la soddisfazione del lavoro in proprio, l’orgoglio professionale (si pensi ai vignaioli che puntano al riconoscimento dell’eccellenza dei propri vini), e simili; tutti obiettivi che possono far passare in secondo piano quello del reddito. Ad esempio, Fall e Magnac (2004) hanno dimostrato che il differenziale di reddito fra l’agricoltura e gli altri settori si può attribuire alla preferenza degli agricoltori per il lavoro indipendente.
Perché gran parte delle aziende agricole sono familiari?
Intanto va osservato che le aziende agricole sono in genere, se comparate a quelle di altri settori, piccole: anche le aziende di dimensioni maggiori, e anche in paesi in cui le dimensioni medie sono molto più ampie di quelle italiane, sono in termini comparativi imprese di dimensioni limitate, sia relativamente agli occupati sia relativamente al fatturato. La ragione sta nel fatto che in agricoltura vi sono scarse economie di scala, che peraltro si esauriscono a dimensioni di produzione limitate (Hayami e Ruttan, 1985; Kislev e Peterson, 1996). La causa va cercata prevalentemente nel carattere di produzione in parallelo e non in linea del processo produttivo in agricoltura (Gorgescu-Roegen, 1972). Questo limita l’utilizzo continuativo dei macchinari specializzati (una mietitrebbia si usa per un periodo limitato dell’anno, a differenza, ad es., di una pressa nell’industria meccanica) che sono tra i maggiori determinanti delle economie di scala; fanno eccezione alcune produzioni agricole, che non a caso chiamiamo industriali, prevalentemente di tipo zootecnico, che in effetti possono raggiungere dimensioni elevate. Come risultato di queste dimensioni limitate, le aziende agricole sono prevalentemente imprese individuali, nelle quali il proprietario dei capitali è direttamente coinvolto nella gestione e nell’attività lavorativa (a differenza, ad esempio, delle società per azioni, nelle quali spesso si ha separazione fra proprietà e gestione).
Le piccole dimensioni di impresa si accompagnano al carattere familiare per un’altra caratteristica del lavoro agricolo, il fatto che viene svolto in modo disperso sul terreno (a differenza dalla fabbrica e dall’ufficio, dove i lavoratori sono concentrati nello stesso luogo). Questo rende più costosa la supervisione del lavoro salariato rispetto a situazioni in cui i dipendenti sono concentrati in un unico luogo (Pollack, 1985). Controllare che i dipendenti svolgano le loro mansioni nella misura e nella qualità richiesta richiederebbe molto tempo di lavoro di supervisione (di nuovo, ci sono eccezioni: ad esempio, la raccolta della frutta viene fatta in squadra, ed il controllo è semplice). Ma in generale la manodopera familiare, essendo cointeressata alla gestione dell’azienda e legata da vincoli affettivi, risulta maggiormente adatta e conveniente rispetto a quella salariata, sia perché non richiede supervisione, sia per il maggior impegno di lavoro fornito (le giornate di lavoro annuali della manodopera familiare sono notoriamente molte di più di quelle dei salariati fissi) e probabilmente anche per la qualità e l’attenzione prestata.
Il problema della successione
Le aziende familiari hanno in comune con le altre imprese a capitale familiare il problema della successione, del passaggio cioè della gestione alla generazione successiva. In primo luogo si tratta della trasmissione del patrimonio rappresentato dall’azienda. Rispetto ad altre imprese, il patrimonio dell’azienda agricola è più difficilmente divisibile fra più eredi, per il fatto che gran parte di esso deriva dai valori fondiari; questo rende più complessa una divisione fra più eredi che non intacchi le potenzialità produttive e di reddito dell’azienda stessa rispetto a quella che si può realizzare in altre imprese, ad esempio dividendo le quote societarie. Gran parte dei fenomeni di frammentazione fondiaria che si osservavano nel passato in effetti derivavano dalle suddivisioni successive fra eredi, anche se attualmente le minori dimensioni delle famiglie e la fuoriuscita dall’agricoltura di molti addetti ha reso il problema meno pressante.
