Giuseppe Orlando e le origini della scuola di economia e politica agraria di Ancona

Giuseppe Orlando e le origini della scuola di economia e politica agraria di Ancona

Questo testo, che Agriregionieuropa pubblica nella ricorrenza del ventesimo anniversario della scomparsa del prof. Alessandro Bartola, è la trascrizione letterale, con alcuni piccoli aggiustamenti formali, dell'introduzione di Alessandro Bartola al seminario Inea sul tema: Dopo la riforma della Pac e il referendum sul Maf: quali politiche per l'agroalimentare in Italia?, tenutosi ad Ancona il 14 giugno 1993. L’evento era dedicato alla memoria di del prof. Giuseppe Orlando, a sua volta docente di economia agraria ad Ancona, sotto la cui guida Bartola aveva iniziato la sua carriera scientifica. Nella sua spontaneità, questo testo è particolarmente interessante per cogliere alcuni elementi caratteristici del pensiero scientifico di entrambi e per comprendere come l'incontro tra Bartola e Orlando, due studiosi diversi di età e di carattere, fosse potuto risultare particolarmente fecondo.

Introduzione

Vorrei dire due parole sulla figura di Giuseppe Orlando a cui abbiamo voluto dedicare questo nostro seminario. Io sono stato in un certo senso il suo primo allievo qui nell'Università di Ancona. L'ho conosciuto al termine della mia carriera universitaria: di fatto, economia e politica agraria fu il mio ultimo esame nella Facoltà di Economia e Commercio. Dall'esito fortunoso, diciamo così, di questo esame è dipesa poi la mia collaborazione con lui.
Del gruppo di lavoro coordinato dal professor Orlando, mi piace ricordarlo, facevano parte anche altri ricercatori: fra questi c'erano Trillini, Bellardi, Martufi, Montemurro. Successivamente si aggiunsero a questo gruppo Cingolani, Turchetti, Valenza e, infine, Sotte.

