Introduzione: due visioni di bio-economia
L’economia europea del legno sta lentamente uscendo dalla crisi completamente trasformata: il segmento di maggior impiego di fibre legnose, quello delle paste-carta, si è radicalmente ridimensionato, le imprese che producono segati hanno espanso la loro capacità di esportazione nei paesi extraeuropei riducendo i loro costi e diventando più competitive, il segmento delle biomasse a uso energetico è talmente cresciuto che i paesi europei, anche quelli nordici, stanno importano crescenti quantità di cippato e pellet.
Queste trasformazioni sono ispirate da un concetto che riscuote grande successo in termini di comunicazione, come nel recente passato è stato per “gestione sostenibile”, “multifunzionalità”, “sviluppo dal basso”, “de-carbonizzazione”. Il nuovo concetto-guida è la bio-economia (bio-based economy o green economy) o “economia circolare” (Oecd, 2011; Unep, 2011)1 fatto proprio dall’Unione Europea nelle proprie politiche di sviluppo (EC, 2012).
Come spesso accade per queste idee-chiave, la definizione e ancor più la concretizzazione operativa della bio-economia è tutt’altro che chiara e univoca. Semplificando un po’ i termini della questione, si può osservare che ci sono due visioni della bio-economia (Toman, 2012): una, che potremmo chiamare della crescita responsabile, che tende ad evidenziare gli aspetti legati alla valorizzazione del capitale naturale, dei saperi tradizionali, tramite la promozione di un’equa ridistribuzione delle risorse, le filiere corte, l’inclusione sociale, la “good governance” basata su criteri quali la trasparenza, la responsabilità dei decisori, la partecipazione, l’efficienza-efficacia dell’azione pubblica. L’altra visione della bio-economia è più “tecnologica” e sottolinea l’importanza delle tecnologie industriali innovative (bio-fuel, bio-plastiche, ...), dalle nanotecnologie a quelle di informazione e comunicazione a quelle del riciclo e riutilizzo post consumo.
Le differenze tra queste due visioni sono abbastanza evidenti quando si analizzano le dichiarazioni e gli indirizzi di politica economica per la ristrutturazione del settore forestale in Europa (EC, 2013; Unece-Fao, 2005 e 2013):
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da una parte abbiamo una grande attenzione alla crescita dell’offerta interna di legname (“wood mobilization”), al suo corretto impiego nella catena di valore (“approccio a cascata”) tramite lo sviluppo di avanzate tecnologie di trasformazione industriale. È questo il modello prevalente nel centro-nord Europa dove si concentrano 12 più grandi segherie (2014) con una capacità di produzione per singolo impianto compresa tra le 0,6 e 1,2 Milioni di metri cubi (Mmc), i grandi impianti per la produzione di energia elettrica di potenza nominale da 30-50 Mwe in su, dove le industrie della carta si stanno trasformando in bio-fabbriche. È il caso dell’impianto della Metsä finlandese che sarà aperto il prossimo anno in grado di lavorare 6,5 Mmc/anno (rispetto ai 2,4 attuali) per la produzione di paste, energia elettrica, prodotti chimici e farmaceutici. Svezia, Norvegia, Regno Unito, Germania, … stanno seguendo lo stessa politica di investimenti: impianto a grande scala, con alti investimenti in capitali e basso impiego di manodopera (nel caso della Metsä l’investimento sarà di 1,1 Mld € e 2.500 i posti di lavoro creati), in grado di produrre prodotti diversificati con materie prime anche molto povere. È una politica economica “verticale” basata su criteri di razionalizzazione della filiera (supply chain) che probabilmente ridurrà il potere di mercato dei proprietari e dei gestori forestali e che rinsalderà il legname come prodotto forestale principale;
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dall’altra abbiamo una dimensione “orizzontale” dell’economia forestale, un modello che caratterizza maggiormente il sud Europa, dove le foreste vengono attivamente gestite in una logica di integrazione con il settore agricolo, turistico-ricreativo-culturale e con l’offerta di servizi ambientali. In queste prospettiva diventano fattori critici le tecnologie di produzione e lavorazione su scala limitata, ad alta intensità di lavoro, la diversificazione dei prodotti forestali (il legname per lavorazioni industriali specializzate, la biomassa per produzione di energia termica o per la co-generazione in impianti su scala locale e l’ampia gamma dei prodotti forestali non legnosi), ma anche le innovazioni sociali quali la creazione di forme di integrazione tra operatori economici per l’organizzazione e la promozione dell’offerta di un insieme diversificato, ma coerente, di prodotti legati al territorio.
