Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2020. Un’alimentazione sana per un mondo #fame zero

Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2020. Un’alimentazione sana per un mondo #fame zero
Atti del Convegno online organizzato dal CREA il 30 ottobre 2020
a CREA, Centro di ricerca Politiche e Bioeconomia
b CREA, Centro di ricerca Olivicoltura, Frutticoltura e Agrumicoltura
c CREA, Centro di ricerca Olivicoltura, Frutticoltura e Agrumicoltura
d CREA, Centro di ricerca Olivicoltura, Frutticoltura e Agrumicoltura
e CREA, Centro di ricerca Politiche e Bioeconomia
f CREA, Centro di ricerca Politiche e Bioeconomia

Introduzione

Franco Gaudio

La giornata mondiale dell’alimentazione ricorda la fondazione, nel 16 ottobre 1945, dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO). Tra i suoi 17 obiettivi, la FAO ha quello di cercare di porre fine alla fame e di raggiungere la sicurezza alimentare nel mondo.
La FAO prevede che la domanda di cibo nel mondo aumenterà perché aumenterà la popolazione e il reddito disponibile per i paesi in via di sviluppo. Quindi, c’è più bisogno di quantità di beni alimentari, ma questa quantità di beni alimentari non si può ottenere utilizzando un suolo già sfruttato, aumentando la superficie di suolo, né tantomeno convertendo le aree boschive in aree agricole. In sostanza, bisogna produrre in maniera diversa. È necessario ridurre gli impatti ambientali, non sprecare cibo, e anche avere un consumo più consapevole dei beni alimentari. Pertanto, gli interventi di questo webinar vertono su come migliorare le produzioni agricole e come non sprecare cibo e consumare in maniera consapevole.
In particolare, i primi due interventi (di Santilli e Desando e di Romano) hanno evidenziato l’ecosostenibilità dell’uliveto in una fase di transizione tra i vecchi impianti tradizionali e quelli intensivi specializzati e le qualità nutrizionali dell’olio extravergine di oliva influenzate da diversi fattori, mentre il successivo (di Castellotti) si è soffermato sui prodotti di qualità calabresi. È seguito un approfondimento di Cimino su cosa si sta facendo dal punto di vista normativo per ridurre lo spreco di cibo. Infine, viene evidenziato da Amato l’uso della plastica in agricoltura.
La presentazione di Gabriella Lo Feudo si è soffermata su come conservare i cibi e sull’importanza della lettura delle etichette al fine di ridurre lo spreco di cibo che interessa il 44% dello spreco globale.
Gli ultimi due interventi sono riferiti a casi concreti in una azienda agricola e nella ristorazione (di Garrafa e Rossi). Nel primo caso viene evidenziato come uno scarto (il letame) può diventare una risorsa (impianto biogas). Nel caso concreto relativo alle attività del ristorante, per ridurre lo spreco, vengono sottolineati alcuni suggerimenti (la “doggy bag”, e il “rimpiattino”) che consistono nel portare con sé i resti del cibo non mangiato
Di seguito vengono presentati in dettaglio alcuni degli interventi della giornata.

