Nuove povertà, spreco e sicurezza alimentare in Italia

Nuove povertà, spreco e sicurezza alimentare in Italia

Introduzione

Una recente special issue del British Food Journal (Caraher e Cavicchi, 2014) ha esaminato il fenomeno della sicurezza alimentare, il ruolo dei banchi alimentari e l’assistenza agli indigenti nei paesi occidentali. Molti banchi hanno legato la propria nascita al fenomeno delle eccedenze alimentari, con la consapevolezza che quanto veniva prodotto in eccesso dall’intera filiera, poteva potenzialmente essere redistribuito a chi aveva più bisogno. Tuttavia, l’evidenza di una crescita sia dei punti di distribuzione sia del numero di assistiti durante la crisi economica, pone il problema del ruolo di questi enti. Come sostenuto da Winne (2009): “dobbiamo esaminare seriamente il ruolo dei banchi alimentari; questo implica che non possiamo continuare a lodarne la crescita come segno della nostra generosità e carità, ma indurci a riconoscere questo fenomeno come un simbolo del fallimento della nostra società nel delegare ai governi la responsabilità per risolvere I problemi di lotta alla fame, di insicurezza alimentare e di povertà (p. 184).
Questo lavoro ha lo scopo di delineare il fenomeno della povertà in Italia a partire dalle ricerche e dai dati più recenti sul tema per comprendere quali siano le principali criticità da affrontare da un punto di vista di policy. In particolare ci si sofferma su che senso abbia parlare di sicurezza alimentare per il nostro paese nel 2015 e che tipo di iniziative possano essere realizzate per contrastare lo spreco e migliorare la gestione delle eccedenze.

La povertà in Italia: il “day by day”, “l’Italia della rinuncia”, le “false partenze” e il “capitale inagito”