La programmazione in agricoltura

In quel periodo, eravamo nella prima metà degli anni Sessanta, erano in pieno svolgimento le ricerche sulla programmazione zonale nell'agricoltura. I più giovani tra i presenti forse non sapranno neanche di che cosa sto parlando, ma i più anziani, soprattutto quelli residenti nella regione Marche, probabilmente si ricordano bene. Ecco, in quelle ricerche, che hanno segnato anche la nostra formazione di giovani ricercatori, si era suddiviso il territorio delle varie regioni oggetto di studio (le Marche, la Toscana, poi, successivamente, la Sardegna e dopo ancora l'Abruzzo) in base ad una metodologia che era stata messa a punto proprio dal professore Orlando.
Vorrei ricordare quella metodologia perché, secondo me, tuttora ha un certo interesse. Le regioni che studiavamo venivano suddivise in zone che avevano una loro unità di tipo economico, sociale e strutturale. All'interno di ciascuna zona, venivano ritagliate delle aree, che erano omogenee, o erano ritenute omogenee, dal punto di vista delle dotazioni delle risorse agricole. Per ciascuna di queste zone poi veniva definita una sorta di ottimizzazione, date le risorse disponibili, e quindi venivano individuati degli scenari di lungo termine dai quali era derivata una serie di progetti di trasformazione da realizzare nel breve-medio termine.
Insomma, si definiva una struttura teorica dalla quale si potesse derivare attraverso una serie di elaborazioni, frutto di un calcolo economico, una serie di concrete ed effettive linee di intervento da parte dell'operatore pubblico (anche se poi rimasero sulla carta senza avere riflessi in termini operativi).
L'anello di congiunzione fra queste proiezioni svolte sul campo agricolo e gli altri settori produttivi era dato dai bilanci occupazionali. In pratica, l'evoluzione agricola avrebbe portato a liberare una certa quantità di forza lavoro e questa forza lavoro avrebbe dovuto essere occupata nello sviluppo del settore secondario e del settore terziario in modo tale da poter permettere alle zone, e anche alle regioni, uno sviluppo tendenzialmente equilibrato. Naturalmente la metodologia era un po' più articolata; qui l'ho sintetizzata in maniera un po' estrema.
Qualcuno dei presenti sicuramente ha vissuto quel periodo e probabilmente ricorderà che ci fu un acceso dibattito su questa metodologia. Esso si svolse in due direzioni. Nella prima c'erano: da una parte, Orlando e il suo gruppo e, dall'altra, coloro che non condividevano né l'idea dell'opportunità di un intervento pubblico del tipo proposto nel settore agricolo, né quella di un qualsiasi l'intervento pubblico in agricoltura. Il momento cruciale è stato nell'incontro-scontro fra Orlando da una parte, e i professori Remigio Baldoni ed Enzo Di Cocco dall'altra.
Nella seconda direzione il dibattito fu più costruttivo. Esso si sviluppò a seguito di un confronto con le metodologie che venivano sviluppate nel Veneto da parte del professore Giuseppe Barbero. La metodologia di Barbero, in effetti, era leggermente alternativa a quella elaborata ad Ancona, in quanto partiva dalla definizione delle capacità di sviluppo del settore secondario e terziario, per derivarne poi le soluzioni interne al settore produttivo agricolo, onde non determinare forti squilibri nello sviluppo, e in particolare nell'occupazione.
In quel periodo, ricordo che siamo sempre alla fine degli anni Sessanta, nella nostra Facoltà di Economia e Commercio, sotto la guida del professore Orlando, sono anche state svolte ricerche in altre direzioni: ricordo i lavori sui vari mercati agricoli, l'ampio studio sullo sviluppo dell'agricoltura nei paesi industrializzati organizzato dal Social Savings Research Council di cui Giorgio Fuà è stato il coordinatore per l'Italia.
A quel periodo risalgono inoltre gli studi predisposti nella sede di un Istituto che ricordo volentieri: l'Issem: Istituto di Studi per lo Sviluppo Economico delle Marche, in cui il gruppo guidato da Orlando aveva il compito di svolgere le elaborazioni di base destinate a costruire gli elementi per il piano di sviluppo economico delle Marche. Le Regioni ancora non erano state costituite, per cui il lavoro era veramente pionieristico e preliminare.
Mi pare importante anche ricordare che, sulla questione della programmazione, si registrò in quel periodo uno scontro, non so se definirlo radicale, comunque uno scontro acceso, fra alcuni che tuttora ritengo siano i politici più illuminati nella nostra regione. Mi piace ricordare per esempio Adriano Ciaffi, che sicuramente era favorevole a questo tipo di impostazione, così come lo era Claudio Salmoni. All'opposto, altri politici erano timorosi, probabilmente anche per un riflesso dello scontro politico che si svolgeva in quegli anni anche a livello nazionale. Non di rado questo tipo di elaborazioni, che avevano in fondo, come compito fondamentale quello di introdurre il calcolo economico nell'intervento pubblico in generale e quindi anche nell'agricoltura, erano state considerate, come una sorta di introduzione, non dico la "sovietizzazione" dell'economia, ma certamente a qualche cosa che era di molto simile.
In una situazione di generale difficoltà, in cui non giocarono naturalmente solo questi elementi, fu così rapidamente perduta quell'impostazione secondo cui veniva suggerita una politica economica costituita non solo dalle politiche fiscale, monetaria o dei redditi, ma che tenesse anche presente che le attività produttive si realizzano sul territorio e che quindi dovesse tener conto degli equilibri territoriali, nei quali cruciale era il ruolo integrato dei processi produttivi agricoli, industriali e terziari.
L'intervento pubblico ha continuato quindi a caratterizzarsi per interventi occasionali, indifferenziati, passivi, e per interventi assistenziali, che poi successivamente, come ben vediamo in questi giorni, sarebbero degenerati in funzioni puramente clientelari. Ecco, io farei risalire appunto alla sconfitta della programmazione l'origine di tanti nostri attuali mali. Nella nostra regione, comunque, la spinta ad aprire la politica economica e la politica agraria agli interventi territoriali rapidamente finì.
Secondo me, questo è stato l'impegno più rilevante di Orlando: egli è stato un convinto sostenitore dell'efficienza e dell'efficacia dell'intervento pubblico nell'economia e, in particolare, nel settore agricolo. E molte delle ricerche che abbiamo svolto allora e che poi il professore Orlando stesso ha continuato anche in altra sede, dopo aver lasciato Ancona, testimoniano questo suo impegno, che è stato anche civile e politico.
In questo senso mi sembra che, proprio per fronteggiare la spinta poderosa, che anche in questo momento è in atto, secondo la quale solo "privato è bello", vale la pena di riprendere le ricerche che sono state effettuate allora. Esse costituiscono una testimonianza della possibilità che si può introdurre il calcolo economico per perseguire una maggiore razionalità nell'intervento pubblico, sia nel settore agricolo, che nel più ampio ambito economico.

