Abstract
L'articolo propone di coordinare il tema dell'accesso alla terra con quello dell'amministrazione dei beni collettivi attraverso lo strumento della ricognizione messo a disposizione dei comuni. Nel testo, l’autore passa in rassegna alcuni strumenti legislativi rintracciandone un’utilità pratica ai fini della mappatura delle risorse collettive.
Diritto d'uso e beni collettivi in Calabria
Sempre più di frequente viene segnalato che la qualità della vita dipende, almeno in una certa misura, dal grado di cura dei beni comuni (Arena, 2021). Ciò è tanto più rilevante per una regione come la Calabria nella quale abbondano, in specie nelle aree interne e montane, assetti ascrivibili alla titolarità diffusa degli abitanti o soggetti a diritti d’uso civico. Già le rilevazioni statistiche, seppur parziali, avevano dato un’indicazione in tal senso (Istat, 2010) facendo emergere un profilo quantitativamente importante (Oliverio, 2018).
Sotto la lente qualitativa, invece, è emerso che anche attraverso un uso socialmente orientato della terra si possono soddisfare esigenze e diritti ascrivibili alla persona costituzionalizzata (Rodotà, 2012). Le esperienze dei domini collettivi – pur nella loro pluralità e complessità – testimoniano questa capacità e l’attitudine di questi sistemi istituzionali terzi (Olori, Oliverio, 2021) ad essere persistenti, adattivi e di garantire condizioni di equilibrio sociale ed ecologico laddove l’interesse del gruppo prevale su quello del singolo. In questi sistemi istituzionali le condizioni individuali più favorevoli non possono realizzarsi se non attraverso il raggiungimento delle condizioni più favorevoli anche per il gruppo (Oliverio, 2020a).
In una regione come la Calabria la questione del diritto d’uso dei beni collettivi ha una rilevanza strategica anche per il fatto che la vita di una larga quota di abitanti, fino agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, è stata «segnata nella carne» dalla vicenda degli usi civici, pure perché attraverso questi antichi diritti le popolazioni calabresi sono riuscite a sopravvivere per un migliaio d’anni (Piperno, in corso di stampa). Evidentemente, nel corso storico, sono intervenuti notevoli cambiamenti che, in nome dello sviluppo, hanno indotto la Calabria a crescere allontanandosi dalle sue radici storico-culturali (Greco, 2012). Mutamenti che hanno attenuato la memoria dei luoghi e delle risorse collettive sulle quali si concentrava la cura delle antiche popolazioni, a vantaggio di una economia implementata dal di fuori e dipendente dalle aree forti ed industrializzate.
Oggi non sarebbe di certo facile un lavoro antropologico che risvegli la memoria assopita da un giorno all’altro e ricostruisca pratiche un tempo molto diffuse. Non si può, come afferma Tonino Perna (in corso di stampa), riportare indietro l’orologio della storia e decidere che le nuove generazioni, non più solite a governare delle risorse collettive, reinventino queste pratiche. Come che sia, qualsiasi passato recuperato può difficilmente essere fatto funzionare nel presente senza grandi adattamenti (Pellizzoni, 2018).
È, quindi, complesso il compito di rintracciare e sperimentare forme innovative che riattualizzino il senso dell’autogoverno in un mutato scenario caratterizzato da un neoliberismo in crisi e da una esigenza di ritorno alla terra come forma di resistenza (Ploeg, 2015).
Tutte queste considerazioni – seppur espresse con riguardo a soli aspetti fondamentali, generali – trovano spazio nel dibattito sullo sviluppo delle aree interne e sul governo dei territori rurali o semi-rurali fragili (Oliverio, 2019) quando, ad esempio, ci si interroga sulle possibilità di riabitarli (Oliverio, 2020). Il diritto d’uso entra fra i temi del dibattito: «torna centrale il tema dell’uso e delle pratiche d’uso ben oltre le categorie residenziali, se si vuole tornare a ragionare con criterio di abitare le aree marginali» (Olori, 2021: 196).
Il tema dell'accesso alla terra in Calabria. La Legge Regionale n. 31/2017
Il Consiglio Regionale della Calabria ha approvato, nella seduta del 29 giugno 2017, la legge n. 31 «Disposizioni per favorire l’accesso dei giovani al settore primario e contrastare l’abbandono e il consumo dei suoli agricoli» che – in attuazione delle norme costituzionali di tutela del paesaggio e di equità nei rapporti sociali attraverso l'imposizione legislativa di obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata (artt. 9 e 44 Cost.) – detta alcuni principi per la tutela e la conservazione del suolo, definito «bene comune», quale elemento determinante per la tutela del paesaggio, per la prevenzione del dissesto idrogeologico e per la valorizzazione delle produzioni agroalimentari di qualità.