L’ultimo rapporto sulla povertà in Italia, curato dall’Istat e pubblicato a luglio 2014 fornisce un quadro del paese particolarmente drammatico con peggioramenti preoccupanti registrati tra il 2012 e il 2013. In sintesi, nell’ultimo anno analizzato, 3 milioni e 230 mila famiglie (pari al 12,6% del totale delle famiglie) sono in condizione di povertà relativa1 e 2 milioni e 28 mila (il 7,9%) lo è in termini assoluti2. In totale ci sono 10 milioni e 48 mila persone (16,6% della popolazione) in povertà relativa e 6 milioni e 20 mila persone in povertà assoluta (tra questi, 1 milione e 434 mila sono minori). Ma se la povertà relativa riporta dati stabili rispetto al 2012, è la povertà assoluta che cresce, coinvolgendo 1 milione e 206 mila persone in più, fenomeno registrato soprattutto nel sud Italia. Sono le famiglie con più di tre figli a soffrire di più la crisi economica; altre caratteristiche che rendono più esposti i nuclei familiari sono la presenza di ultrasessantacinquenni e di un capofamiglia con titolo di studio medio-basso, operai o in cerca di occupazione.
Questa la fotografia realizzata dall’Istituto Nazionale di Statistica. Negli ultimi anni tuttavia sono stati pubblicati con cadenza periodica anche altri autorevoli rapporti di ricerca sulla situazione socio-economica del paese, con lo scopo di approfondire la conoscenza di questi fenomeni, individuandone le cause e gli effetti sul contesto economico e sociale.
Uno di questi è il rapporto “Italia 2015” dell’Eurispes, che sottolinea la presenza della “sindrome day by day”. Si tratta, secondo l’istituto di ricerca, di una difficoltà vissuta da parte del 47,2% delle famiglie italiane che non riescono ad arrivare a fine mese con i propri redditi e sono costrette a vivere “alla giornata”. Soltanto in un anno, considerando le rilevazioni per il rapporto 2014, la condizione economica delle famiglie risulta peggiorata nel 76,7% del campione intervistato di 1042 cittadini. Il potere d’acquisto si è eroso per 7 famiglie su 10 e sono in molti a optare per punti vendita più economici rispetto alle abitudini pregresse, per acquistare cibo e abbigliamento: aumenta infatti la percentuale di chi fa riferimento ai discount per la spesa alimentare, circa il 70% contro il 57% del rapporto 2014 riferito al 2013, e la fedeltà a una marca è un comportamento sempre meno diffuso, visto che l’81,7% è disponibile a cambiare un prodotto alimentare se più conveniente. Eurispes (2015) riporta anche una serie di opinioni rispetto a fiducia, aspettative e motivazioni. I valori sono in generale negativi e in peggioramento rispetto all’anno precedente.
Queste tendenze sono confermate anche dal rapporto Coop 2014 “Consumi e Distribuzione”. In questo caso si parla di “Italia della rinuncia”. Le elaborazioni di dati Istat dimostrano che il 43% della popolazione italiana non riesce a sostenere spese impreviste di 800 euro, il 51% non può permettersi una settimana di ferie lontano da casa, il 14% non riesce a pagare mutui, affitti e bollette, il 25% dei residenti nel Mezzogiorno non può permettersi un pasto proteico una volta ogni due giorni, e il 31% non riesce ad arrivare a fine mese con le proprie entrate.
Un altro documento significativo è il rapporto Caritas (2014) sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia. Il rapporto precedente, pubblicato nel 2012, era stato intitolato “I ripartenti” sottolineando l’importanza di un atteggiamento ottimista non soltanto verso la ripresa economica ma anche e soprattutto un desiderio di rimettersi in gioco da parte di molti assistiti che richiedevano formazione, riqualificazione professionale e orientamento al lavoro. Sembra che queste ripartenze non siano avvenute, o almeno non abbiano avuto il successo sperato, scontrandosi con evidenti condizioni di sfruttamento, sotto-retribuzione e ambienti di lavoro vicini al degrado. Per questo il titolo del rapporto 2014 è stato “False Partenze”, dove i dati riportati dai curatori riguardano l’emigrazione dei “cervelli” o comunque dei laureati e i ritorni dei lavoratori dal Centro Nord verso il Sud Italia da dove provenivano, per un flusso migratorio inverso che sarebbe stato difficilmente prevedibile prima della crisi.
Questo giudizio va nella stessa direzione di quanto espresso dal 48° Rapporto Censis (2014) che parla del “capitale inagito”, ovvero della dissipazione del capitale umano che non riesce a trasformarsi in energia lavorativa. In particolare, l’incapacità di valorizzare i talenti emerge sia dal numero dei disoccupati (3 milioni), sia dagli inattivi “perché scoraggiati” (1,8 milioni) sia dalle persone che pur non cercando attivamente un impiego sarebbero disposte a lavorare (altri 3 milioni). La sottoutilizzazione e il sotto-inquadramento dei lavoratori sono elementi che influiscono non solo sulla povertà delle famiglie ma anche sullo sfaldamento del tessuto sociale.
I dati che riguardano gli assistiti dalla Caritas (Caritas, 2014a) delineano un passaggio dalla prevalenza di richieste legate ai beni e servizi materiali, a istanze più nette e relative all’orientamento e al segretariato sociale rispetto al periodo pre-crisi. Ma il dato relativo al profilo degli assistiti, se paragonato con gli anni passati, identifica una presenza crescente degli italiani assieme al coinvolgimento del ceto medio e di gruppi sociali tradizionalmente estranei al disagio sociale. Anche i gruppi sociali che fino a qualche anno fa potevano ritenersi indenni dagli effetti della crisi, hanno visto progressivamente intaccati i propri risparmi e hanno fatto ricorso a forme diverse di assistenza sociale.

