Competizione tra energia e cibo. La produzione di energia da biogas nella Pianura Padana

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Competizione tra energia e cibo. La produzione di energia da biogas nella Pianura Padana
a Università di Trieste, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali

Introduzione

Le competizione per la terra è un fenomeno molto complesso, frutto dell’interazione di una molteplicità di fattori che ne sono la causa. Produzioni feed-food, infrastrutture, urbanizzazione, attività estrattive, conservazione ambientale sono gli utilizzi del suolo che in un paese carente di grandi spazi aperti come l’Italia entrano in competizione. Alla tradizionale competizione per la terra, da qualche anno si è aggiunto anche il fattore energetico.
Negli ultimi anni, la pianura Padana ha visto il proliferare di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Fotovoltaico a terra, impianti a biogas, centrali a biomasse sono le principali tecnologie che implicano un utilizzo diretto e indiretto di suolo. Gli impianti fotovoltaici occupano direttamente terreno agricolo, mentre biogas e biomasse hanno bisogno di vaste estensioni per la coltivazione di colture energetiche dedicate.
Le differenti possibili destinazioni d’uso dei terreni stanno dando vita ad una competizione per la terra, che è frutto della combinazione di diversi fattori: a livello globale sta crescendo e cambiando drasticamente la domanda di prodotti alimentari, si stanno modificando i modi di approvvigionamento energetico a causa dell’esaurirsi delle risorse fossili e gli organismi di governo, su diversi livelli, adottano politiche per contrastare il cambiamento climatico che hanno conseguenze secondarie sull’utilizzo della terra. Politiche per il clima, fabbisogno energetico ed alimentare sembrano non trovare una integrazione sostenibile sui territori, tanto è vero che a livello internazionale si inizia a parlare di “food-energy-environment trilemma” (Tilman e altri, 2009).
La questione è molto complessa e difficile da districare. Il land use change (Luc) diventa complesso in un sistema nel quale interagiscono mercati locali e mercati internazionali delle commodities, per cui le modificazioni d’uso dei terreni non sono immediatamente visibili a livello locale, ma si manifestano in modo indiretto (iLuc), coinvolgendo luoghi diversi del pianeta. Per questo motivo l’articolo intende circoscrivere l’ambito di analisi alla produzione di energia da biogas nel Nord Italia, per provare a tracciare alcune dinamiche e comprendere i nessi causali tra modi di organizzare la produzione di energia e conseguenze nell’utilizzo del suolo. Gli obiettivi sono perciò minimi rispetto alla complessità del tema della food-fuel competition: capire quali legami esistono tra stili organizzativi della produzione di energia da biogas e consumo di suolo. La competizione con il cibo viene vista da un punto di vista quantitativo, ma anche da un punto di vista qualitativo, indagando il legame tra energia e filiere di qualità.

