Premessa
Il termine land grabbing è stato coniato dalla Ong spagnola Grain per descrivere un nuovo modello di controllo dei territori e delle risorse naturali nei paesi del Sud del mondo che si è diffuso a partire dalla prima decade del nuovo millennio. Questa Ong definisce il fenomeno come il processo di acquisizione da parte di soggetti privati o pubblici di vaste aree coltivabili (superiori a 10.000 ettari) all’estero per produrre beni alimentari e agro-carburanti destinati all’esportazione, mediante contratti di compravendita o di affitto a lungo termine1.
La corsa alla terra è cresciuta in concomitanza con le tre crisi sistemiche che hanno colpito l’economia globale: la crisi alimentare innescata dal forte incremento dei prezzi dei prodotti agricoli di base; la crisi energetica legata all’aumento del prezzo del petrolio; la crisi finanziaria determinata dal crollo delle principali borse mondiali. Si è creato così un vero e proprio mercato della terra in cui sono coinvolti diversi attori: paesi come l’Arabia Saudita, Cina, India e Corea del Sud che investono all’estero per assicurarsi un canale stabile di approvvigionamento di derrate alimentari; le multinazionali dell’agribusiness interessate a creare vaste piantagioni per la produzione di cibo destinato all’esportazione o di agro-carburanti; le società finanziarie, come gli hedge fund o i fondi pensione, che hanno individuato nella terra una fonte più solida e sicura in grado di accrescere il livello di diversificazione degli investimenti (Cotula et al., 2009).
L’acquisizione di terra avviene attraverso una negoziazione e la successiva stipula di un contratto tra l’investitore ed il governo locale che presenta diversi aspetti controversi: assenza di processi di consultazione delle popolazioni interessate; mancanza di valutazioni sugli impatti economici, sociali ed ambientali dei progetti; limitata trasparenza dei contratti che non consente di rilevare i possibili rischi e le opportunità a livello locale. Tutti questi fattori pongono una serie di interrogativi sull’equità e sul potenziale impatto degli accordi stipulati, alimentando un forte dibattito a livello internazionale. La società civile parla di “rapina”, di “neocolonialismo” e di diritti violati. Le organizzazioni internazionali, tra cui la Fao e la World Bank, considerano l’incremento degli investimenti diretti esteri in agricoltura come un’opportunità per rilanciare il settore nei Pvs e contribuire ad un aumento della produzione agricola e alla stabilità dell’offerta alimentare a livello locale e globale. Allo stesso tempo, però, le istituzioni internazionali, non potendo ignorare i potenziali rischi legati a questi processi di acquisizione, hanno stilato una serie di principi (Responsible Agricultural Investments - Rai)volti a regolare gli investimenti e a tutelare gli interessi delle comunità che ospitano gli investimenti diretti esteri in agricoltura. Tra i principi fondamentali rientrano la tutela della sovranità alimentare degli stati, la trasparenza dei contratti, il coinvolgimento delle comunità locali, il sostegno ai piccoli agricoltori. I Rai rappresentano un tentativo di trasformare la speculazione in atto sulle terre agricole in una win-win situation, cioè in una situazione da cui tutti gli attori coinvolti traggano dei benefici. Naturalmente, questi principi non sono vincolanti e sono considerati dalle organizzazioni contadine strumenti per legittimare una politica di appropriazione della terra nell’esclusivo interesse dei governi e dei grandi investitori internazionali (Borras, Franco, 2010; De Schutter, 2009).
Obiettivo di questo lavoro è quello di cercare di rilevare le potenziali ricadute socio-economiche ed ambientali derivanti da un investimento agricolo in Etiopia da parte di un’impresa italiana - la Fri-El Green Power - attiva nel settore delle energie rinnovabili. La scelta di questo caso-studio è stata dettata dal fatto che esso presenta tutte le peculiarità di questa nuova tipologia di Ide in agricoltura: è un investimento strettamente legato agli obiettivi energetici e ambientali dell’Unione Europea; la matrice agricola del progetto non è orientata alla produzione di colture da reddito (cash crops) come avveniva in passato, bensì alla coltivazione di materie prime agricole a fini alimentari (staple crops) ed energetici; la trattativa per la concessione della terra è avvenuta tra l’impresa ed il governo senza alcun coinvolgimento delle comunità locali; non risulta che sia stato effettuato alcuno studio di valutazione di impatto ambientale e socio-economico; le valutazioni relative alle ricadute dell’investimento sull’economia locale sono contrastanti.