Il personaggio Giuseppe Orlando

Vorrei anche sottolineare alcuni tratti umani del professore Orlando, che ho potuto cogliere e apprezzare stando con lui in quei primi dieci anni della sua attività accademica ad Ancona. Questi, a me pare, sono stati gli elementi salienti della sua personalità: la trasparenza nelle espressioni delle proprie opinioni e dei propri sentimenti, la sua capacità di comunicare, di comunicare con tutti, soprattutto con coloro con i quali entrava in contatto in agricoltura, e infine il suo grande intuito. Vorrei citarvi alcuni episodi per dirvi come erano rilevanti questi tre elementi. Orlando non amava nascondersi dietro posizioni di maniera. Aveva degli atteggiamenti qualche volta un po' rudi, perché amava dire sempre "pane al pane e vino al vino", non si nascondeva dietro finzioni.
Mi pare importante ricordavi alcuni episodi ai quali ho assistito nel corso degli incontri che frequentemente avevamo allora. Giravamo per tutte le Marche per l'analisi del territorio agricolo. In quegli incontri avevamo spesso l'occasione di trovarci di fronte a dei contadini. Allora, nella maggior parte erano mezzadri che, come è noto, erano persone molto acute. Con essi Orlando riusciva rapidamente ad entrare in comunicazione. Un episodio mi è sempre restato in mente. Quando Orlando, in un eccesso di fiducia nel marginalismo, tentava di convincere un mezzadro dell'idea che l'età ottima di macellazione dei capi di razza marchigiana doveva essere compresa fra i 16 e i 18 mesi. Con un'argomentazione "terra-terra", come lui era capace di fare, trovando il linguaggio adeguato per le persone alle quali stava di fronte, cercava di convincerlo appunto che non conveniva continuare ad allevare il capo di bestiame per altri tre quattro mesi. Gli diceva che in effetti, come dimostravamo negli studi che stavamo facendo nella facoltà di Economia e Commercio, dopo i 18 mesi la quantità di foraggio che serviva per l’alimentazione non era compensata dall'aumento di ricavi che da questo foraggio si otteneva. Il mezzadro, me lo ricordo come fosse ora, del quale si era capito che queste analisi le aveva già fatte per conto suo, perché non conosceva le derivate, ma certamente i calcoli li sapeva fare, gli ha risposto, non ricordo bene le parole, con un'espressione di questo tipo: “Professore, va bene, però io ho l'impressione che chi è che non capisce l'economia qui non sono io, ma è il macellaio! Al macellaio bisogna andare a dire queste cose, lui fino a che il toro non pesa 6 quintali - 6 quintali e mezzo, cioè non arriva a 22 o 24 mesi, non me lo prende. Quindi bisognerebbe che questo discorso fosse fatto a lui, perché io l'ho capito già da tanto tempo e non c'è più bisogno che qualcuno me lo venga ancora a chiarire”.
Altri episodi curiosi, che ricordo di Orlando, per definire un po' la sua personalità, riguardano gli incontri con un personaggio di Ancona, che gli anconetani ricordano. Questo personaggio era particolare, perché cumulava su sé stesso più professionalità: si chiamava Murtatela, era questo il suo soprannome (Enrico Saviotti infatti era il suo nome). Era un venditore ambulante, ed era anche un bravissimo pittore di "pésche", che sono quelle costruzioni su palafitte adibite alla pesca, allora molto diffuse alla periferia di Ancona. Ne dipingeva di bellissime. Era anche un ristoratore, e tutte le volte che incontravamo questo Murtatela le discussioni con Orlando erano veramente spassose, perché innanzi tutto Orlando si prodigava in consigli su come avrebbe dovuto migliorare la qualità dei suoi dipinti, che già, secondo me, erano opere d'arte molto belle per le quali c'era poco da consigliare. Ma Orlando era fatto così. E poi si apriva inevitabilmente la discussione sulla qualità della cucina anconetana, della quale Orlando, veramente, non era convinto che fosse la migliore. Egli infatti, che si riteneva anche un buongustaio, sosteneva che la cucina marchigiana non era capace di valorizzare i cibi perché usava una serie di ingredienti assolutamente inutili. Per questo ce l'aveva sempre con questo ristoratore, il quale gli portava con gli arrosti di pesce una serie di intingoli strani. L'altro rispondeva che questa era comunque la caratteristica della cucina anconetana. Ma Orlando restava convinto che noi anconetani non eravamo granché bravi a cucinare.
Un altro punto interessante per capire la personalità di questo studioso era il rapporto che aveva con le medicine. Chi l'ha conosciuto certamente sa di cosa sto parlando. Era un uomo di grandissima vitalità, di grandissime capacità di lavoro. Stargli dietro, anche per noi che eravamo più giovani, era veramente difficilissimo. Anche al ristorante, comunque, non tollerava cadute di tensione nelle sue capacità di lavoro, nelle sue capacità elaborative e, ogni volta che minimamente si trovava in difficoltà, comunque trovava qualche elemento che potesse ricostituire queste sue performance. A questo fine andava avanti a pasticche, le più incredibili, di diverso colore. Ne mandava giù in quantità assurde. Ho sempre avuto il sospetto che molte di queste avessero solo un effetto placebo. Però qualcuna faceva comunque effetto, perché, prese le pasticche, dopo poco tempo, si ricominciava a ritmi cui era sempre ancora molto difficile stare dietro.