Appare evidente che per l’Italia le opportunità di sviluppo si legano a questo secondo modello di sviluppo. A fronte dei mutamenti strutturali del mercato, del ruolo delle risorse forestali nelle strategie di sviluppo, nonché degli impegni internazionali e comunitari sottoscritti dall’Italia che coinvolgono direttamente o indirettamente il settore forestale nazionale, quale è stata la risposta politica nel nostro Paese? A questo interrogativo cerchiamo di rispondere nel seguito con alcune riflessioni, più nel senso di una prima linea interpretativa che di una analisi esaustiva e strutturata del quadro della recente azione politica.
La pesante eredità del passato
L’Italia ormai da diversi decenni non ha più una politica forestale nazionale nonostante il Ministero di riferimento abbia nella propria denominazione un esplicito riferimento alle “politiche forestali”. Questa situazione è dovuta ad alcuni fattori che cerchiamo schematicamente di ricordare.
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il decentramento amministrativo avviato negli anni ’70 ha portato al trasferimento delle competenze in campo forestale alle Regioni, mentre quelle in campo ambientale e paesaggistico rimangono di competenza centrale e prevedono, comunque, un coordinamento e un’armonizzazione delle politiche tra Stato e Regioni. Con la crescita del ruolo delle foreste nell’offerta di beni pubblici e, quindi, di servizi ambientali, queste scelte di demarcazione delle aree di competenza Stato-Regioni hanno creato evidenti motivi di conflitto;
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nell’attuale struttura organizzativa del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (Mipaaf) non esiste un dipartimento, direzione o ufficio che abbia responsabilità specifiche e consolidate di politica forestale. La materia nello specifico viene, quindi, affrontata sempre in emergenza, e per limitati ambiti di interesse nelle diverse Direzioni, dallo sviluppo rurale ai rapporti internazionali, dalla competitività di settore alle agro-energie. Di fatto la politica forestale del Mipaaf è stata demandata al Corpo Forestale dello Stato (Cfs), una scelta discutibile: come se, mutatis mutandis, la politica economica e fiscale nazionale fosse demandata alla Guardia di Finanza. Il Cfs ha peraltro perso molte delle sue originali funzioni tecniche e operative e si è andato concentrando in quelle di polizia, funzioni che sono state sviluppate sempre più con una attenzione al di fuori del settore forestale: come evidenziato da un ex dirigente del Cfs (Corrado, 2013), solo il 10% delle funzioni di polizia svolte dal Cfs riguarda il settore forestale. In sintesi il mandato di policy making del Mipaaf è stato delegato a un corpo di polizia, così riducendo il senso delle politiche alla solo funzione di regolazione, peraltro sempre meno concentrata nell’azione di controllo delle risorse forestali;
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il problema della disarticolazione interna delle competenze e della debolezza del Mipaaf nella gestione delle politiche forestali è inoltre legato, in un rapporto dove è difficile distinguere la causa dall’effetto, all’azione nel settore forestale del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (Mattm) in quanto le foreste costituiscono la forma d’uso del suolo più diffusa nelle aree protette, e al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (Mibact), alla luce, ad esempio, del vincolo paesaggistico esteso a tutte le superfici forestali2. L’azione di governance ha risentito inoltre di un problema strutturale dell’amministrazione pubblica italiana dato dalle difficoltà nel coordinamento orizzontale a livello dell’amministrazione centrale;
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le Regioni, a cui spetterebbe la parte attiva delle politiche forestali, dopo una fase di crescita nell’impegno organizzativo e finanziario per il settore forestale tra gli anni ’80 e primi anni ’90, hanno concentrato la loro attività nel cofinanziamento degli investimenti forestali nell’ambito della politica di sviluppo rurale e progressivamente, nella morsa della spending review, hanno ridotto, in molti casi annullato sia le linee di spesa autonome, che gli enti (Comunità montane, Consorzi, Aziende forestali, Agenzie regionali di sviluppo, …) e quindi il personale con funzioni di supporto tecnico, concentrandosi sulle mere misure amministrative;