L’ecosostenibilità dell’uliveto: gestire per riutilizzare

Elena Santilli e Manuela Desando

Per agricoltura sostenibile, dal punto di vista ambientale, si intende un’agricoltura rispettosa delle risorse naturali quali acqua, fertilità del suolo e biodiversità. La politica ambientale dell’Unione Europea ha tra i suoi obiettivi l’utilizzazione attenta e razionale delle risorse naturali incentivando le imprese e i consumatori a produrre e consumare in modo più efficiente e preservare le risorse per le generazioni future.
In un’ottica di sostenibilità ambientale, il settore olivicolo italiano si trova in un momento di transizione tra i vecchi impianti tradizionali e quelli intensivi specializzati. Da una parte troviamo l’olivicoltura tradizionale, predominante in Italia, caratterizzata da bassa densità d’impianto e bassa meccanizzazione, presente spesso in aree marginali con oliveti difficilmente gestibili per caratteristiche orografiche difficili; inoltre, le continue lavorazioni del suolo e le inadeguate sistemazioni idrauliche agrarie hanno determinato frequenti fenomeni di erosione e lisciviazione del suolo. Dall’altra iniziano ad affermarsi nelle aree pianeggianti del territorio nuovi impianti intensivi, caratterizzati da una maggiore densità d’impianto e da una meccanizzazione più spinta per ridurre i costi di gestione dell’oliveto. Con l’intensificazione colturale, però, possono aumentare le problematiche causate da patogeni e parassiti; in questo caso è importante indirizzare la difesa verso tecniche di gestione a basso impatto ambientale come l’adozione dell’olivicoltura biologica.
Le lavorazioni meccaniche tradizionali effettuate in modo irrazionale (arature profonde e successive lavorazioni complementari con frese o erpici) espongono il suolo a fenomeni di degradazione della sua struttura e fertilità con conseguente compattamento ed impoverimento di sostanza organica. In particolare, attraverso il passaggio continuo delle pesanti macchine operatrici si può andare incontro a fenomeni di compattamento che portano alla riduzione della porosità del suolo ed influiscono negativamente sullo sviluppo delle radici. Il continuo passaggio delle macchine può, inoltre, determinare erosione cioè una graduale e costante asportazione dello strato superficiale del suolo con conseguente riduzione della sua fertilità. Le lavorazioni del suolo possono determinare impoverimento della sostanza organica anche interferendo con i processi di umificazione e mineralizzazione. Una buona gestione del suolo è importante per il mantenimento della fertilità chimico-fisica e microbiologica del terreno e per il contenimento dei fenomeni di erosione superficiale.
Quindi, bisogna limitare il più possibile il disturbo del suolo senza invertire gli strati e favorendo l’incremento di sostanza organica. Ciò può essere raggiunto attraverso l’inerbimento. Questa pratica offre significativi vantaggi, quali: previene l’erosione del suolo; migliora la portanza del terreno; aumenta la capacità d’infiltrazione e accumulo dell’acqua negli strati più profondi del terreno; apporta sostanza organica nel suolo; mantiene la fertilità microbiologica del suolo. Le pratiche agricole intensive hanno un impatto negativo su tutti gli organismi che abitano il suolo. Un terreno fertile ospita un’ampia varietà di organismi che sono coinvolti in importanti processi come per esempio: regolano le dinamiche della sostanza organica del suolo, depurano l’acqua del terreno privandola delle sostanze inquinanti, controllano i parassiti (maggiore biodiversità significa maggiore presenza di predatori). I microrganismi del suolo (funghi, batteri, alghe, ecc.) degradano la sostanza organica nei suoi singoli costituenti chimici fornendo nutrimento alle piante. Tra gli invertebrati del suolo i più importanti sono i lombrichi: essi ingeriscono più volte la sostanza organica morta e le particelle minerali fino alla formazione di humus. Il loro movimento continuo nel terreno in senso orizzontale e verticale garantisce la redistribuzione della sostanza organica e migliora lo stato di aggregazione del suolo consentendo una migliore infiltrazione dell’acqua. Quindi, attraverso l’inerbimento, si favorisce l’aumento della biodiversità e si può creare col trascorrere del tempo un equilibrio biologico che permetterà di attenuare anche gli interventi di difesa delle piante. Nei terreni inerbiti, invece, si effettuano 2-3 sfalci all’anno per limitare la competizione di acqua ed elementi nutritivi tra olivi e terreno.
Lasciare i residui colturali sul suolo garantisce di mantenere un’ottimale porosità, una maggiore infiltrazione dell’acqua, riduce la pressione delle infestanti e riduce anche l’evaporazione. Inoltre, è importante incentivare il riutilizzo dei residui colturali come fonte alimentare degli organismi che abitano il suolo e riescono a svolgere una rapida decomposizione dei residui stessi in humus ed elementi nutritivi. Sempre più spesso i residui di potatura vengono trinciati per beneficiare del loro potere ammendante. Quindi, ciò che ieri veniva considerato uno scarto, diventa una risorsa. Per concludere si può affermare che oggi è importante promuovere l’agricoltura ecosostenibile attraverso una buona gestione dell’oliveto che comprenda anche il riutilizzo dei sottoprodotti al fine di ottenere prodotti di qualità e la tutela delle risorse naturali per le generazioni future.