Land use change ed energie rinnovabili

Il tema della competizione per l’utilizzo della terra ha riacquistato una rilevanza nella letteratura internazionale a partire dalla diffusione massiccia delle energie rinnovabili. In particolare, la maggior parte degli studi si concentra sulle conseguenze della diffusione degli agrocarburanti su scala industriale, considerati come principali competitori della produzione di cibo (Carrosio, 2011). A livello italiano, tuttavia, è stata rivolta poca attenzione a questo problema. Nel nostro paese pochi terreni sono stati convertiti a colture energetiche destinate alla produzione di agrocarburanti, ma si sono diffusi in maniera molto rapida impianti a biomasse, digestori per la produzione di biogas e grandi impianti per il fotovoltaico a terra. Essi, in forme diverse, implicano l’utilizzo di vaste porzioni di terreno. Nel caso del fotovoltaico abbiamo una occupazione diretta di terreno per l’installazione dei pannelli (Frascarelli e Ciliberti, 2011). La diffusione di grandi impianti a terra ha avuto una accelerazione grazie a tariffe incentivanti molto allettanti per i grandi investitori, ma ha subito una brusca frenata in seguito alla revisione delle modalità di incentivazione. Gli impianti a biomasse, invece, sono spesso localizzati nelle aree industriali, ma richiedono grandi porzioni di territorio per il loro approvvigionamento. Esse possono essere alimentate da biomasse legnose provenienti dalla gestione locale dei boschi (Carrosio, 2010), da short rotation forestry, da sottoprodotti delle lavorazioni industriali come gli scarti di segheria o agroindustriali come i gusci di nocciola. Nel caso dell’utilizzo di piante a crescita rapida o di colture energetiche come il miscanto, solitamente il raggio di approvvigionamento è prossimo alla centrale, ma spesso il cippato legnoso proviene dai mercati internazionali.
Gli impianti a biogas, invece, utilizzano soprattutto un mix di deiezioni animali e colture dedicate. Mais, sorgo e triticale sono le colture a più alta resa durante il processo di digestione anaeorobica. Il raggio di approvvigionamento è solitamente prossimo al digestore, per ottimizzare i costi di produzione e per avere stabilità nei costi delle materie prime. A livello quantitativo, si tratta della fonte di energia rinnovabile che ha il più alto impatto sull’utilizzo dei suoli nel nostro Paese. Anche per questo, sono ormai decine i comitati di cittadini che si oppongono in maniera più o meno radicale alla autorizzazione di alcune tipologie di impianti, in particolare gli impianti molto standardizzati con taglia 999 KW, che si sono diffusi come conseguenza di una incentivazione statale molto generosa (Carrosio, 2012).
Per ogni tipo di fonte energetica e di materia prima utilizzata, perciò, si aprono scenari differenti per quanto riguarda il consumo di suolo. In alcuni casi le biomasse vengono coltivate in ambiti locali, in altri casi vengono importate incidendo sul consumo di suolo in altri paesi, in altri casi provengono dagli scarti di altre lavorazioni, trovando una integrazione nelle filiere agroindustriali.
I due concetti che vengono utilizzati in letteratura per indagare il rapporto tra cibo ed energia (ma in particolare per valutare il bilancio di emissioni di CO2 delle produzioni agroenergetiche) sono land use change e indirect land use change. Il primo indica il cambio diretto di destinazione d’uso dei suoli, come è ad esempio la sostituzione di una coltura con un’altra, oppure l’occupazione da parte di colture energetiche (o pannelli fotovoltaici) di una porzione di terreno utilizzata in precendenza a scopi alimentari. Il Luc è facilmente misurabile, in quanto visibile. L’iLuc, invece, indica il cambio indiretto di destinazione d’uso di un terreno ed è conseguenza del Luc. Ad esempio, quando si occupa un terreno con pannelli fotovoltaici, le colture presenti in precedenza devono essere reperite altrove, incidendo perciò sull’utilizzo dei terreni in altre aree più o meno lontane (Carrosio, 2012b). Questo secondo fenomeno è nella maggior parte dei casi difficilmente tracciabile e misurabile, e le conseguenze dipendono molto da quale tipo di ordinamento si è andati a intaccare.
Anche per provare a capire come la diffusione del biogas in Italia possa incidere su land use change e indirect land use change, è importante indagare i modelli socio-organizzativi con i quali gli impianti di produzione di energia prendono forma: a seconda delle modalità di organizzare l’approvvigionamento e l’utilizzo delle biomasse, esistono conseguenze anche molto differenti nell’utilizzo della terra e nel rapporto con le altre destinazioni che le colture agricole possono avere.
Oltre a questo tipo di considerazioni, esiste un secondo modo di approcciare la relazione tra produzione di energia e cibo. Si tratta di capire se l’ingresso del sistema energetico all’interno dei sistemi agroalimentari possa portare a mutamenti di carattere qualitativo, incidendo nelle filiere che si contraddistinguono per la qualità dei prodotti finiti. Ad esempio, il cambio di ordinamento colturale (da feed a energy crops) può fare sì che l’alimentazione nella zootecnia si apra a mercati esteri difficili da tracciare, o ancora che alcune pratiche legate ai digestori di biogas portino ad un indebolimento e dequalificazione delle filiere. Facciamo riferimento, in questo caso, al dibattito sul rapporto tra digestato e fertilità dei suoli e tra digestato e proliferazione dei clostridi nel Parmigiano Reggiano.
Nei prossimi due paragrafi, affronteremo le due tematiche, ovvero la relazione cibo energia da un punto di vista quantitativo (come cambia l’utilizzo dei suoli) e da un punto di vista qualitativo (quali conseguenze sulle filiere agroalimentari di qualità).