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con la riduzione delle capacità di intervento operativo e di spesa delle Regioni e lo smantellamento dei servizi tecnici sul territorio si è fatto ancora più grave il problema del coordinamento dell’azione politica delle Regioni: anche per i nuovi campi di intervento definiti a livello comunitario e internazionale3, l’azione delle Regioni richiederebbe un forte coordinamento (se non una regia nazionale) proprio in relazione ai criterio di sussidiarietà verticale: costruzione di albi per le ditte forestali e patentini per gli operatori boschivi, programmi e strutture di formazione e aggiornamento professionale, informatizzazione delle vendite dei lotti boschivi e osservatori del mercato, politiche di filiera per specifici investimenti come la pioppicoltura, statistica forestale, normativa sui Prodotti Forestali Non Legnosi, … Affrontare queste e altre tematiche con 21 Piani forestali regionali eterogenei nei criteri e nei contenuti provoca uno spreco di risorse e crea condizioni operative a macchia di leopardo non funzionali a una valorizzazione economica del settore.
In questa situazione non ci si può stupire se l’area di maggior efficacia dell’azione politica risulta quella legata alle normative vincolistiche di tutela e pretesa salvaguardia di interessi strettamente pubblici (ambiente, cultura e paesaggio, difesa del suolo, ecc.), mentre le attività di gestione e utilizzazione del patrimonio forestale, pubblico e privato, sono andate progressivamente diminuendo, anche se la corretta gestione rimane lo strumento più efficiente per garantire la produttività delle risorse e la loro tutela, intesa come conservazione e valorizzazione delle funzioni pubbliche del bosco (Pettenella, 2009).
Di fatto il singolo, più potente, strumento di politica forestale è ancora il Vincolo Idrogeologico, uno strumento concepito dal Serpieri negli anni ’20 con il Rdl 3267/1923. Ma l’Italia forestale è totalmente cambiata rispetto a quegli anni, le capre non sono più il “fessipide dall’unghia luciferina”, come venivano descritte dall’On. Conte Luigi Soriani Monetti in un suo discorso alla Camera dei Deputati il 1 giugno del 1914 (Gaspari, 1994) identificandole come il più grande nemico dei boschi dal quale bisognava proteggersi con un pervasivo sistema di divieti e una amministrazione specializzata in grado di farli rispettare. Da allora le cose sono profondamente cambiate. In primo luogo la nostra società, che è passata da una economia storicamente agrosilvopastorale a una economia di “consumo globale” dove accanto alla domanda di materie prime rinnovabili è enormemente cresciuta una domanda di servizi ambientali. La superficie forestale nazionale dagli anni ’20 ad oggi si è più che triplicata, portando l’Italia ad avere un coefficiente di boscosità più alto della Germania e della Francia. Oggi, una parte molto significativa dei boschi pubblici non è gestita con un piano vigente, come impone la legge (solo il 14,7% della superficie ha un piano di dettaglio – Tabacchi e Gasparini, 2011). Le foreste abbandonate e invecchiate creano non pochi problemi di stabilità dei versanti e vulnerabilità agli incendi. Il rapporto tra le attività di utilizzazione forestale e l’industria del legno si è praticamente disarticolato. L’Italia ha il tasso di prelievo per ettaro di superficie forestale più basso dell’Unione Europa (UE), se si esclude Cipro (Eurostat, 2013); ben 20 paesi dell’UE, tra i quali Francia, Regno Unito e Germania, prelevano oltre tre volte la quantità di legname a ettaro rispetto all’Italia. Il contributo del settore forestale al Prodotto Interno Lordo è sceso, in base ai dati Istat, sotto lo 0,01% e sempre più viene a concentrarsi nella legna da ardere (più del 70% dei prelievi), il prodotto a minor valore aggiunto ottenibile dai boschi; questa è la logica opposta a quella dell’economia circolare, in base alla quale le biomasse a fini energetici dovrebbero derivare secondo il principio “a cascata” dal riutilizzo dei prodotti a fine ciclo e degli scarti di produzione. L’Italia è il secondo importatore europeo di legname e probabilmente il primo di legname illegale (Ciccarese et al., 2009). Si stanno perdendo professionalità, cultura e paesaggi culturali legati alla gestione delle foreste, nonché l’opportunità di garantire un concreta e attiva tutela del territorio e generare occupazione e imprenditorialità per molte aree interne del paese, una negazione di fatto dei principi della bio-economia.