La qualità dell’olio extravergine d’oliva dal campo alla tavola

Elvira Romano

Le caratteristiche qualitative dell’olio extravergine di oliva sono influenzate da diversi fattori: genetici (cultivar), pedoclimatici (clima e suolo), stadio di maturazione del frutto e tecniche colturali.
Il germoplasma olivicolo mondiale è costituito da circa 2629 varietà diverse (dati stimati dalla Divisione di Produzione e Protezione Vegetale del Germoplasma di Olivo della FAO), di cui sono 735 le cultivar italiane annoverate nel Registro nazionale delle varietà di piante da frutto. Il Centro di Ricerca CREA-Olivicoltura, Frutticoltura e Agrumicoltura sede di Rende (CS) detiene, presso l'Azienda Sperimentale dell’ARSAC di Mirto Crosia (CS), una delle più grandi collezioni del germoplasma olivicolo mondiale con 405 varietà italiane e 53 straniere, che rappresentano il 17% della biodiversità olivicola. Varietà diverse produrranno degli oli con caratteristiche chimico-fisiche e sensoriali differenti. Anche i fattori pedoclimatici possono influenzare le caratteristiche qualitative dell’olio prodotto: ad esempio, durante la fase di accrescimento del frutto, mentre forti carenze idriche possono essere responsabili della produzione di un olio caratterizzato dal difetto sensoriale di secco/legno, un’ampia disponibilità idrica può determinare, invece, una diminuzione del contenuto in composti fenolici nelle drupe e nell’olio. Per quanto riguarda lo stadio di maturazione delle drupe è stato dimostrato che la concentrazione in alcuni composti bioattivi (es. composti fenolici) è elevata all’inizio dell’invaiatura ma poi tende a diminuire con il tempo. Con il progredire della maturazione delle drupe è possibile riscontrare anche una variazione della componente acidica, con una tendenza all’aumento del rapporto tra acidi insaturi e saturi. Un’olivicoltura di qualità è inoltre influenzata dalle tecniche colturali adottate che devono proteggere la salute dell’ecosistema produttivo e salvaguardare la biodiversità.
La qualità originaria delle drupe deve essere tutelata anche durante le operazioni di raccolta delle olive, trasporto al frantoio, estrazione dell’olio e successiva conservazione: difatti, se le condizioni di lavorazione e stoccaggio non sono idonee è facile compromettere la qualità finale dell’olio prodotto. Ad esempio, il difetto di riscaldo-morchia è caratteristico dell’olio ottenuto a partire da olive ammassate o depositate in condizioni che hanno favorito un forte sviluppo della fermentazione anaerobica oppure dell’olio rimasto in contatto con fanghi di decantazione in serbatoi o vasche, che abbiano anch’essi subito processi di fermentazione anaerobica.
Ne consegue che, il percorso dal campo alla tavola è fondamentale per la produzione di oli di qualità, ma cosa s’intende per qualità? La qualità merceologica è definita dal Regolamento 2568/91 e s.m.i.  che stabilisce le caratteristiche degli oli d'oliva e degli oli di sansa d'oliva nonché i metodi ad essi attinenti. Diversi parametri analitici permettono di valutare le caratteristiche di qualità (es. acidità, indice di perossidi, valutazione organolettica) e di purezza (es. composizione in acidi grassi, ecc.) degli oli prodotti.  È sufficiente che una sola caratteristica non corrisponda ai valori indicati dal regolamento vigente, affinché un olio venga cambiato di categoria o dichiarato non conforme.  La qualità sensoriale e salutistico-nutrizionale, invece, è strettamente legata ai componenti bioattivi dell’olio e, in particolare, al contenuto in acido oleico, acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi, vitamina E, composti fenolici e composti volatili.  La qualità sensoriale, percepibile grazie all’olfatto e al gusto, può essere descritta con un fruttato più o meno intenso, che rappresenta il sapore delle olive al giusto grado di maturazione. Mentre gli oli prodotti da olive raccolte ad uno stato di maturazione precoce sono caratterizzati da un fruttato intenso, di tipo verde, amaro e piccante, gli oli ottenuti da olive raccolte ad uno stato di maturazione più avanzato presentano un fruttato maturo, meno intenso e meno amaro. In generale, gli oli di ottima qualità sono caratterizzati da un elevato livello di fruttato e un equilibrio tra amaro e piccante di media intensità. Per quanto concerne la qualità salutistico-nutrizionale, diverse ricerche hanno confermato il ruolo dell’olio extravergine di oliva nella prevenzione di patologie cardiovascolari, diabete, colesterolo. Per la Food and Drug Administration è sufficiente ingerire ogni giorno ed entro 12-18 mesi dall’estrazione, due cucchiai di olio extravergine di oliva crudo e lavorato a freddo, per garantire al nostro organismo l’assunzione di almeno 17,5 grammi di acido oleico, 4,5 mg di vitamina E e 10 mg di composti fenolici. A tal riguardo alcune normative europee (Regolamento UE 1924/2006, Regolamento UE 432/2012, allegato XIII del Regolamento UE 1169/2011) hanno previsto la possibilità di inserire alcune indicazioni sulla salute in etichetta: contenuto in polifenoli (claim 1), in acido oleico (claim 2), in vitamina E (claim 3), in acidi grassi monoinsaturi e/o polinsaturi (claim 4). Di queste quattro indicazioni, l’unica specifica per gli oli di oliva è quella riguardante l’effetto benefico sulla salute esplicato dai polifenoli (claim 1), mentre le altre tre indicazioni possono essere applicate a diversi alimenti che, in accordo a quanto stabilito dal Reg. Ce 1924/2006, possono essere considerati fonte di vitamina E (claim 3) oppure ricchi in acidi grassi insaturi (claim 2 e claim 4).  Mentre i primi tre claim sono classificati come indicazioni sulla salute di tipo “funzionale”, ossia basate sul ruolo di una sostanza nutritiva per la crescita, lo sviluppo e le funzioni dell’organismo (articolo 13 del Reg. Ce 1924/2006), il quarto claim è classificato come indicazione sulla riduzione dei rischi di malattia (art. 14 Reg. Ce 1924/2006) derivanti dalla sostituzione nella dieta di grassi saturi con grassi insaturi.  In particolare, il contenuto in polifenoli (claim 1) oltre a influenzare l’intensità dell’amaro e del piccante nell’olio, contribuisce alla protezione dei lipidi ematici dallo stress ossidativo. Affinché questa indicazione possa essere riportata in etichetta, l’olio deve contenere almeno 5 mg idrossitirosolo e suoi derivati in 20 grammi di olio. Inoltre, l’indicazione deve essere accompagnata dall’informazione al consumatore che l’effetto benefico si ottiene con l’assunzione giornaliera di 20 grammi di olio di oliva. La vitamina E (claim 3), nota anche come vitamina della bellezza, contribuisce alla protezione delle cellule dallo stress ossidativo.  Questa indicazione in etichetta può essere   utilizzata per quegli alimenti che posseggono almeno il 15% della dose raccomandata giornaliera in 100 grammi di prodotto (o in una porzione), che nel caso della vitamina E è pari a 10 mg (Reg. EU. 1924/2006). Il messaggio veicolato dal claim 2, relativo al contenuto in acido oleico, principale acido grasso monoinsaturo dell’olio extravergine di oliva, prevede che la sostituzione nella dieta dei grassi saturi con grassi insaturi contribuisce al mantenimento di livelli normali di colesterolo nel sangue.  L’indicazione relativa al contenuto in acidi grassi monoinsaturi e/o polinsaturi (claim 4) prevede che la sostituzione nella dieta dei grassi saturi con grassi insaturi abbassa/riduce il colesterolo nel sangue, in quanto il colesterolo alto rappresenta un fattore di rischio nello sviluppo di malattie coronariche. Sia per il claim 2 che per il claim 4 questa indicazione in etichetta può essere utilizzata per tutti quei prodotti ricchi in grassi insaturi ossia con un contenuto almeno pari al 70% degli acidi grassi presenti nel prodotto e a condizione che gli stessi forniscano almeno il 20% dell’energia del prodotto (Reg. Ue 432/2012).