La sicurezza alimentare in Italia

Nell’ambito della Politica Agricola Comunitaria, la Commissione Europea fin dal 1987 ha finanziato la distribuzione di prodotti alimentari destinati alla popolazione indigente. L’intervento rispondeva all’obiettivo di ridurre il livello di insicurezza alimentare riscontrato in Europa, cercando di perseguire un adeguato livello di sostentamento e di coesione sociale. In Italia esso è stato applicato dall’Organismo Pagatore Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (Agea), per il tramite di sette Organizzazioni caritative, formalmente riconosciute ed iscritte al relativo Albo istituito presso tale Agenzia (Agea, 2013).
I dati sull’assistenza agli indigenti forniti dall’Agea rivelano che la consistenza degli indigenti “assistiti” è incrementata, passando dai 2.763.379 del 2010, ai 3.380.220 del 2011, ai 3.686.942 del 2012 ed ai 4.068.250 del gennaio 2013. Tra il 2010 ed il 2013 gli indigenti sono cresciuti del 47,2 % pari a 1.304.871 persone. Tra il 2012 e il 2013, le fasce di età che hanno registrato la crescita maggiore sono i bambini da 0 a 5 anni (passati da 379.799 a 428.587) e gli anziani sopra i 65 anni di età (da 508.451 a 578.583), rispettivamente incrementati del 13% e del 14%.
Un rapporto curato da Campiglio e Rovati (2009) aveva individuato alcune cause che avrebbero portato a questo incremento di domanda per assistenza: rottura di precedenti legami familiari (tra figli e genitori o tra coniugi) a seguito di conflitti, dipendenze, gravidanze e nascite indesiderate, abbandoni, separazioni, scelte migratorie. Queste cause, insieme ad altre situazioni come la condizione di salute che non permette di lavorare o di trovare occupazione, e nel caso delle donne la nascita di figli in mancanza di forme contrattuali che tutelino la maternità, se associate a situazioni familiari già precarie, generano ulteriore incertezza, conflitti relazionali ed effetti depressivi.
Tuttavia, nonostante durante il periodo di crisi economica sia cresciuta la richiesta di alimenti da parte di indigenti, secondo la Caritas (2014) nel nostro paese non ci troviamo di fronte a una emergenza alimentare in senso stretto da imputare a una riduzione delle quantità di cibo disponibile, quanto a una emergenza economica che ha portato alla riduzione di tutti i consumi: rinunciare a fare la spesa accontentandosi del pacco di viveri, visto che altre spese come le bollette o l’affitto sono difficilmente comprimibili nelle situazioni familiari descritte in precedenza, è il segnale di questo fenomeno. Infatti, l’unicità della crisi attuale deriva dalla singolarità di alcune dinamiche economiche: si assiste a un calo del reddito e dei consumi, e quindi a un calo della spesa totale delle famiglie, che, vedendo progressivamente ridotto il proprio potere di acquisto, decidono di ridurre anche le spese destinate a quei beni che un tempo erano ritenuti come “incomprimibili”, come la spesa alimentare appunto (Romano 2011).
Ma la povertà alimentare non è solo quella relativa al livello di approvvigionamento. Forse un fenomeno ancora più importante da sottolineare è quello del possibile impatto sulla malnutrizione. Le patologie relative a diete inadatte per i nuclei familiari poveri devono essere considerate per comprendere come in un paese avanzato, il raggiungimento di assunzione energetica sufficiente non significa ottenere in automatico un’alimentazione adeguata e bilanciata dal punto di vista nutrizionale. In questo senso, destano preoccupazione i recenti dati elaborati da Nomisma (2015), sul consumo di ortofrutta in Italia. Se è vero che esiste una certa correlazione tra scarso consumo di frutta e verdura e malattie, il calo in atto in Italia vede la sua origine molto prima della crisi del 2008. Dal 2000 il consumo pro-capite annuale degli italiani si è ridotto di 17 kg, in media 1,5 kg in meno ogni anno, ma con un trend costante e quindi non solamente imputabile alla crisi economica. Tuttavia la situazione sul rischio di malnutrizione indotto dalla crisi è ancora oggetto di studio e i dati sono talvolta contrastanti. Per esempio, il rapporto elaborato dall’Agenzia Regionale di Sanità della Toscana (Ars, 2013) evidenzia che in Toscana, come in altre regioni, il consumo di carne bovina è diminuito, così come il trend storicamente crescente delle persone sovrappeso. È ovvio che questi fenomeni possono avere potenziali effetti benefici sulla salute. Contemporaneamente però sono diminuiti anche i consumi di frutta, pesce e latte e sembra opportuno focalizzare l’attenzione sulla riduzione in generale dei consumi alimentari che si distribuisce diversamente tra diverse classe sociali: vi è una prevalenza di obesità e sovrappeso maggiore nelle classi meno istruite.
Dati specifici sull’eccesso di peso tra i bambini e i ragazzi fino a 17 anni vengono riportati da Istat-Unicef (2013): i principali soggetti a rischio sono coloro che vivono al Sud (34,6% rispetto al 22,7 del Nord-Ovest, al 21,1% del Nord–Est, al 24,6% del Centro e al 31,1% delle Isole), chi svolge poca attività fisico-motoria, nonché chi vive in famiglie con risorse economiche scarse o insufficienti e soprattutto con livelli di istruzione dei genitori più bassi.