Impianti a biogas e occupazione di terreno agricolo

Le tipologie di impianti a biogas (potenza installata e matrici utilizzate per l’alimentazione del digestore) e l’evolversi dei modelli organizzativi nel corso degli anni sono in larga misura funzione dell’intreccio di più dimensioni: le politiche di incentivazione per la produzione di energia elettrica e la presenza o meno di normative regionali, tese a regolamentare la diffusione degli impianti sui territori; gli stili aziendali delle singole aziende agricole (van der Ploeg, 1994) nelle quali è stato adottato l’impianto e l’esistenza di aree più o meno caratterizzate da filiere agroalimentari di qualità, nelle quali vigono disciplinari di produzione, come il Parmigiano Reggiano.
Tutti gli impianti installati al 31/12/2012 hanno avuto, come regime di incentivazione, un sistema tariffario che ha favorito soprattutto la diffusione di impianti da 999 KW, grazie alla tariffa omnicomprensiva di 28 centesimi a KWh (per i dettagli vedi Carrosio, 2012a).
Il sistema incentivante si è integrato con gli stili aziendali prevalenti delle aziende zootecniche, orientate ad una continua modernizzazione del proprio sistema produttivo, attraverso l’introduzione di nuove tecnologie che portano ad una sempre più marcata artificializzazione (Altieri, 2002). Il problema dei nitrati, ad esempio, non viene risolto recuperando una proporzione tra numero di capi e terreni disponibili per lo spandimento, ma viene affrontato grazie ad una escalation tecnologica: la produzione di energia da biogas diventa funzionale all’installazione di uno strippatore di ammonio, sistema molto energivoro per abbattere i nitrati che consente di riportare l’azienda nei parametri imposti dalla Direttiva Nitrati.
Gli impianti da 999 KW, molto standardizzati, funzionano nella quasi totalità grazie ad un mix di deiezioni animali (20%) e colture energetiche (80%). Mais, sorgo e triticale vengono coltivati in prossimità dei digestori, sostituendo la produzione di mais per l’alimentazione animale. In media, un impianto di questa taglia, ha bisogno di 200 ettari di terreno coltivati a colture dedicate. Si stima che nel Nord Italia, gli impianti a biogas di questa taglia siano circa 300, per un totale di circa 60.000 ettari di terreno dedicato (Carrosio e Osti, 2012). Non abbiamo la possibilità di definire con certezza come questa occupazione di terreno abbia inciso sulle dinamiche locali ed extralocali in termini di cambio di destinazione d’uso dei suoli. Sicuramente nella maggior parte dei casi, questi terreni erano precedentemente coltivati per la produzione di mangimi animali. Mangimi che ora devono essere reperiti altrove.
Emerge perciò, come impianti medio-grandi che utilizzano anche matrici vegetali per il funzionamenti dei digestori, portino ad una pressione sulla terra: le colture energetiche sostituiscono quelle dedicate alla alimentazione animale, che devono essere approvvigionate sul mercato.
Impianti di taglia inferiore, invece, organizzati secondo una logica di chiusura dei cicli aziendali e alimentati esclusivamente a deiezioni animali non hanno alcun tipo di impatto sull’utilizzo della terra. L’ordinamento colturale non subisce modifiche e la produzione di energia viene concepita come uno strumento di chiusura di alcuni cicli ecologici.

La questione dei clostrìdi: un caso di trade-off tra politiche energetiche e sistemi agricoli di qualità