La ricerca è stata condotta attraverso l’analisi di diverse tipologie di fonti ritenute rilevanti ai fini dello studio condotto: letteratura scientifica, documenti e notizie forniti direttamente dalla Fri-El e dalla Ong Survival International, articoli nazionali relativi alle posizioni ufficiali assunte dall’azienda.
La domanda di terra nei paesi europei
Nei paesi europei si registra una forte domanda di terra, i cui fattori di spinta sono rappresentati soprattutto dalla necessità di aumentare la produzione di agro-combustibili, di incrementare i profitti delle multinazionali dell’agroalimentare e di diversificare il portafoglio di investimenti offerto dal settore finanziario. L’Italia è in ambito europeo uno dei paesi più attivi negli investimenti di terra all’estero, seconda solamente all’Inghilterra. I principali settori italiani coinvolti nel land grabbing sono quello bancario e assicurativo, con una quota di investimenti concentrata soprattutto nelle ex repubbliche sovietiche, quello dell’abbigliamento che investe in Argentina e in Nuova Zelanda e il settore energetico che opera in Mozambico, Etiopia, Senegal, Madagascar (Re:Common, 2012), Congo (EuropAfrica, 2011).
A livello globale, l’acquisizione di terreni fertili all’estero per lo sviluppo di produzioni agricole a fini energetici è stata favorita dall’aumento dei prezzi dei combustibili fossili; dalla crescente dipendenza energetica da paesi politicamente instabili che mettono a rischio la continuità della fornitura; dall’obiettivo di rispettare i vincoli imposti dal Protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni responsabili dell’effetto serra. Le opportunità offerte alla filiera agro-energetica sono contenute in diversi documenti comunitari. In particolare, la direttiva 2009/28/CE ("direttiva sulle energie rinnovabili") fissa obiettivi vincolanti per lo sviluppo delle fonti rinnovabili, la cui quota sul consumo energetico dovrà raggiungere il 20 per cento entro il 2020. Agli Stati membri è lasciato un ampio margine di discrezionalità in merito alla scelta dei settori. L’unico vincolo riguarda il settore dei trasporti che dovrà impiegare almeno il 10 per cento dell'energia proveniente da fonti rinnovabili. In origine i biocarburanti erano considerati la principale fonte di energia rinnovabile, ma le critiche mosse dal Comitato Economico e Sociale Europeo e dal Parlamento europeo in riferimento al contributo dei biocarburanti alla crisi alimentare globale, hanno limitato l’uso di agro-carburanti convenzionali al 5 per cento. In ogni caso, secondo le previsioni dell’Oecd e della Fao, la produzione di agro-carburanti implicherà un forte aumento della domanda di colture a fini energetici (Oecd/Fao, 2011). In Europa, come anche in Italia, esistono dei vincoli legati alla disponibilità di terra coltivabile e alle caratteristiche climatiche, pedologiche e agronomiche. Queste condizioni sono poco compatibili con la produzione delle colture energetiche considerate più convenienti dal punto di vista economico, della resa energetica e della riduzione di emissioni nette di gas serra2. Ciò costringe i paesi europei o a importare materia prima agricola o ad “esternalizzarne” le coltivazioni acquisendo terreni fertili in quei paesi in cui la produzione risulta più conveniente. Secondo la Prima relazione dell’Italia in merito ai progressi ai sensi della direttiva 28/2009/CE, l’Italia nel 2010 ha utilizzato 86.735 tonnellate di biomasse provenienti da seminativi comuni nazionali, 126.359 tonnellate da seminativi europei e 558.407 tonnellate da seminativi extraeuropei. Inoltre, sono numerose le aziende italiane che stanno investendo al di fuori dei confini comunitari per la produzione di agro-carburanti. Si tratta in particolare di soggetti operanti nel settore delle energie rinnovabili e in quello petrolifero che in questi ultimi anni hanno annunciato e/o avviato investimenti in terra all’estero, prevalentemente in Africa. Lo stesso governo italiano sostiene queste imprese sia attraverso accordi di cooperazione e promozione degli investimenti legati alle produzioni agro-energetiche, sia con sostegni diretti ed indiretti al settore dei biocombustibili.