Sprechi ed eccedenze

Come è stato sottolineato da Rovati e Campiglio (2009), il fenomeno di scarsità alimentare di cui soffre una parte della popolazione va di pari passo non solo con lo spreco alimentare di gran parte di essa, ma anche con la sovrapproduzione e l’eccesso di offerta da parte delle imprese (eccedenze), per ragioni riconducibili sia alle storiche distorsioni avvenute nell’ambito della Pac, sia a errori nella pianificazione e gestione da parte delle imprese nei vari stadi della filiera agroalimentare; questi errori sono propri del processo produttivo e connessi alla difficoltà di gestire efficacemente le scadenze del cibo. A questi si aggiungono errori nella progettazione del packaging e più in generale delle caratteristiche estrinseche dei prodotti, oltre ai rischi legati a iniziative di marketing e di lancio dei prodotti che non sempre trovano riscontro nella preferenza dei consumatori generando eccedenze di invenduto.
Nonostante le due parole siano usate spesso come sinonimi, recentemente Garrone et al. (2012) hanno spiegato la differenza tra eccedenza e spreco. I ricercatori del Politecnico di Milano definiscono “eccedenza alimentare” tutti i prodotti alimentari o il cibo commestibili e sicuri che per varie ragioni non sono acquistati o consumati dai clienti e dalle persone per cui sono stati prodotti, trasformati, distribuiti, serviti o acquistati (escludendo gli scarti della lavorazione). “Spreco alimentare” è l’eccedenza alimentare che non è recuperata per il consumo umano (ottica sociale), per l’alimentazione animale (ottica zootecnica), per la produzione di beni o energia (ottica ambientale).
Sebbene sia evidente da tempo la generazione di eccedenze alimentari lungo la filiera, studi esplorativi su questo fenomeno in Italia sono stati pubblicati solo negli ultimi anni. In particolare, negli ultimi mesi, anche alla luce dell’interesse crescente nei confronti di Expo, è stata data particolare enfasi al paradosso degli sprechi in un momento di crisi economica. Ma le stime di enti e soggetti diversi non sempre coincidono, anche a causa dell’utilizzo di metodologie di calcolo diverse, e sembrano necessari ulteriori ricerche per quantificare esattamente il fenomeno3.
Per esempio, il lavoro di Segrè e Falasconi (2011) stimava in 20 milioni di tonnellate il livello di eccedenza dal campo al punto vendita, confrontando la quantità di cibo a disposizione di ogni italiano derivante dal food balance sheets della Fao, con la quantità effettivamente consumata fornita dall’Inran. Garrone et al. (2012) stimavano invece in 7 milioni di tonnellate le eccedenze (considerando solo ciò che è commestibile), basandosi su interviste con testimoni chiave e su un survey condotto da AC Nielsen. La metodologia di calcolo è diversa e una certa prudenza sul dato reale è necessaria. Per questo motivo, Coldiretti sul proprio sito web (www.coldiretti.it), fa riferimento a un’ampia forbice che va da 10 a 20 milioni di tonnellate. Indipendentemente dall’accuratezza delle stime questo fenomeno durante la crisi sembra orientato verso una riduzione, come si deduce in generale dalla diminuzione dei volumi di rifiuti prodotti (Coop, 2014). Se è vero quanto riporta l’osservatorio Waste Watcher (2013) ovvero che il 42% degli sprechi alimentari si registra in famiglia gettando 7 euro di alimenti a settimana, si può tuttavia ritenere che questo dato si stia pian piano riducendo anche a fronte della contrazione generale dei consumi.
Inoltre, l’introduzione di abitudini come il controllo della data di scadenza sulle confezioni o spese più mirate, riducendo le quantità, hanno aiutato le famiglie a ridurre gli sprechi e ad ottimizzare la gestione della propria dispensa come ha evidenziato anche una recente indagine di Coldiretti/Ixè (2015): 6 italiani su 10 hanno tagliato gli sprechi durante la crisi facendo più attenzione e utilizzando anche gli avanzi nel pasto successivo.