La legge, inoltre, impegna la Regione a promuovere interventi mirati per contrastare l’abbandono delle coltivazioni, per sostenere il ricambio generazionale in agricoltura e per rendere pubblico, entro il 31 dicembre di ogni anno, l’elenco dei terreni agricoli e a vocazione agricola di sua proprietà e degli enti strumentali da essa controllati e partecipati «per l’assegnazione a giovani agricoltori singoli o associati».
La Legge Regionale dispone ancora che entro sei mesi dalla data di entrata in vigore anche «i comuni provvedono al censimento dei terreni agricoli o a vocazione agricola appartenenti al proprio patrimonio». Una richiesta di impegno che, però, collide con la noncuranza degli enti locali verso il tema della ricognizione e del monitoraggio delle terre pubbliche. Tale censimento sarebbe di sicura utilità ed importanza in considerazione che la mancanza di puntuali verifiche sullo stato dei terreni contribuisce a determinare condizioni di sottoutilizzo e di degradazione paesaggistica.
La Legge Regionale introduce, in un disposto legislativo vincolante, il tema dell’accesso alla terra, ma mancano indicazioni circa le condizioni d’uso cui gli agricoltori dovrebbero attenersi nello svolgimento della loro attività.
La questione dell'accesso alla terra, in un contesto di elevata disoccupazione giovanile e di un insoddisfacente ricambio generazionale nell'imprenditorialità agricola (Consiglio regionale della Calabria Seconda Commissione, 2017), è un tema importante che si cerca di affrontare con una prima norma regionale. Essa si colloca, però, in un quadro di azione legislativa non propriamente unitario, organico e coerente che, dentro il tema dell'accesso alla terra dovrebbe disciplinare aspetti molteplici a partire dal diritto d'uso con la connessa potenzialità derivante dalla ricchezza dei beni collettivi. Parlare oggi di accesso alla terra senza una organica e chiara formulazione delle modalità di gestione delle terre collettive, e delle terre degli enti più in generale, senza dare indicazione delle forme di agricoltura possibili (agroecologia, multifunzionalità, etc.) significherebbe rischiare di proporre delle soluzioni confacenti più alle esigenze di cassa poste dai vari governi e dalle amministrazioni pubbliche che a quelle delle aree fragili, delle zone rurali e dei loro abitanti vecchi e nuovi. Oltretutto, detto per inciso, la questione agraria del nostro tempo, a maggior ragione in una Regione a vocazione agricola come la Calabria, potrebbe essere solo difficilmente affrontata senza tener conto del diritto alla sovranità alimentare, del controllo della produzione (McMichael, 2016) e del controllo delle risorse (Corrado, 2010).
Come accennato, un lavoro di censimento e mappatura risulta prodromico ad ogni iniziativa che voglia riattivare pratiche d’uso e d’accesso diffuso ai beni collettivi. Attraverso il lavoro di ricognizione e riordino delle terre, si potrebbe non solo inventariare il patrimonio terriero – con una elencazione dei beni fondiari, che potrebbe tra l’altro anche risultare da documenti catastali e inventari redatti a scopi diversi – ma si potrebbe procedere ad un censimento terreno per terreno per stabilire lo stato dei luoghi: come i terreni si presentano, se e come sono utilizzati. Questo lavoro rientrerebbe negli obiettivi di sviluppo connessi alla cura del territorio.
L’utilità pratica degli strumenti legislativi per la ricognizione delle terre collettive
Nella legge si trovano alcuni strumenti utili allo scopo della ricognizione e dell’accesso.
Uno strumento legislativo di indubbia utilità è la legge n. 168/2017 “Norme in materia di domini collettivi”. Il legislatore nazionale ha ritenuto opportuno, con questa legge, dare forma normativa ai domini collettivi, ordinamenti che – seppur già esistenti – lottavano da lungo tempo per conquistare un riconoscimento proprio (Grossi, 2020). Si tratta di ordinamenti che non sono riconducibili alla concezione privatistica (Camera dei Deputati Servizio Studi, 2017), perché sono orientati verso la creazione di ricchezza comune – ambientale, sociale, simbolica, culturale – piuttosto che verso il surplus monetario.
La Legge n. 168/2017 al comma 8 dell'articolo 3 recita: «Negli eventuali procedimenti di assegnazione di terre definite quali beni collettivi […], gli enti esponenziali delle collettività titolari conferiscono priorità ai giovani agricoltori».