Peraltro, l’attuale base normativa risulta inadeguata rispetto alle nuove normative comunitarie e alle sempre più crescenti necessità economiche ed esigenze sociali. Essa risulta insufficiente a garantire un’efficace e diffusa attuazione sul territorio nazionale delle azioni necessarie all’adempimento degli impegni comunitari e internazionali in materia ambientale, energetica e climatica assunti dal nostro Paese.
Alcuni segni di cambiamento
Non solo per un atteggiamento che enfatizza l’”ottimismo della volontà”, ma anche per un misurato “ottimismo della ragione” è possibile evidenziare alcuni segni di un cambiamento nell’azione politica dell’amministrazione centrale dello Stato nella direzione di dare un peso alle politiche forestali, tramite un nuovo ruolo di coordinamento e indirizzo istituzionale per le competenti in materia di programmazione forestale.
Un elemento di svolta si può individuare nel 2008 con la redazione e approvazione da parte della Conferenza Stato-Regioni (Csr) del “Programma Quadro per il Settore Forestale” (Aavv, 2008), che ha concretizzato una prima importante azione di coordinamento e indirizzo politico per la materia forestale. Tale attività, come le successive che negli anni si sono concretizzate presso il Mipaaf, hanno trovato avvio grazie alle politiche di sviluppo rurale e quindi alle esigenze e necessità amministrative e operative dettate dalle procedure comunitarie che le programmazioni richiedono, spesso in modo urgente, al fine di non perdere preziose risorse di cofinanziamento (Cesaro et al., 2013). Particolare attenzione è stata quindi rivolta alla gestione responsabile delle foreste e alla tutela attiva del territorio, nonché allo sviluppo delle filiere forestali, industriali ed energetiche. Obiettivo del processo in corso dal 2009 presso il Ministero è quello di promuovere e incentivare una gestione forestale attiva al fine di tutelare il territorio, contenere il cambiamento climatico, rafforzare la filiera forestale dalla sua base produttiva garantendo, nel lungo termine, la multifunzionalità e la diversità delle risorse forestali. Tutto questo attraverso differenti azioni che hanno trovato e trovano sempre e comunque nello sviluppo rurale le uniche risorse finanziarie messe in campo.
Con il terzo periodo di programmazione (2007-2013), la politica di sviluppo rurale è ufficialmente diventata il principale strumento di attuazione delle politiche forestali a livello comunitario e nazionale. Le misure forestali hanno assunto un ruolo “trasversale” nella strategia di sviluppo rurale riconoscendo l’importanza della gestione forestale quale strumento di sviluppo socioeconomico sostenibile delle aree rurali, di tutela e conservazione dell’ambiente e della biodiversità. In totale, per il periodo 2007-2014, a livello nazionale le risorse impegnate dai Psr regionali per le misure forestali hanno raggiunto circa il 14% (circa 2.452 milioni) del finanziamento totale disponibile per lo sviluppo rurale (Cesaro et al, 2013).