La Omorate Farm in Etiopia: descrizione del progetto
Una delle aziende italiane che si è lanciata nell’acquisizione di terreni nei paesi del Sud del mondo per produrre materia prima da destinare al mercato energetico è la Fri-EL Green Power S.p.A. La Fri-EL ha sede a Bolzano ed è una delle principali aziende italiane attive nel settore dell’energia ottenuta da fonti rinnovabili. Uno dei più importanti investimenti della società è stato realizzato nell’Etiopia sud-occidentale, nei pressi del villaggio di Omorate situato nella Bassa valle dell’Omo (Figura 1).
Figura 1 - Localizzazione del progetto
Fonte: Fri-Elethiopia Farming and Processing
La Fri-El opera in Etiopia dal 2007, anno in cui la sua sussidiaria locale, la Fri-El Ethiopia Farming and Processing, ha ottenuto dal governo etiope la concessione di 30.000 ha di terreno con un contratto di affitto della durata di 70 anni ad un costo di 2,5 euro l’ettaro all’anno. Obiettivo iniziale della Omorate Farm era quello di coltivare vaste piantagioni per la produzione di olio di palma da esportare in Italia per la produzione di energia da biomassa. In seguito, l’amministratore delegato Josef Gostner ha dichiarato che la società aveva deciso di modificare i suoi piani e che le piantagioni inizialmente destinate alla produzione di colture energetiche sarebbero state trasformate in coltivazioni estensive di prodotti alimentari – mais, soia, palma da olio e canna da zucchero – da destinare al mercato interno allo scopo di fronteggiare i periodi di emergenza alimentare durante le carestie e di sostenere le popolazioni che vivono in aree marginali poco adatte alla coltivazione.
Il progetto è stato suddiviso in 9 fasi da attuarsi in un arco temporale di 8 anni. Ogni fase prevede un incremento medio di terra coltivata pari a 2.000 ha in modo da mettere a coltura circa 20.000 ha di terreno entro il 2020. Nella prima fase sono stati coltivati 150 ha di mais e 350 ha di palme da olio (Figura 2).
Figura 2 - Piantagioni di palme da olio e mais nella Omorate Farm
Fonte: Fri-Elethiopia Farming and Processing
Il piano pluriennale dell’investimento prevede la costruzione di infrastrutture e l’acquisto di macchinari ed input agricoli per un costo totale pari a circa 37,5 milioni di euro. L’abbondante disponibilità di acqua assicurata dalla vicinanza del fiume Omo permetterà la giusta somministrazione di acqua alle colture, compensando la scarsità delle precipitazioni che caratterizza quest’area. Il principale sistema di irrigazione adottato è quello a pioggia con impianto pivot, particolarmente adatto per irrigare vaste superfici (Figura 3). Le condizioni climatiche e ambientali favorevoli consentiranno di ottenere 2,2 cicli di raccolti l’anno.
Figura 3 - Impianto di irrigazione nella Omorate Farm
Fonte: Fri-Elethiopia Farming and Processing
L’impatto socio-economico e ambientale del progetto: le posizioni della Fri-El e delle Ong a confronto
Sulla base dei documenti forniti dalla stessa Fri-El Ethiopia emerge che la terra ottenuta in concessione riguarda un’area pari a circa il 10 per cento dei 300.000 ha di terreni abbandonati che corrono lungo il corso del fiume Omo. Si tratta di una superficie in gran parte arida e non adatta all’agricoltura, dove in passato sorgeva un’altra azienda agricola etiope-coreana impegnata nella coltivazione di cotone e successivamente fallita. La valorizzazione e la messa a coltura di quest’area considerata “marginale” e “inutilizzata” della Bassa Valle dell’Omo non potrà, quindi, secondo le previsioni della società, che apportare benefici per l’economia locale in termini di forte incremento del Pil regionale, creazione di posti di lavoro, crescita dei livelli salariali, aumento della sicurezza alimentare. La società promette, inoltre, importanti ricadute sociali legate alla realizzazione di infrastrutture che forniranno servizi in grado di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali: costruzione di unità abitative per accogliere le famiglie della forza lavoro agricola; sviluppo di strutture sanitarie per migliorare lo stato di salute delle comunità locali; realizzazione di un pozzo per la fornitura di acqua potabile; sviluppo di una rete stradale necessaria per il trasporto e la distribuzione dei prodotti agricoli e per migliorare i collegamenti con i principali centri urbani del paese. Inoltre, è prevista un’attività di formazione all’interno dell’azienda allo scopo di incrementare il livello d’istruzione e le competenze tecniche del personale impiegato nel progetto. La Fri-El sostiene che questi effetti socio-economici positivi si riusciranno ad ottenere a fronte di un impatto trascurabile sull’ambiente e sulle risorse naturali poiché i prelievi idrici avverranno rispettando i criteri di sostenibilità ambientale e utilizzando solo il 5 per cento della portata annua del fiume Omo.