La strategia dell’UE e dello Stato Italiano, il ruolo degli enti assistenziali

Sono molte quindi le criticità riguardanti povertà, sicurezza alimentare e sprechi che l’Italia, come altri paesi europei, deve ancora affrontare. In questo ultimo paragrafo ci soffermiamo sugli interventi di policy che sono stati messi in atto dall’UE e dallo Stato Italiano e il ruolo degli enti assistenziali.
Come abbiamo ricordato in precedenza, la Commissione Europea a partire dal 1987 tramite il Pead4 è riuscita a sostenere le associazioni caritative e assistenziali, sbloccando le scorte agricole eccedentarie derivanti dalla Pac. Con il cambiamento di quest’ultima il Programma è stato modificato e sono stati compiuti acquisti di derrate sul mercato per evitare distorsioni dei prezzi. La gestione italiana attraverso l’Agea redistribuiva a 7 enti (Associazione Banco Alimentare di Roma, Associazione Sempre Insieme per la Pace, Caritas Italiana, Comunità di Sant’Egidio, Croce Rossa Italiana, Fondazione Banco Alimentare Onlus e Fondazione Banco delle Opere di Carità) ha permesso di distribuire alimenti a milioni di persone. Solo nel 2013 le stime sono state di 15.000 strutture caritative servite e 4 milioni di bisognosi, di cui il 70% italiani (Marsico e Frigo, 2014).
Il Pead si è chiuso alla fine del 2013 a causa di alcuni fattori come l’imprevedibilità delle scorte disponibili legata alle riforme della Pac e la pressione di alcuni paesi che erano già dotati di programmi di assistenza alle famiglie tramite trasferimento di redditi minimi e che ritenevano più giusto contribuire a misure più ampie di intervento sociale e non solo in ambito alimentare. È per questo che a fine 2013 l’accordo tra Parlamento e Consiglio dell’UE ha introdotto il Fondo di aiuti europei agli indigenti (Fead) che vuole contribuire all’inclusione sociale delle persone svantaggiate. Si è passati quindi da un programma volontario riferito solo alle politiche agricole a un programma obbligatorio legato alle politiche sociali (Santini e Cavicchi, 2014).
Agli indigenti, attraverso l’approvazione dei programmi nazionali (per cui sono stati messi a disposizione 3,8 miliardi di euro fino al 2020), viene offerta un’assistenza materiale che riguarda generi alimentari, abiti e altri articoli per l’igiene personale. Si tratta di un programma che deve andare di pari passo con politiche nazionali orientate all’integrazione sociale. Le autorità nazionali possono decidere se acquistare il cibo e i beni e fornirli a organizzazioni partner oppure se finanziare direttamente queste ultime.
In Italia il Programma Operativo riguarda quattro diversi obiettivi su cui intervenire: insieme alla povertà alimentare si tratta la deprivazione materiale di bambini e ragazzi in ambito scolastico, la deprivazione alimentare ed educativa di bambini e ragazzi in zone dell’Italia svantaggiate, e la deprivazione materiale dei senza dimora e altre persone fragili.
Gli interventi sulla povertà alimentare, attuati in coordinamento con il Fondo per la distribuzione di derrate alimentari alle persone indigenti, consistono in distribuzioni di beni alimentari tramite un acquisto da parte di Agea, con un successivo deposito presso le organizzazioni partner. Queste possono redistribuire gli alimenti attraverso cinque canali: a) Organizzazione di servizi di mensa, b) Distribuzione di pacchi alimentari, c) Empori sociali, d) Distribuzione tramite unità di strada di cibi e bevande e) Distribuzione domiciliare.
Il funzionamento di questo meccanismo di redistribuzione è possibile solo con la presenza capillare di reti di aiuto basate sulla presenza di volontari e di contatti informali, attivi tramite enti e Ong come quelle citate in precedenza. Queste reti hanno contribuito negli ultimi anni a contenere gli effetti della scarsità di reddito poiché, tramite l’assistenza alimentare hanno conferito una sorta di reddito minimo che è andato a sopperire all’assenza di politiche pubbliche efficaci (Marsico e Frigo, 2014).
Il nuovo funzionamento dei fondi per gli indigenti sembra riconoscere questa attività consolidata sul territorio.