Per il nuovo periodo di programmazione 2014-2020 le foreste, le attività forestali e la selvicoltura formeranno ancora di più parte integrante e operativa della politica di sviluppo rurale. Gli interventi e le misure previste dal Regolamento CE n. 1698/2005 sono organicamente inseriti nella struttura programmatica e diventano, di conseguenza, indispensabili per il raggiungimento delle sei priorità unionali, degli obiettivi più generali promossi dalla Strategia Europa 2020 e, soprattutto, per il rispetto dagli impegni internazionali sottoscritti con il Protocollo di Kyoto in materia di lotta al cambiamento climatico. La nuova strategia di sviluppo rurale post 2013, infatti, prevede che la lotta al cambiamento climatico e l’uso sostenibile del suolo debbano includere anche lo sviluppo delle aree forestali e la gestione sostenibile delle foreste. Oggi le amministrazioni regionali sono chiamate, nella redazione dei propri Psr, a utilizzare e valorizzare ancora più efficacemente gli strumenti proposti per il settore forestale dal regolamento comunitario.
Nell’ambito delle proprie competenze di indirizzo per la materia forestale, il Mipaaf, congiuntamente con il Mattm, e in coordinamento con le amministrazioni regionali e i principali portatori di interesse nazionali sulla materia forestale, sta oggi portando avanti attraverso il Dipartimento delle politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale e il Dipartimento delle politiche competitive, della qualità agroalimentare, ippiche e della pesca, numerose azioni volte non solo a promuovere la pianificazione e gestione forestale attiva ma anche a riconoscere il ruolo della selvicoltura quale strumento fondamentale per garantire una tutela diffusa del territorio, dell’ambiente e del paesaggio. Più concretamente possono essere segnalate le seguenti iniziative:
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nel 2013 sono state realizzare da Mipaaf e Mattm le “Linee guida per la valutazione del dissesto idrogeologico e la mitigazione attraverso misure e interventi in campo agricolo e forestale” (Agea-Ispra-Rete Rurale Nazionale, 2013), quale strumento di indirizzo per le regioni;
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nel 2014 è stato dato avvio dal Mipaaf a un processo di revisione e semplificazione della normativa nazionale per il settore forestale, che sostituisca e aggiorni il D.L. 227 del 2001, avviato dal Tavolo di filiera legno (D.M. Mipaaf n. 18352 del 14 dicembre 2012 e D.D. Mipaaf n. 41371 del 10 settembre 2013), al fine di promuovere, incentivare e favorire la gestione forestale attiva dei boschi nazionali, introducendo azioni di semplificazione amministrativa e di innovazione nei processi autorizzativi, per garantire una gestione sostenibile e diffusa sul territorio e riconoscere ai titolari della gestione i servizi ecosistemici generati nel loro lavoro. Inoltre, si vuole realizzare un adeguamento agli indirizzi internazionali dei processi politici e decisionali nazionali e locali in materia forestale;
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nel 2014 è stato approvato, il 27 novembre in Csr, il documento “Quadro nazionale delle Misure forestali nello sviluppo rurale 2014-2020” quale strumento di coordinamento e di indirizzo strategico nazionale per la programmazione Feasr 2014-2020, a supporto delle Autorità di Gestione regionali nell’attivazione nei propri Piani di Sviluppo Rurale delle Misure forestali previste dal Reg. UE n. 1305/2013. Obiettivo del quadro è dare piena attuazione alla politica forestale nazionale definita nel Pqsf, promuovendo un efficace utilizzo dei fondi comunitari al fine di incentivare e garantire una gestione forestale sostenibile e incrementare la pianificazione forestale delle proprietà pubbliche e private;
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nell’aprile 2015 il Ministro Mipaaf ha formulato una nuova proposta al Ministro Mattm per realizzare un coordinamento interministeriale nella definizione di baseline di riferimento nella generazione, con progetti agro-forestali, di crediti di carbonio commerciabili in mercati volontari locali
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nell’aprile 2015 il Mipaaf ha partecipato, con un ruolo consultivo, al Gruppo di lavoro Mibact per la revisione del Dpr 139/2010 e dell’art. 149 del Codice Urbani, al fine di individuare azioni agro-forestali volte a garantire una gestione attiva e sostenibile del territorio che possano essere esonerate dall’autorizzazione paesaggistica e prevederne un processo semplificato;
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sempre nella primavera del 2015 vanno registrati due marginali ma significativi eventi: è stata ricostituita la Commissione Nazionale per il Pioppo e si sta procedendo ad attribuire ufficialmente al vice-Ministro del Mipaaf Andrea Olivero le competenze per il settore forestale (in precedenza il settore forestale, a differenza per esempio di montagna e agro-energie, non era menzionato tra le competenze dei politici ai vertici del Ministero). Con tale attribuzione ci si augura che possa così prendere forma, nel rispetto delle competenze e dei ruoli che la Costituzione definisce circa i rapporti fra Stato e Regioni, un unico punto di riferimento istituzionale, di coordinamento e di indirizzo per le politiche forestali nazionali.