Nel caso delle terre collettive, i comuni si configurano come enti gestori e non come proprietari, non esiste, quindi, nel caso di questi beni, una autorità esterna alla comunità preposta a prendere da sé le decisioni che riguardano il governo della risorsa dal momento che la titolarità dei diritti civici e delle proprietà collettive non è in capo all'ente pubblico, né tanto più questi diritti hanno natura strettamente privata.
Un altro strumento legislativo è la Legge Regionale della Calabria n. 18/2007 “Norme in materia di usi civici”. Le indicazioni contenute in questa Legge Regionale sarebbero coerenti con la destinazione di una parte delle risorse per la verifica delle terre, al fine di acquisire un patrimonio di dati di cui non può più farsi a meno per una politica ambientale di tutela dei beni collettivi e di sviluppo territoriale sostenibile.
Obiettivi di questo genere, seppure aventi ad oggetto beni diversi, si rinvengono anche in iniziative come quella del Supporto Istituzionale alla Banca delle Terre (SIBaTer) a cui ha dato avvio il Decreto Legge 20 giugno 2017 n. 91 che, all’articolo 3, stabilisce che per rafforzare le opportunità occupazionali e di reddito dei giovani nelle regioni del Mezzogiorno si avvia, in modo sperimentale, una procedura di valorizzazione dei terreni abbandonati o incolti. In base al decreto, i comuni provvedono ad una ricognizione complessiva dei beni immobili di cui sono titolari con particolare riguardo ai terreni agricoli. Di anno in anno, l’elenco è aggiornato. La ricognizione è finalizzata alla pubblicazione di avvisi pubblici rivolti ai giovani di età compresa fra i 18 e i 40 anni per la concessione, dietro corresponsione di un canone d’uso, sulla base di una idea progettuale di valorizzazione. Un altro obiettivo della ricognizione è quello di inserire nella Banca delle Terre i beni censiti. In questo quadro, l’ANCI fornisce ai comuni delle regioni coinvolte un supporto istituzionale per individuare e censire i beni, avviare le procedure di valorizzazione con la pubblicazione degli avvisi pubblici e selezionare i progetti meritevoli. Allo scopo è stato istituito il progetto SiBaTer realizzato da ANCI e dalla fondazione IFEL.
Invero, la Banca delle Terre agricole è stata istituita con la legge n. 154/2016 e il suo fine è la cessione o la vendita dei terreni o delle aziende agricole che si rendano disponibili a seguito di abbandono o prepensionamento. La Banca delle Terre è alimentata sia con terreni derivanti da operazioni fondiarie realizzate dall’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (ISMEA) sia con terreni appartenenti ad enti pubblici.
L’iniziativa della Banca delle Terre ha in comune con alcune iniziative precedenti la dismissione dei beni pubblici anche attraverso la vendita. Il primo strumento strutturato di cessione del patrimonio statale è stato il decreto sul cosiddetto “federalismo demaniale” (Gallerano, 2013). Sul solco è poi intervenuto l’articolo 66 del cosiddetto “decreto liberalizzazioni” (D.L. 24 gennaio 2012 n. 1) sulla dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola al quale è stata data attuazione, nel 2014, con il progetto del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali – con il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia del Demanio – denominato “Terrevive” per lo sblocco della vendita o dell’affitto di terreni pubblici.
La Banca delle Terre evidentemente non ha – e non potrebbe avere – ad oggetto i beni collettivi per come definiti dalla legge n. 168/2017 che sono beni che non possono essere venduti, divisi, usucapiti, né possono passare alla proprietà individuale ed esclusiva del possessore anche a distanza di anni. In virtù di tale caratteristica, i beni collettivi non possono essere censiti nella Banca delle Terre per come disciplinata dalla legge n. 154/2016.
Le risorse collettive, non di rado, specie nel Mezzogiorno, costituiscono le risorse prevalenti: intere zone montane del Sud sono ascrivibili a tali beni. Si tratta, in generale, di beni che possono comunque essere assegnati, conferendo priorità ai giovani agricoltori, senza mai poter passare alla proprietà individuale ed esclusiva dell’assegnatario. Solo in questa chiave e perseguendo l’obiettivo della ricognizione, il progetto SiBaTer potrebbe incontrare i beni collettivi.
Anche i terreni rientranti nella proprietà pubblica non sono riconducibili ad una concezione privatistica, ma la gestione finanziaria dei beni pubblici, cui gli enti fanno spesso ricorso, comporta dei rischi. Primo fra tutti l’assottigliamento della demarcazione tra privato e pubblico: al nocciolo dell’uno c’è il potere dei proprietari di decidere come il bene debba essere usato; al nocciolo dell’altro, la qualità della vita e una produttività economica che produce effetti secondari positivi – cosiddette esternalità – per la collettività nel suo insieme (Wright, 2020).