Molto diversa è la valutazione dei rischi e dei benefici effettuata dalle organizzazioni non governative ambientaliste e di tutela dei popoli indigeni quali Survival International. In particolare, queste organizzazioni sostengono che esista un collegamento tra la Omorate Farm e la centrale termoelettrica a biomassa di Acerra, la Fri-El Acerra S.r.l. Questa centrale è stata costituita nel 2006, proprio quando l’azienda ha trasmesso una manifestazione d’interesse al governo etiope per l’acquisizione dei terreni nei pressi di Omorate. La Fri-El Acerra, con un investimento di 85 milioni di euro, è la seconda azienda a livello europeo per la produzione energetica da oli vegetali. Secondo Re:Common, un’associazione che si batte per sottrarre il controllo delle risorse naturali al mercato e alla finanza, sebbene non venga riconosciuto in maniera esplicita dai vertici societari, è molto probabile che nei programmi dell’impresa di Acerra vi sia quello di utilizzare olio di palma proveniente dall’Africa come materia prima necessaria al funzionamento della centrale. La terra acquisita in Etiopia presenterebbe tutte le caratteristiche necessarie per la realizzazione di una piantagione di palma da olio su larga scala: clima caldissimo, terreno pianeggiante e accesso a riserve idriche per l’irrigazione direttamente dal fiume Omo. L’associazione sostiene che, a dispetto da quanto sostenuto dall’azienda nei comunicati ufficiali, la coltivazione di palma da olio per fini energetici rappresenti l’investimento principale e che i 120 ha di coltivazione di mais al momento attivi siano stati previsti solo per la fase transitoria, dal momento che la palma da olio impiega tra i 5 ed i 7 anni per diventare produttiva. La coltivazione di mais avrebbe, quindi, lo scopo di tamponare economicamente i primi anni di non produttività della palma da olio.
Re:Common, come altre organizzazioni non governative, attaccano la società anche in riferimento al concetto di terre marginali abbandonate, affermando che il governo ha dato in concessione terre che non essendo occupate in modo permanente a causa delle caratteristiche ambientali, sono state erroneamente dichiarate vuote o inutilizzate3. In realtà si tratta di terreni utilizzati da secoli da comunità che vivono di agricoltura di sussistenza e di pastorizia. Sostengono inoltre che la negoziazione sia avvenuta esclusivamente con le autorità governative senza nessuna consultazione con la popolazione indigena e senza tenere in considerazione le forme consuetudinarie d’uso che garantiscono la sopravvivenza di queste fasce deboli della popolazione. Il rapporto di Re:Common è stato contestato dalla Fri-El con una Nota per Altraeconomia l’11 luglio 2012 resa disponibile su internet. In particolare l’azienda accusa Re:Common di aver basato lo studio su dati non veritieri e di aver così fornito informazioni errate.
La valutazione del progetto nel contesto socio-economico e ambientale della Bassa Valle dell’Omo
Per tentare di rilevare i possibili impatti del progetto della Fri-El è necessario inquadrarlo nel contesto geografico e socio-economico di riferimento, considerando tutte le trasformazioni che stanno caratterizzando l’Etiopia in questi anni.
La Bassa Valle dell’Omo, dove è localizzata la Omorate Farm, è una valle attraversata dall’omonimo fiume che nasce nell’altopiano etiopico e dopo 760 km sfocia nel lago Turkana. Il bacino dell’Omo ha una notevole rilevanza sia archeologica, sia naturalistica. Qui sono stati ritrovati numerosi fossili di ominidi risalenti al Pliocene e al Pleistocene. Inoltre, l’area è riconosciuta a livello internazionale come una delle rare regioni aride e semi-aride che presentano una straordinaria biodiversità. Per questo nel 1980 la Valle dell’Omo è stata inserita nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco e sono stati istituiti due parchi nazionali, il Parco Nazionale dell’Omo e il Parco Nazionale Mago che occupano una superficie totale di quasi 7.000 km2.
In quest’area vivono circa 500.000 persone dedite prevalentemente all’agricoltura e alla pastorizia. L’agricoltura alluvionale è fondamentale per il sostentamento delle comunità. In agosto e settembre si verificano le piene stagionali alimentate dalle piogge a monte del fiume (Figura 4). Le inondazioni aumentano la fertilità del terreno in modo naturale senza dover ricorrere all’impiego di concimi chimici. Le colture principali sono rappresentate da fagioli, sorgo e granturco. Nonostante la dimensione delle aree coltivate vari di anno in anno in base alla portata delle piene, la garanzia del raccolto contribuisce alla sicurezza alimentare di circa 100.000 persone che coltivano quasi 12.000 ha lungo il corso del fiume. Diversi ricercatori hanno rilevato che tali comunità necessitano raramente di aiuti alimentari e sono maggiormente autosufficienti dal punto di vista alimentare di qualsiasi altra regione arida dell’Etiopia.
Figura 4 - Agricoltura alluvionale lungo il fiume Omo
Fonte: Survival International
Questo modello di sussistenza è oggi minacciato dai piani di sviluppo economico varati dallo stato. Per diversificare e sviluppare l’economia del paese, il governo centrale ha deciso di avviare un programma di costruzione di una serie di grandi dighe sul fiume Omo. Le prime due – la Gibe I e la Gibe II – sono già state realizzate mentre la terza, la Gibe III, è in fase di costruzione (Figura 5). La Gibe III, una volta terminata sarà la più grande infrastruttura idrica mai realizzata in Etiopia. La diga avrà un’altezza di 240 m e una potenza di 1.870 MW. Quando sbarrerà il corso del fiume, creerà un bacino artificiale lungo 150 km, una superficie di 211 km2 e una capacità di stoccaggio pari a 11,75 miliardi di m3.
Figura 5 - Progetti idrici lungo il corso del fiume Omo ed impatto sulle piene
Fonte: Bbc News
La creazione di questo imponente sistema d’impianti e bacini artificiali ha un duplice obiettivo. Il primo è di produrre energia idroelettrica da esportare nei paesi limitrofi come Sudan, Djibouti e Kenya e rafforzare la posizione del paese come leader regionale nella produzione di energia. Il secondo, è di stimolare lo sviluppo dell’agricoltura attraverso la costruzione di una fitta rete di canali di irrigazione. In particolare, il governo di Addis Abeba, con il piano quinquennale di sviluppo economico 2011-2015, mira a risolvere le carenze strutturali del settore agricolo e ad aumentare la produttività attraverso il coinvolgimento di investitori stranieri per i quali si prevedono forti incentivi fiscali. Nella sola regione dell’Omo sono stati ceduti più di 250.000 ha per lo sviluppo di colture estensive ad elevato valore commerciale quali cotone, sesamo, arachidi, soia, palma da olio. Inoltre, è in fase di realizzazione un progetto statale - l’Omo Kuraz Sugar Factories Project – che prevede la messa a coltura di circa 245.000 ha di terreno per la produzione di canna da zucchero da trasformare in etanolo. Secondo quanto rivelato dalla società statale Ethiopian Sugar Corporation, il piano prevede la messa a coltura di tre lotti di terra, ognuno della dimensione di circa 80.000 ettari, e la creazione di sei impianti statali per la raffinazione della canna da zucchero (Figura 6).
Figura 6 - L’Omo Kuraz Sugar Factories Project
Fonte: Greenreport.it
La realizzazione di grandi opere idrauliche, la cessione di terra agli investitori stranieri e l’obiettivo del governo di aumentare la produzione di agro-carburanti, minacciano la sopravvivenza di più di 500.000 contadini, pastori e pescatori per i quali il fiume Omo rappresenta l’unica fonte di sostentamento. Gli esperti prevedono che forti impatti ambientali e socio-economici. La costruzione delle dighe ridurrà la portata del fiume Omo di quasi il 60 per cento e ciò comporterà una riduzione dell’estensione della foresta fluviale ed una perdita rilevante in termini di biodiversità. L’intervento umano provocherà l’interruzione delle piene naturali con il conseguente collasso dell’economia locale, un radicale impoverimento collettivo e l’aumento dell’insicurezza alimentare. In seguito alla sommersione di vaste aree per creare i bacini idrici artificiali e per favorire i progetti agroindustriali, una parte rilevante della popolazione locale sarà trasferita in altre aree del paese. Il governo li chiama piani di reinsediamento ma in realtà le comunità locali vengono private della loro terra e di risorse ritenute strategiche per la loro sopravvivenza. Tutto ciò aumenterà la pressione antropica sulle risorse, con un conseguente aumento della povertà e dei conflitti inter-etnici per l’accesso alle già scarse risorse naturali della regione.
Un altro fattore di rischio legato alle trasformazioni che si stanno verificando nella Bassa Valle dell’Omo riguarda l’equilibrio geopolitico del bacino del Nilo. Lo sfruttamento delle acque del Nilo é regolato da un accordo risalente al 1959 stipulato esclusivamente tra Egitto e Sudan, escludendo tutti gli altri paesi a monte. Secondo questo accordo l’Egitto può utilizzare 55,5 miliardi di m3 di acqua all’anno ed il Sudan 18,5 miliardi. Lo sfruttamento intensivo delle acque del fiume Omo potrebbe portare in futuro a una maggiore pressione sulle acque del Nilo Azzurro da parte delle popolazioni locali costrette a cercare fonti idriche alternative. Il maggior utilizzo di questo corso d’acqua si ripercuoterà inevitabilmente sui paesi a valle del bacino del Nilo, poiché il Nilo Azzurro rappresenta il maggiore affluente del Nilo, contribuendo all’85 per cento della sua portata (Figura 7).
Figura 7 - Il bacino del Nilo
Fonte: www.globalresearch.org
Considerazioni conclusive
La Omorate Farm è localizzata nella Bassa Valle dell’Omo, un’area geografica estremamente fragile dal punto di vista ecologico nella quale le popolazioni hanno saputo sviluppare un sistema agricolo che si regge su un delicato e prezioso equilibrio tra sopravvivenza dell’uomo e sfruttamento delle risorse naturali. I popoli della Valle dell’Omo dipendono da una varietà di tecniche di sostentamento che si alternano e completano tra loro con il mutare delle stagioni e delle condizioni climatiche: le coltivazioni di sorgo, mais, fagioli nelle radure alluvionali lungo le rive del fiume, le coltivazioni a rotazione nelle foreste pluviali e la pastorizia nei pascoli generati dalle esondazioni. Presa singolarmente, nessuna di queste attività è sufficiente a garantire loro la sopravvivenza ma, nel loro insieme, riescono a contrastare ogni avversità climatica fornendo un contributo fondamentale alle loro economie.
Questo modello di sussistenza è oggi minacciato dai programmi di sviluppo agro-industriali lanciati dal governo etiope a partire dal 2006 basati sulla produzione di energia idroelettrica, la creazione di vaste aree irrigue e la modernizzazione del settore agricolo. Per raggiungere i suoi obiettivi il governo ha varato una serie di grandi progetti idrici lungo il corso dei principali fiumi del paese e ha supportato un intenso processo di cessione di terreni fertili ad investitori stranieri all’interno del quale si inserisce anche il progetto della Fri-El. In queste decisioni politico-strategiche sono stati completamente trascurati i potenziali effetti ambientali e socio-economici nell’area, quali lo spostamento forzato delle popolazioni, gli impatti sui sistemi tradizionali di gestione fondiaria, la perdita di mezzi di sussistenza legati alla terra, l’aumento dell’insicurezza alimentare, la distruzione della biodiversità, l’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche, il deterioramento della qualità del suolo.
Il trasferimento di vaste aree coltivabili ad investitori stranieri nella Bassa Valle dell’Omo può costituire un fattore d’insicurezza non convenzionale. Come affermato di recente da Saturnino Borras, professore associato presso l’Istituto di Studi Sociali dell’Aia, esiste, infatti, una forte correlazione tra le transazioni fondiarie su vasta scala e la stabilità politica di paesi in cui l’accesso alla terra e all’acqua è vitale per le comunità locali (De Castro, 2011). Oltre ad esacerbare i conflitti etnici interni per l’accesso alle risorse, i grandi progetti idrici e gli investimenti agricoli lungo il corso del fiume Omo potrebbero provocare in un prossimo futuro un incremento dell’utilizzo dell’acqua del Nilo Azzurro con importanti effetti geopolitici all’interno del bacino del Nilo.