La Calabria di qualità

Tatiana Castellotti

Con l’espressione “la Calabria di qualità” intendiamo la produzione di prodotti DOP e IGP della Regione Calabria, ovvero di quei marchi che legano i prodotti ai territori. In un panorama in cui i consumi e i gusti sono globalizzati, la tipicità è uno strumento importante per salvaguardare non solo le produzioni, ma anche i territori.
L’Italia è il primo paese europeo per prodotti DOP e IGP, ne conta circa 300. La Calabria ne conta in tutto, tra agroalimentare e tra i prodotti del vino, ben 39, tra cui la cipolla rossa di Tropea, la soppressata, le patate della Sila, il vino Cirò, il vino Savuto. Dal 2013 ad oggi, secondo gli ultimi dati disponibili che sono riferiti al 2018, la Calabria ha aumentato la superficie investita a produzioni di qualità del 200%, passando dai 4 mila ettari del 2013 ai circa 13 mila ettari di oggi. I prodotti calabresi rappresentano circa il 6% di quelli italiani e la superficie investita in qualità in Calabria rappresenta circa il 5,6% della superficie italiana. Se poi guardiamo solo al mezzogiorno, la superficie calabrese investita in prodotti di qualità rappresenta addirittura il 14% della superficie del mezzogiorno d’Italia.
Sebbene non sia trascurabile il peso in termini di superficie della produzione di qualità calabrese, sono, però, pochi gli operatori che investono in qualità (solo l’1,6% del totale italiano).
Altro lato negativo è il valore dei prodotti di qualità calabresi. I prodotti di qualità calabresi (alimentari e vino) producono circa un valore di 40 milioni di euro, però questi 40 milioni di euro incidono solo per lo 0,2% di tutto il valore prodotto dalla qualità in Italia. Quindi, un valore estremamente basso.
La conclusione che possiamo trarre è che i prodotti di qualità forniscono un marchio sia al prodotto che al territorio, ma ciò non basta. Molti produttori non utilizzano addirittura le denominazioni. Questo accade spesso, per esempio, nel settore dell’olio di oliva perché non riescono a spuntare un prezzo maggiore rispetto alle produzioni che non sono DOP o IGP. Inoltre, le produzioni sono piccole e pertanto non riescono ad andare oltre i mercati locali. Sarebbe utile investire in politiche che integrano valorizzazione del prodotto e valorizzazione del territorio come, per esempio, le strade del vino, le strade dei sapori, le strade tematiche che possono puntare su uno sviluppo integrato territoriale.