Considerazioni conclusive

Come abbiamo avuto modo di descrivere brevemente, la povertà alimentare nel 2015 riguarda fenomeni che non sono ascrivibili semplicemente al tradizionale concetto di approvvigionamento alimentare. La malnutrizione caratterizzata dalla coesistenza di obesità, fame e carenze di micronutrienti essenziali per la salute umana, è un fenomeno sempre più diffuso e correlato alla povertà e un monitoraggio di questo trend durante la crisi deve essere considerato un obiettivo di policy fondamentale. Infatti, come riportato recentemente da Caraher e Cavicchi (2014), se una persona non può permettersi la qualità di cibo che i suoi vicini o contemporanei si possono permettere, allora questa persona è da considerarsi in una condizione di povertà alimentare.
D’altra parte possiamo notare come la crisi abbia rappresentato un punto di svolta, per alcuni versi, positivo. I dati commentati in questo lavoro sembrano rivelare una maggiore efficienza di spesa a livello domestico e una tendenza alla riduzione degli sprechi, non solo nelle singole unità familiari. Infatti, se da un lato i responsabili di acquisto hanno rivalutato l’importanza del cibo per motivazioni legate alla propria esperienza e allo stigma sociale di certi comportamenti, dall’altra anche la Grande Distribuzione Organizzata e alcune aziende di trasformazione hanno iniziato percorsi di assistenza diretta o indiretta agli indigenti.
Queste iniziative di tipo privato si sono aggiunte agli interventi delle reti di assistenza che storicamente hanno cercato di recuperare le eccedenze all’interno del programma Pead, finanziato dalla Commissione Europea a partire dalla fine degli anni ’80.
Il ruolo chiave delle reti di assistenza e degli enti no-profit è indiscutibile, non solo per l’importanza rivestita negli ultimi anni nel sopperire allo scarso livello di reddito di milioni di persone attraverso la fornitura di cibo, ma anche come possibilità di inclusione sociale. La stessa istituzione del Fead e l’implementazione a livello nazionale, che prevedono il passaggio da una politica di aiuto prevalentemente alimentare ad una politica di assistenza sociale più ampia, sembrano riconoscerne il valore.
Tuttavia molta strada deve ancora essere fatta e rimane aperta la domanda sul loro ruolo nel lungo periodo e sulla possibilità di demandare a questi enti la soluzione dei problemi riguardanti la povertà. Questo tema non è sentito solo in Italia: il dibattito si sta accendendo in molti paesi sviluppati e non solo in quelli più colpiti dalla crisi.
Il mondo della ricerca si sta mobilitando per studiare l’efficacia e l’efficienza di numerose strategie di partenariato pubblico-privato (Ppp) che possono essere rintracciate sia a livello nazionale e locale, sia all’estero. L’obiettivo seguito da molti ricercatori è anche quello di comprendere come la lotta alla povertà possa essere aiutata da iniziative di recupero delle eccedenze, di riduzione degli sprechi e di educazione alimentare, tenendo in considerazione le differenze culturali e territoriali e quindi la difficoltà di replicare processi virtuosi in luoghi diversi.

Riferimenti bibliografici

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  • Agenzia Regionale di Sanità della Toscana (2013), Rapporto: Crisi economica, stato di salute e ricorso ai servizi in Toscana. Documenti dell’agenzia Regionale di Sanità della Toscana, n. 73. Disponibile online: [link]

  • Campiglio L., Rovati G. (2009), La povertà alimentare in Italia: prima indagine quantitativa e qualitativa. Guerini e associati, Milano

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  • Istat-Unicef (2013), Bambini e adolescenti tra nutrizione e malnutrizione problemi vecchi e nuovi in italia e nel mondo in via di sviluppo. Disponibile online: [pdf]

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  • 1. La soglia di povertà relativa è quella che considera povera una famiglia di due persone adulte con un consumo inferiore alla media procapite nel Paese. Nel 2013 questa spesa è risultata pari a 972,52 euro mensili (Istat, 2014).
  • 2. La soglia di povertà assoluta rappresenta la spesa minima necessaria per acquisire i beni e servizi che vengono considerati essenziali per una famiglia per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. Nel 2013, un adulto (18-59 anni) veniva considerato assolutamente povero se la sua spesa era inferiore o pari a 820,19 euro mensili in un’area metropolitana del nord Italia, a 736,20 euro in un piccolo comune settentrionale e a 546,36 euro in un piccolo comune meridionale (Istat, 2014).
  • 3. Per una breve rassegna su questi argomenti si veda Garrone et al. (2014).
  • 4. Il Programma europeo per la distribuzione di derrate alimentari agli indigenti (o Pead - Program for European aid to the deprived) fu introdotto da Jacques Delors per affrontare il problema della povertà in maniera diretta attraverso la leva alimentare. Esso permise di sbloccare le eccedenze alimentari e le scorte di intervento eccedentarie per redistribuirle a titolo di aiuto alimentare agli indigenti. Questo Programma ha avuto il merito di sostenere le associazioni caritative e la societa civile nel garantire l’accesso a beni primari ai cittadini indigenti dell’Unione europea.
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