Dall’analisi delle fonti disponibili relative al caso studio della Omorate Farm, emerge che la cessione di terra alla Fri-El non abbia comportato allo stato attuale alcuno spostamento forzato delle popolazioni e che le coltivazioni realizzate riguardino esclusivamente la produzione di mais e olio di palma ad uso alimentare. Ciò non esclude la possibilità che la società possa cambiare politica in seguito alla realizzazione del progetto irriguo della Valle dell’Omo varato dal governo e, soprattutto, in risposta ai segnali di mercato che potrebbero rendere più conveniente dal punto di vista economico destinare le colture alla produzione di energia e allo sviluppo di agro-carburanti. L’uso finale di una commodity agricola può essere, infatti, deciso in qualsiasi momento in quanto nella maggior parte dei casi si tratta di “flex crops”, ovvero materie prime agricole che possono avere una destinazione multipla: energetica ed alimentare.
Alla luce delle considerazioni fatte ci chiediamo se il progetto della Fri-El in Etiopia possa essere considerato un caso di land grabbing. L’espressione land grabbing presenta una evidente connotazione negativa che, nelle intenzioni di chi l’ha coniata, vuole descrivere operazioni non neutrali che portano a nuove forme di sfruttamento e di neocolonialismo. Nel tentativo di disciplinare un fenomeno così controverso come il land grabbing, le organizzazioni internazionali hanno adottato una strategia di “approvazione con riserva” che prevede la fissazione di codici di condotta per regolare le acquisizioni di terra alla luce della trasparenza e del rispetto dei diritti dei più deboli. Ma per fare in modo che la corsa alla terra non si trasformi in una sorta di neocolonialismo, è necessario adottare azioni concrete che puntino a creare nuovi modelli di sviluppo integrati, utilizzare strumenti che accrescano le potenzialità dei piccoli agricoltori come, ad esempio, programmi di microcredito e varare riforme agrarie che ridistribuiscano la terra alle popolazioni rurali. Allo stato attuale, la mancanza di trasparenza che caratterizza i contratti di acquisizione, lo scarso coinvolgimento delle comunità locali interessate e l’assenza di diritti chiari riguardo la proprietà della terra, favoriscono modelli di investimento incapaci di produrre quella soluzione virtuosa da molti auspicata che in gergo è chiamata win-win situation.
Riferimenti bibliografici
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De Castro P. (2011), Corsa alla terra. Cibo e agricoltura nell’era della nuova scarsità, Donzelli Editore, Roma
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De Schutter O. (2009), Large-Scale land Acquisitions and Leases: A Set of Minimun Principles and Measures to Address the Human Rights Challenge, Report of the Special Rapporteur on the Right to Food, United Nations General Assembly
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Governo Italiano, Prima relazione dell’Italia in merito ai progressi ai sensi della direttiva 28/2009/CE
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Re:Common (2012), Gli Arraffa Terre. Il coinvolgimento italiano nel business del land grab
- 1. www.grain.org
- 2. A tal proposito Roberto Esposti ha siglato una classifica delle colture dalla quale emerge che l’Ue presenta una matrice agricola molto poco competitiva, mentre sono proprio le colture non tipiche europee, come la canna da zucchero e l’olio di palma, a mostrare i risultati migliori (Esposti, 2008).
- 3. Una delle problematiche che caratterizza l’attuale corsa alla terra riguarda i diritti di proprietà delle popolazioni locali che sono fortemente correlati a sistemi giuridici consuetudinari formalmente non riconosciuti. In Africa, come sottolineato anche dal Relatore Speciale per il Diritto al Cibo delle Nazioni Unite Olivier De Schutter, la terra è generalmente di proprietà statale. Tuttavia le popolazioni stanziate nelle aree rurali utilizzano i terreni per il pascolo, la caccia o la raccolta, come trasmesso tradizionalmente dai loro padri, continuando a considerarli come appartenenti alla comunità ma rimanendo al contempo esposti al rischio di espropriazione.