Per una economia a supporto delle decisioni politiche

Tornando comunque alla qualità del suo lavoro, la cosa che vorrei indicare specie ai giovani collaboratori è ancora un'altra. La grande capacità di Orlando di interpretare i fenomeni che stava studiando e il suo grande intuito. Nelle nostre ricerche, dopo la raccolta di pochi dati, dei dati necessari per la verifica delle ipotesi, dopo poche elaborazioni, la ricerca di qualche indice, di qualche tasso di variazione, già la sua analisi era pronta, la sua interpretazione era realizzata. Poi, noi giovani ricercatori, sulla spinta di un bisogno di maggiore rigore scientifico, mettevamo in pista una serie di procedure, di verifiche delle ipotesi. Però, alla fine, la conclusione era che quello che trovavamo dopo queste elaborazioni, era fondamentalmente una conferma, novanta volte su cento, che quello che lui aveva individuato con le prime indicazioni, guardando i primi dati, era effettivamente l'interpretazione giusta che doveva essere data al fenomeno.
Risultati curiosi venivano fuori quando Orlando, che non tollerava che altri si attribuissero il merito delle metodologie di elaborazione, tentava di cimentarsi lui stesso negli aspetti matematici dei modelli. Questo lo induceva a svolgere in proprio le elaborazioni quantitative statistico-matematiche e, essendo laureato in legge, arrivava spesso a dei risultati stravaganti, un po' strani, qualche volta non del tutto corretti, di cui c'è traccia anche in qualche suo scritto. Ciò non toglie niente comunque ai meriti del suo intuito: la sua capacità di interpretare i fenomeni studiati era veramente incredibile e decisiva. Questo è il primo dei suoi due insegnamenti fondamentali, che vorrei ricordare. Esso è valido anche oggi di fronte ad una situazione in cui, soprattutto nella letteratura economico-agraria e in campo europeo, si dà spesso più peso alle metodologie, alle procedure, ai metodi, che alla comprensione e all'analisi dei fenomeni economici. Gli studi si stanno talmente complicando dal punto di vista formale e stanno sempre più astraendo dalla realtà, che diventa sempre più difficile utilizzarli per interpretare i fatti reali. Ecco il richiamo che viene dalla lezione di Orlando: quello che conta non è il metodo, il metodo ha la sua rilevanza, la teoria ha la sua rilevanza, non possiamo naturalmente buttare via la strumentazione. Però la strumentazione è utile solo se con essa noi ricercatori andiamo ad interpretare i fenomeni economici. Non dobbiamo, non possiamo spendere tutta la nostra attività di ricerca per mettere a punto, elaborare continuamente, migliorare solo gli strumenti metodologici, rendendoli sempre più sofisticati. Il nostro compito non si può esaurire lì.
Il secondo messaggio rilevante della lezione di Orlando, è quello al quale facevo riferimento inizialmente. In questo momento si assiste, soprattutto nell'elaborazione di studiosi stranieri, all'estendersi dell'uso di metodologie collegate all'economia del benessere anche nel campo della politica agraria. Tutta l'attenzione di noi ricercatori di economia e politica agraria tende a concentrarsi sui triangoli della rendita del consumatore e della rendita del produttore, che si perde o si guadagna a seconda delle politiche adottate. Così, il giudizio sull'efficacia della politica agraria sembra essere concentrato su questa metodologia: guardate quello che sta avvenendo in questi mesi, dopo la riforma McSharry.
La lezione di Orlando era invece concentrata su un obiettivo più accurato, volto alla definizione di una politica agraria che non si accontenti solo di rispondere alla domanda: liberalizzazione sì o no? ma vada più a fondo, entrando nei problemi dello sviluppo dell'agricoltura, che sono problemi che hanno a che fare con l'assetto del territorio e quindi con gli equilibri territoriali. Ecco, questo mi sembra sia il secondo grande messaggio che proviene dall'analisi che questo ricercatore ha svolto in quegli anni ad Ancona e che ha poi continuato in altre sedi.
Noi che ancora oggi lavoriamo qui ad Ancona siamo stati profondamente influenzati da quell'insegnamento, e seppure siamo consapevoli che non avrebbe senso ripetere quel tipo di analisi sulla base delle stesse metodologie di allora, dato che sono passati ormai trent'anni, siamo invece ancora convinti che l'impostazione di politica agraria, che allora era stata identificata, fosse corretta e che valga ancora la pena di spendere risorse per seguitare quella lontana esperienza.
Ciò è tanto vero, che due filoni di ricerca sui quali abbiamo continuato a lavorare, e che sono rimasti per noi sempre aperti da quella volta, riguardano appunto l'uno, la programmazione (anche se il termine può apparire obsoleto), al fine di dare razionalità all'intervento pubblico nel settore agricolo e l'altro, sviluppatosi successivamente, la spesa pubblica, del quale nei nostri recenti lavori abbiamo dato una testimonianza concreta.

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