A proposito di rischi, Petrini (2012), in un suo articolo, discuteva del pericolo che sui terreni pubblici si lanciassero a capofitto multinazionali e grandi corporations affamate di terra per le produzioni industriali e il Centro Internazionale Crocevia dimostrava in uno studio che il processo di concentrazione terriera in Italia ha ripreso vigore con l'1% delle aziende che controlla il 30% delle terre agricole (Conti, Onorati, 2012).
Ancora un altro strumento legislativo che, per i fini discussi, potrebbe avere una utilità pratica è il decreto legge 28 gennaio 2019 n. 4 «Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni» che prevede fra gli obblighi dei beneficiari percettori del reddito di cittadinanza quello di «offrire […] la propria disponibilità per la partecipazione a progetti a titolarità dei comuni, utili alla collettività, in ambito […] di tutela dei beni comuni». Uno dei modi per dare concreta attuazione a questa indicazione potrebbe essere quello di coinvolgere i beneficiari del reddito di cittadinanza in una attività presso i comuni calabresi finalizzata a riordinare le carte relative al patrimonio civico e alle proprietà comunali insistenti sul territorio e a costruire una mappatura.
Conclusioni. La necessità ecologica della ricognizione delle terre
Come osservato, le leggi impegnano gli enti territoriali a intraprendere censimenti e ricognizioni, ma queste indicazioni non sempre trovano realizzazione. D’altronde portare a compimento una ricognizione delle terre collettive e delle terre degli enti più in generale non è cosa facile. Paolo Cinanni (1987) proponeva l’istituzione di cento borse di studio per coinvolgere gli studenti in un lavoro di verifica e riordino degli archivi comunali. Una proposta che potrebbe essere riattualizzata.
La mappatura potrebbe avere un valore in sé, un valore non mercantile, ma espresso in termini d’uso. I beni collettivi sono, infatti, al centro di una rinnovata attenzione per il loro profilo ecologico, di tutela del paesaggio e di mantenimento degli equilibri ecosistemici spesso minacciati da attività economiche che perseguono l’obiettivo dell’aumento della redditività senza considerazione per la capacità delle risorse di reggerne l’impatto in termini di capacità di rigenerazione (Pieroni, 2002).
In questa direzione e dopo la ricognizione, «i Comuni, [anche] per scongiurare ogni rischio di concentrazione fondiaria, potrebbero avviare delle politiche per favorire l’accesso alla terra sulla base di progetti improntati all’agroecologia e alla multifunzionalità, preservando la destinazione dei beni per le generazioni a venire» (Oliverio, 2018). Se esiste una abbondanza di terre civiche e di terre pubbliche inutilizzate (Bevilacqua, 2015; Trunzo, Gaudio, 2016); se l’agricoltura, in specie quella contadina, è da considerare come un importante “datore di lavoro” e si presenta oggi come il «solo» meccanismo adatto a contrastare la disoccupazione e i livelli di reddito bassi (Ploeg, 2015), una politica per l’accesso alla terra, coerentemente partecipata, potrebbe contribuire a favorire uno sviluppo rurale cooperativo e a creare nuove opportunità di impiego (Oliverio, 2018).
Infatti, le diseguaglianze nell’accesso all’insieme della ricchezza comune e al sottoinsieme dei beni che caratterizzano l’ambiente di vita e che possono essere utilizzati dai cittadini in ambito rurale, segnano una delle problematicità più rilevanti del nostro tempo (Barca, Luongo, 2020).
I territori oggi possano sopravvivere grazie all'attivazione di risorse che realizzino convergenze e comunanze (Magatti, 2006). La riappropriazione sociale e l'autogoverno delle risorse collettive, nel caso in questione la terra, possono rigenerare i territori colpiti da spopolamento, disoccupazione, bassi redditi, mancanza di opportunità e al contempo contribuire al mantenimento delle condizioni di compatibilità ecologica? Quelli che alcuni autori, con una formula convincente, chiamano the places left behind (Ulrich-Schad, Duncan, 2018) possono rinascere grazie all'attivazione di pratiche che puntino alla costruzione di una nuova governance per le risorse condivise che permetta di recuperare il controllo sulle condizioni di riproduzione e che dia ai lavoratori – in questo caso i nuovi agricoltori – la possibilità di decidere cosa, come, quanto e per chi produrre?
Sono domande che si inseriscono nel dibattito sullo sviluppo rurale e che restano aperte nella prospettiva di un confronto interdisciplinare nel territorio regionale calabrese.
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