Più importante è il problema del passaggio della gestione aziendale, quando questa avviene all’interno della famiglia. Sotto questo aspetto, la successione familiare presenta alcuni vantaggi se permette la trasmissione di conoscenze e abilità specifiche per l’azienda stessa. Rosenzweig e Wolpin (1985) spiegano la prevalenza della trasmissione intra-familiare con l’argomento che l’accumulazione di conoscenza specifica per l’azienda da parte del figlio che vi lavora aumenta la sua produttività, e rende l’azienda più conveniente per lui che per un estraneo. La loro analisi riguardava un paese in via di sviluppo, in cui l’esperienza e la conoscenza tacita hanno una grossa importanza; ma un fenomeno analogo, per cui la successione familiare è favorita dal fatto che nella gestione dell’azienda conti la conoscenza specifica, è stato mostrato anche per un paese sviluppato come l’Italia (Corsi, 2009).
Punti di forza e di debolezza delle aziende familiari
I punti di forza delle aziende familiari derivano da alcune caratteristiche prima illustrate. Come si è detto, l’uso della manodopera familiare le pone su un piano di vantaggio in termini di costi di supervisione rispetto alle aziende a salariati. Il fatto che la remunerazione del lavoro familiare non sia un costo esplicito permette una maggiore flessibilità rispetto alle fluttuazioni economiche: mentre in una congiuntura sfavorevole il salario dei dipendenti difficilmente può essere compresso, cosicché si possono avere solo variazioni del numero dei salariati, il costo del lavoro familiare – almeno fino al livello di sopravvivenza e in assenza di opportunità di lavoro alternative – si può comprimere, permettendo la continuazione dell’attività anche in situazioni congiunturalmente sfavorevoli. Le aziende familiari, quindi, godono in generale di una maggiore resilienza rispetto alle altre.
Quest’ultimo elemento può peraltro diventare sul lungo periodo un elemento di inefficienza: se aziende poco redditizie si mantengono in vita grazie alla loro caratteristica di essere basate su lavoro familiare sotto-remunerato, questo impedisce o rallenta una ristrutturazione del tessuto aziendale o la sostituzione di imprenditori poco efficienti con altri più capaci. È vero che nel lungo periodo queste situazioni tendono a scomparire, ma i processi con cui avvengono, soprattutto quando affidati al mancato ricambio generazionale, possono essere anche di lunga durata. Inoltre, poiché la permanenza di aziende familiari a basso reddito è tanto maggiore quanto minori sono le possibilità occupazionali al di fuori dell’azienda, si possono creare situazioni in cui allo scarso sviluppo economico extra-agricolo del territorio si accompagna un’agricoltura a bassa redditività: situazioni come quelle presenti in alcune aree del Mezzogiorno, in cui si registrano anche alte presenze di giovani in agricoltura, dovute purtroppo però alla carenza di alternative occupazionali (Carbone e Corsi, 2014). Quanto la perdita di efficienza connessa alla permanenza di strutture inadeguate valga rispetto ai benefici di mantenere un’attività produttiva in aree dove altrimenti queste cesserebbero è ovviamente una questione empirica che dipende dai casi specifici, oltre che dai giudizi di valore che si danno sulle due alternative.
Riferimenti bibliografici
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Carbone A., Corsi A., Dinamica generazionale e dimensione territoriale dell'agricoltura italiana, QA Rivista dell’Associazione Rossi-Doria, n° 1
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Corsi, A. (2009), Family farm succession and specific knowledge in Italy, Rivista di Economia Agraria, LXIV, n. 1-2
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Fall M., Magnac T. (2004), How valuable is on-farm work to farmers?, American Journal of Agricultural Economics, 86 (1)
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Garner E., de la O Campos A.P. (2014) Identifying the “family farm”: an informal discussion of the concepts and definitions, Esa Working Paper No. 14-10. Rome, Fao
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Georgescu-Roegen N. (1972), Process Analysis and the Neoclassical Theory of Production, American Journal of Agricultural Economics, Vol. 54(2), 279-294
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Hayami Y., Ruttan V.W. (1985), Agricultural development: an international perspective, Johns Hopkins University Press, Baltimore and London
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Kislev Y., Peterson W. (1996), Economies of scale in agriculture: A re-examination, in The economics of agriculture, Papers in honor of D. Gale Johnson, The University of Chicago Press, Chicago
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Pollack R.A. (1985), A Transaction Cost Approach to Families and Households, Journal of Economic Literature, 23 Rosenzweig M.R.
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Wolpin K.I. (1985), Specific experience, household structure, and intergenerational transfers: farm family land and labour arrangements in developing countries, The Quarterly Journal of Economics, 100 (supplement)