In questo contesto di cambiamento è di grande interesse, un interesse che trascende il mero problema della riorganizzazione funzionale dei corpi di polizia, la questione dell’accorpamento del Cfs nella Polizia di Stato, come previsto dal Disegno di Legge Madia approvato in Commissione al Senato. L’ipotesi di accorpamento ha sollevato una valutazione critica, non solo da una componente interna del Corpo4, ma anche nel mondo ambientalista e accademico5
Accorpamento non significa necessariamente perdita di campi d’azione, ma certamente significa perdita di immagine e visibilità di quel settore della pubblica amministrazione che da più di 190 anni identifica la presenza dell’azione centrale dello Stato nel settore forestale.
Tuttavia, ritornando a una precedente considerazione, il fatto che il Mipaaf abbia un vuoto di elaborazione politica, di presenza e di rappresentanza, nazionale e internazionale, del settore forestale italiano è in gran parte dovuto alla delega al Cfs di tali funzioni. Funzioni che il Mipaaf non ha saputo internalizzare nel suo ruolo istituzionale e che però il Cfs non ha poi saputo, o non ha potuto o non ha voluto, assumere e ricoprire fino in fondo.
È anche dall’esito della discussione parlamentare sul futuro del Cfs che potremmo quindi capire se i segni di cambiamento precedentemente richiamati rappresentano quella svolta che molti auspicano nelle politiche forestali, nella direzione di una bio-economia basata sull’utilizzo attivo e responsabile delle risorse naturali come componente essenziale dello sviluppo non solo rurale ma anche del sistema paese.
Riferimenti bibliografici
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Agea-Ispra-Rete Rurale Nazionale, 2013, Linee guida per la valutazione del dissesto idrogeologico e la mitigazione attraverso misure e interventi in campo agricolo e forestale. Ispra, (85), Roma, p. 110 [pdf]
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United Nations Environment Programme, 2011, Towards a Green Economy: pathways to sustainable development and poverty eradication. Unep, Nairobi, p.631
- 1. I due concetti sono in parte diversi, anche se usati spesso come sinonimi. L’economia circolare fa riferimento più a un modello economico dove le materie prime, una volta estratte, vengono utilizzate e ripetutamente riciclate. La bioeconomia fa riferimento più a un’economia basata sull’utilizzazione sostenibile di risorse naturali rinnovabili e sulla loro trasformazione in beni e servizi finali o intermedi.
- 2. Si potrebbe inoltre ricordare che anche la Protezione Civile, alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri con competenze nel campo degli incendi boschivi e il Ministero dell’Economia e delle Finanze (vd. le problematiche dell’industria del legno e della carta) hanno un ruolo non marginale nella regolazione del settore.
- 3. Si pensi, solo per fare due esempi, all’applicazione degli obblighi della Due Diligence alle attività forestali imposti dal Reg. 995/2010 o quelli connessi alla statistica e al reporting nel settore definiti in sede di Forest Europe.
- 4. Le opposizioni vengono in particolare dalla struttura dirigenziale del Cfs, una componente non molto proporzionata ai dipendenti del Corpo (85 dirigenti apicali su meno di 8.000 dipendenti, quando l’Arma dei Carabinieri ne ha 400 su 108.000 dipendenti – Perotti e Teoldi, 2014).
- 5. Vd. l’appello di 17 organizzazioni ambientaliste "La Forestale non venga accorpata alla Polizia di Stato" [link] e la dichiarazione della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale.