Forme e modi dell’agricoltura

Forme e modi dell’agricoltura
Istituto Nazionale di Economia Agraria

Introduzione

Il quadro che emerge dalle statistiche e dagli studi ufficiali mette in evidenza la continuazione del processo di riduzione del numero delle aziende agricole, con un aumento della Sau media per azienda ma una complessiva diminuzione della superficie utilizzata in agricoltura. Il censimento Istat 2010, inoltre, mostra un’agricoltura a prevalente carattere familiare, che con difficoltà opera un ricambio generazionale, seppure non manchino forme di dinamicità, tra cui l’aumento delle aziende condotte da donne o la tendenza alla diversificazione dell’attività e una maggiore attenzione al territorio e all’ambiente. L’impressione che si ha nell’analizzare i dati, tuttavia, è che il quadro presentato sia sì articolato ma che non renda conto della pluralità delle forme che la nostra agricoltura assume - come ormai anche molta letteratura scientifica ha iniziato a esplorare - e che solitamente sfuggono alle statistiche. Si tratta, in particolare di attività agricole (per autoconsumo, amatoriale, sociale, ecc.) di dimensioni ridotte per superficie utilizzata e reddito aziendale, capaci però di produrre effetti rilevanti di tipo economico, ambientale e sociale. Tali attività sono realizzate prevalentemente in aree urbane o peri-urbane, ma anche in aree agricole considerate marginali, coinvolgono persone occupate in altri settori produttivi o uscite dal mercato del lavoro (pensionati, disoccupati) e sono orientate prevalentemente, sebbene non esclusivamente, all’autoconsumo. Si tratta di un’agricoltura orientata verso la produzione di ortaggi, frutta, vite e olivo, e la loro trasformazione per uso domestico, ma anche, seppur in misura ridotta, finalizzata alla vendita diretta, lo scambio o il regalo.
Questo tipo di agricoltura produce effetti rilevanti sul paesaggio agrario e sulla strutturazione delle città, per la sua capacità di presidiare il territorio, recuperarlo dall’incuria e dall’abbandono, restituirlo alle comunità locali.

Città e campagna

La distinzione tra agricoltura come luogo di produzione di alimenti e città come luogo di consumo appare oggi semplicistica e riduttiva; all’agricoltura si riconosce oggi la capacità di produrre anche altri tipi di beni (ambientali, sociali, educativi, relazionali, ecc.) non sono in relazione e per la città; essa ha, infatti, riacquistato una sua autonomia come settore produttivo in grado si rispondere alle esigenze della società e di esprimere tutte le sue potenzialità. Questo non avviene sempre e in ogni luogo, ma è comunque possibile distinguere tendenze molto interessanti in più parti d’Italia. In questa logica, la contrapposizione tra urbano e rurale non sembra più descrivere la situazione1 , che si presenta invece notevolmente più complessa, sia per l’alternarsi di zone variamente urbanizzate ad altre a verde (coltivate o no), sia per la presenza di stili di vita e professionali non più nettamente distinguibili. Volendo proprio trovare dei termini per descrivere in sintesi questa situazione potrebbero sembrare più appropriate parole come «contiguità» e «mescolanza», che rimandano a un insieme articolato e non sempre definito di tratti rurali e urbani, derivanti non solo dai fattori fisici (la strutturazione del territorio), ma anche dai elementi culturali propri di vecchi e neo rurali che esplicitano in varie forme e in vari luoghi la propria esigenza creativa (di valore economico, sociale ed ambientale) attraverso la valorizzazione della ricorsa terra.
Le dimensioni (e gli effetti, come sintetizzato nella tabella 1) di questa relazione sono quindi molteplici e vanno da quella ambientale a quella sociale, da quella economica a quella culturale, fino ad arrivare alla dimensione della politica, in cui produttori e cittadini/consumatori si fanno attori consapevoli dello sviluppo del territorio e della comunità.
In questo scenario, emerge in modo evidente il fenomeno delle tante aziende agricole, professionali e non, che producono alimenti e servizi, anche nelle zone periurbane e urbane e che non sono considerate aziende professionali (Sotte, 2006). Tuttavia è possibile notare come siano in costante aumento anche fenomeni di recupero di terreni abbandonati, privati o pubblici, da parte di soggetti a vario titolo interessati a un uso attento e responsabile della risorsa terra. Sono, ad esempio, sempre di più i terreni utilizzati a fini sociali e terapeutici da cooperative e associazioni o gli orti curati con scopi educativi e formativi. Nella realtà romana, recentemente un gruppo di architetti e urbanisti2  ha realizzato una mappatura degli orti collettivi presenti sul territorio comunale (disponibile on line su www.zappataromana.net), individuando oltre 100 realtà significative che hanno recuperato spazi pubblici con la finalità di migliorare la vivibilità delle zone urbane in degrado e restituirli alla collettività. Stessi fenomeni si leggono nei dintorni di gran parte degli insediamenti urbani italiani. Sono inoltre sempre di più le esperienze di soggetti – singoli o collettivi - che si organizzano per realizzare orti per l’autoconsumo e per offrire spazi comunitari e del tempo libero, occupando aree pubbliche non utilizzate o anche terreni privati abbandonati.

Tabella 1 - Alcuni effetti dell’agricoltura urbana

Ad occuparsi della terra, quindi, non sono solo gli agricoltori tradizionali o i nuovi contadini, ma – come emerge da un’indagine condotta da Nomisma nel 2011- anche famiglie, soggetti occupati in altri settori, disoccupati e inoccupati, pensionati, giovani che vogliono tentare nuovi percorsi di vita.
L’indagine Nomisma3 aveva l’obiettivo di mappare e quantificare il fenomeno evidenziando come in Italia il numero di agricoltori per passione sia il 2,4% della popolazione con più di 18 anni (1,2 milioni) mentre i coltivatori di orti sono 2,7 milioni (il 5,3% della popolazione con più di 18 anni). La superficie utilizzata dagli hobby farmer è di dimensioni ridotte (in media di 0,7 ettari), anche se il 15% degli agricoltori amatoriali coltiva terreni con estensioni superiori a 1 ettaro e il 12% tra 0,6 e 1 ettaro. I coltivatori di orti, invece hanno a disposizione porzioni molto più piccole di terreno, pari in media a poco meno di 160 mq, generalmente adiacenti all’abitazione principale e nella quasi totalità dei casi con una produzione destinata al consumo familiare.
A guidare queste persone ci sono motivazioni diverse (Weber, 1998), dal recupero immaginario dell’infanzia e dei ricordi al sogno di un’alimentazione più sana, dalla voglia di vivere in un ambiente meno inquinato, anche se per poche ore a settimana, alla voglia di creare in poco tempo qualcosa di utile e di consumarlo in momenti di spensierata convivialità.
Le motivazioni sono economiche (autoconsumo e integrazione al reddito) e derivano in parte dalla crisi del modello agricolo convenzionale, ormai percepita anche dai consumatori. Esse, però, sembrano derivare anche da un diffuso senso di responsabilità verso l’ambiente e la società; ne sono un esempio alcuni progetti collettivi che riguardano la reintegrazione delle funzioni produttive della campagna alla città (si veda in particolare quanto avviene nell’ambito del movimento delle Transition Town4 , la riqualificazione delle zone degradate, l’integrazione di fasce di popolazione emarginate, come gli anziani o gli immigrati.