Un secondo aspetto, più qualitativo, è il rapporto tra produzione di energia da biogas e filiere agroalimentari di qualità. Il diffondersi di impianti medio-grandi che utilizzano come matrici sia effluenti zootecnici che insilati di sorgo o mais, ha aperto un dibattito sul rischio di proliferazione dei clostridi nelle catene alimentari.
Facciamo riferimento all’acceso dibattito emerso attorno alla Delibera numero 51 del 26 luglio 2011 dell’Assemblea legislativa dell’Emilia Romagna, che ha definito le disposizioni per la localizzazione degli impianti a biogas, introducendo livelli di attenzione particolare per il territorio regionale che rientra nell’area del Parmigiano Reggiano. Questo territorio non è considerato idoneo agli impianti che “utilizzano silomais o altre essenze vegetali insilate, fatto caso il residuo del processo di fermentazione (digestato), tal quale o trattato, avvenga in terreni ubicati all’esterno del medesimo comprensorio”. Questa decisione è stata presa per evitare un incontrollabile incremento della contaminazione con spore di clostridi degli ambienti di produzione del latte, a seguito dell’utilizzo di insilati in associazione a effluenti zootecnici negli impianti a biogas e successivo spandimento dei digestati sui terreni a foraggere destinate all’alimentazione delle bovine da latte. I clostridi si moltiplicano durante la digestione anaerobica ed entrando nelle catene alimentari interferiscono con il processo di fermentazione del Parmigiano Reggiano, generando anidride carbonica all’interno delle forme.
All’origine dell’intervento della Regione Emilia Romagna vi è uno studio del Crpa (2011) teso a verificare gli effetti del processo di digestione anaerobica sulla presenza di spore di clostridi introdotte negli impianti a biogas tramite liquami e colture dedicate. La sperimentazione ha dimostrato come il digestato proveniente dalla digestione di soli liquami abbia un contenuto di spore nettamente inferiore rispetto a quello ottenuto da liquami addizionati di insilati. In sostanza, nel caso di soli liquami le spore non si riproducono in modo significativo durante il processo anaerobico, ma nel caso in cui si utilizzino anche colture dedicate si è registrato un aumento importante. Per questo motivo la Regione ha cercato di evitare la produzione di biogas da insilati nelle aree soggette al disciplinare del Parmigiano Reggiano per scongiurare conseguenze negative sulla filiera di un prodotto così importante per l’economia agroalimentare locale.
La questione è però ancora molto dibattuta e coinvolge movimenti di protesta sorti attorno alla costruzione di impianti a biogas che utilizzano insilati di mais. Alcuni ritengono che il regolamento della Regione non sia abbastanza stringente, altri sostengono che sia parimenti critica la produzione di biogas anche soltanto con liquami zootecnici (Sahlström, 2003), sottolineando come durante la fermentazione anaerobica le spore di clostridi si trovino in una condizione ottimale per moltiplicarsi.
La critica al regolamento si muove a partire dalla possibilità degli allevatori aderenti al consorzio del Parmigiano Reggiano di reperire il 25% del foraggio all’esterno del comprensorio della Dop, sia in Italia che all’estero. Su questo foraggio è difficile mantenere il controllo e potrebbe anche provenire da aziende che producono biogas attraverso insilati, spargendo poi il digestato sui terreni.
La Regione Piemonte, sulla scorta delle problematiche sorte in conseguenza della diffusione degli impianti, ha deliberato un disciplinare su tutti gli impianti a biomasse, introducendo delimitazioni molto importanti per le aree coinvolte nelle coltivazioni di prodotti di qualità. Le linee guida limitano di molto la possibilità di produrre energia da biogas con insilati nelle aree dove vi siano produzioni di qualità e filiere agroalimentari pregiate.

Considerazioni finali

Sul tema della competizione tra cibo ed energia vi è ancora molto da fare. In questo articolo, riducendo il campo di indagine al settore del biogas agricolo in Italia, abbiamo più che altro impostato un ragionamento metodologico su come affrontare la questione introducendo degli elementi di natura più qualitativa. Il rapporto tra produzione di cibo e di energia non si esaurisce, infatti, con il tema della competizione per l’utilizzo della terra, sul quale è necessario avere più conoscenze per riuscire a quantificare in modo rigoroso i cambiamenti nelle destinazioni d’uso. Bisogna indagare quali sono le conseguenze dell’intreccio tra sistemi energetici nascenti e sistemi agricoli sedimentati: nel caso che abbiamo accennato, se l’introduzione di tecnologie per la produzione di energia e alcuni modi di organizzare i processi possono incidere sulle filiere agroalimentari determinando inediti effetti secondari negativi. Sul tema specifico siamo di fronte ad una controversia, che coinvolge saperi esperti e ha risonanza pubblica attraverso l’azione di movimenti di protesta che per svariati motivi si oppongono alla realizzazione di alcuni impianti. Probabilmente alcuni sottovalutano il rischio della proliferazione dei clostridi ed altri lo sopravvalutano, ma è difficile come osservatori dipanare la questione e capire dove si potrebbe collocare la posizione più verosimile. Come in ogni controversia scientifica, è difficile capire dove inizia e dove finisce la neutralità del sapere scientifico e dove invece agiscono gli interessi degli attori in campo.
Di fatto, le politiche di incentivazione hanno già accolto alcune istanze di chi ha sviluppato ragionamenti critici sulla proliferazione degli impianti: i nuovi sistemi di incentivazione premiano gli impianti di taglia inferiore e che utilizzano i sottoprodotti anziché le colture dedicate, perseguendo una logica di integrazione (e non competizione con i sistemi agroalimentari). Fino ad oggi, però, gli impianti operativi sono sorti sulla scia del vecchio sistema di incentivazione e sarà necessario mantenerli monitorati per capire come e se interferiranno sul medio-lungo periodo.

Riferimenti bibliografici

  • Altieri M.A. (2002), “Agroecology: the science of natural resource management for poor farmers in marginal environments”, in Agriculture Ecosystems and Environment, vol. 93, pp. 1-24

  • Carrosio G. (2010) Biomasse: Dobbiaco e Campo Ligure, in Osti, G. (a cura) La co-fornitura di energia in Italia. Casi di studio e indicazioni di policy, pp. 77-89, Edizioni Università di Trieste, Trieste

  • Carrosio G. (2011) I biocarburanti. Globalizzazione e politiche territoriali, Carocci, Roma

  • Carrosio G. (2012) La produzione di energia da biogas nelle campagne italiane: una storia di isomorfismo istituzionale, in Studi Organizzativi, numero 2/2012 (in corso di stampa)

  • Carrosio G. (2012) Beyond the Sustainability of Exception: Setting Bounds on Biofuels, Sociologica, numero 2/12

  • Carrosio G., Osti G. (2012) Conflitto cibo-energia ed oltre: il caso degli impianti a biogas del Nord Italia, in Agricoltura Istituzioni Mercati, numero 2/3 (in corso di stampa)

  • Crpa (2011), Biogas e Parmigiano Reggiano: una coesistenza possibile?, in I supplementi di Agricoltura, numero 48, pp. 24-28

  • Frascarelli A., Ciliberti S. (2011), Impianti fotovoltaici a terra. C'è convenienza fino al 2013, Terra e Vita, n. 34, Bologna

  • Ploeg van der J.D. (1994), “Styles of farming: an introductory note on concepts and methodology”, in Ploeg van der (eds) Born from within: practice and perspectives of endogenous rural development, Assen, Van Gorcum

  • Tilman D., Robert H., Socolow, J. A. Foley, J. Hill, Eric Larson, L. R. Lynd, Stephen W. Pacala, J. Reilly, Timothy Searchinger, C. Sommerville, and Robert H. Williams (2009) Beneficial Biofuels - The Food, Energy, and Environment Trilemma. Science, Washington, D.C., American Association for the Advancement of Science, 325(5938), doi:10.1126/science.1177970 270-271

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Comments

Ho letto il tuo articolo sull'impatto delle colture agroenergetiche sui sistemi agricoli padani.
 
Pur concordando nella sostanza mi preme far osservare che anche gli impianti (pochi) a soli o prevalenti liquami hanno un impatto che non si puo' trascurare: la diminuzione dell'apporto di carbonio allo stock del carbonio organico del terreno. Nei suoli padano l'uso di concimi chimici, la riduzione delle restituzioni di residui colturali, le intense e profonde lavorazioni con conseguente mineralizzazione dealla s.o. Hanno portano una drastica riduzione della s.o. Stessa sotto il 2%. Con conseguenze su erosione, capacita' idrica ecc.
 
L'idea che i reflui siano un rifiuto da far sparire e' molto diffusa ma dal punto di vista agronomico e' di una gravita' inaudita. Che poi ci siano agronomi accademici che spingano x biogas e rimozione nitrati e' questione di marchette.
 
Le conseguenze piu'  macroscopiche dell'impatto del biogas si osservano a Cremona. Varrebbe la pena concentrare qui uno studio. di certo e' aumentato import mangimi e prezzo affitto terreni. Nel lungo periodo potrebbe verificarsi una falcidia di aziende con concentrazione ulteriore in grandi unita' iperindustrializzate con elevatissimi carichi zootecnici e grandi impianti di produzione solfato ammonico, defosforilazione ecc. Una tendenza a cui spigono le lobby industriali e academiche e che la regione asseconda passivamente.
 
 
 
Cordiali saluti
 
 
 
Prof michele corti
 
Unimi -  defens
 
Docente di zootecnia
 
 

Commento originariamente inviato da 'Michele Corti' in data 02/07/2013.