Limiti, difficoltà e prospettive di sviluppo

Da questa breve rassegna emerge un fenomeno interessante e diffuso, di cui generalmente non si occupano le politiche, in quanto ritenuto, a torto o a ragione, economicamente poco rilevante. D’altra parte, sono sempre di più gli amministratori che si rendono conto dell’importanza crescente che questa nuova agricoltura acquista per la gestione del territorio e per la coesione sociale. Ne è dimostrazione il numero crescente di iniziative di comuni che si mobilitano per il recupero di aree abbandonate o marginali attraverso l’assegnazione di spazi ad associazioni, cooperative, organizzazioni con l’obiettivo di riqualificare il territorio e offrire spazi ai cittadini.
Il rischio, però, analizzando queste esperienze con uno sguardo superficiale, è di considerare solo le caratteristiche e le implicazioni positive e di non accorgersi, anche, delle difficoltà e dei loro limiti. Uno dei problemi di questo tipo di agricoltura, ad esempio, è la scarsa competenza tecnica degli addetti, che spesso non conoscono sufficientemente le tecniche colturali (scelta delle varietà, metodi di coltivazione, potatura, irrigazione, fertilizzazione, ecc.) e rischiano di vedere vanificati i propri sforzi e non ottenere il prodotto sperato. La mancanza di competenze fa anche sì che a volte i siti individuati (dai singoli o dalle amministrazioni pubbliche che li mettono a disposizione) non siano adatti all’attività agricola perché contaminati da sostanze pericolose (piombo, rame, ecc.) o vicine a impianti o strutture inquinanti (fabbriche, autostrade o strade a grande percorrenza, ferrovie, ecc.) e che i prodotti risultino quindi pericolosi per la salute degli inconsapevoli produttori e consumatori.
Altre volte, l’uso inconsapevolmente errato di agenti chimici provoca l’inquinamento del terreno (magari situato vicino a falde acquifere o in prossimità di aree verdi, parchi, superficie agricole biologiche) e produce danni ambientali (ed economici) rilevanti.
Sarebbe dunque utile avviare una riflessione su possibili ambiti in cui intervenire con azioni di supporto allo sviluppo e al sostegno di queste esperienze, senza tuttavia intaccarne con meccanismi di istituzionalizzazione o convenzionalizzazione le potenzialità innovative (per modalità progettuali, partecipazione e autodeterminazione, processi realizzativi, ecc.).
Un primo tipo di intervento, vista la rilevanza del fenomeno, riguarda le amministrazioni pubbliche che potrebbero porsi il problema della gestione di questo fenomeno non solo per quanto riguarda le modalità di assegnazione dei terreni e delle strutture, ma anche dando indicazioni precise rispetto ai luoghi in cui poter svolgere tali attività e alle norme da rispettare. Il sistema dei servizi di sviluppo agricolo delle regioni, laddove non eccessivamente carente di personale e strutture, ad esempio, potrebbe intervenire con iniziative di informazione, sensibilizzazione e divulgazione dei sistemi di produzione a basso impatto ambientale. Anche il settore che si occupa di educazione alimentare potrebbe intervenire sui produttori/consumatori con un adeguato programma informativo e formativo che introduca gli elementi di base di una corretta alimentazione (equilibrio tra i nutrienti, stagionalità, quantità, ecc.) e conservazione degli alimenti (ad esempio per la realizzazione di conserve e composte) e un’attenzione alla qualità e salubrità degli stessi.

Riferimenti bibliografici

  • Brunori G. (2010), Lo sviluppo rurale tra processi di cambiamento e nuovi paradigmi, in Agriregionieuropa n. 20 [link]

  • Klerkx L., van Mierlo B., Leeuwis C., Evolution of systems approaches to agricultural innovation: concepts, analysis and interventions

  • Milone P. (2009), Agricoltura in transizione. Un’analisi delle innovazioni contadine. Donzelli Editore, Roma

  • Senni S., Verso il superamento della dicotomia urbano-rurale, Il Ponte, Vol. LVIII, ott.- nov., 2002

  • Sotte, F., 2006, Quante sono le imprese agricole in Italia?. AgriRegioniEuropa (Are), 2(5), pp. 12-16 [link]

  • Weber F. (1998), L’Honneur du Jardinier, Les potagers dans la France du xxe siècle. Paris : Belin

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