Le politiche contro lo spreco

Orlando Cimino

La riduzione dello spreco alimentare, lungo tutta la filiera, dalla produzione al consumo rappresenta una delle più importanti sfide di questo secolo, specie se rapportata alle criticità dell’attuale contesto socio-economico ed alla simultanea necessità di implementare la solidarietà sociale e la sostenibilità ambientale. In conseguenza di ciò lo spreco alimentare ha assunto negli anni una crescente importanza nelle politiche in materia di sostenibilità dei modelli di produzione e consumo.
L’Italia ha legiferato in materia di spreco alimentare con la legge 166/2016 “Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi”, modificata dalla legge di stabilità 2018, ma l’impalcatura, la struttura della legge è rimasta immutata. L’obiettivo è quello di ridurre gli sprechi per ciascuna delle fasi di produzione, trasformazione, distribuzione e somministrazione di prodotti alimentari e farmaceutici. Finalità perseguita attraverso la realizzazione dei seguenti obiettivi prioritari, ovvero: favorire il recupero e la donazione sia delle eccedenze alimentari che di prodotti farmaceutici a fini di solidarietà sociale;  contribuire alla limitazione degli impatti negativi sull’ambiente e sulle risorse naturali mediante azioni volte a ridurre la produzione di rifiuti estendendo il ciclo di vita dei prodotti; al raggiungimento degli obiettivi generali stabiliti dal Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti, e dal Piano nazionale di prevenzione dello spreco alimentare; ad attività di ricerca, informazione e sensibilizzazione dei consumatori e delle istituzioni sulle materie oggetto della presente legge. L’approvazione della legge 166/2016 rappresenta una tappa importante nel contrasto dello spreco alimentare in Italia (cfr. articolo Busetti e Giannetti su questo stesso numero).
Alcune Regioni si erano mosse già in precedenza rispetto alla legge 166/2016 mentre altre hanno iniziato a legiferare in materia di spreco alimentare solo in seguito all’entrata in vigore della legge citata. Tra esse anche la Calabria che, nel luglio 2018 ha adottato la legge n. 27 dal titolo: “Promozione dell’attività di recupero e ridistribuzione delle eccedenze alimentari per contrastare la povertà e il disagio sociale”.
Tale legge, che consta di soli 6 articoli, è di natura ordinamentale, in quanto l’attività di recupero e ridistribuzione delle eccedenze alimentari vengono favorite dalla Regione Calabria in una strategia di solidarietà e beneficenza e non prevedono alcuna spesa economica aggiuntiva a carico della Regione stessa. La legge si prefigge lo scopo di osteggiare la povertà ed il disagio sociale, in una logica di tutela delle fasce più deboli della popolazione, attraverso interventi finalizzati a contrastare lo spreco alimentare. L’articolo 2 definisce, in linea con la Legge 166/2016, cosa bisogna intendere per eccedenze alimentari. L’articolo 3, invece, definisce i soggetti di cui si avvale la Regione per il perseguimento delle finalità. Possiamo pertanto concludere evidenziando alcune problematiche: la mancanza di target di riduzione degli sprechi alimentari; la mancanza di strumenti efficaci ai fini della quantificazione degli sprechi e del monitoraggio dell’efficacia delle misure intraprese; la scarsa integrazione con la pianificazione regionale e comunale; la mancanza di risorse adeguate; la mancanza di strumenti adeguati per il sostegno ed il coordinamento delle attività di ricerca; l’assenza di strumenti volti a favorire la condivisione delle buone pratiche. La riduzione dello spreco alimentare, sia attraverso il recupero delle eccedenze, sia attraverso l’adozione di azioni finalizzate ad eliminare le cause che generano eccedenze (prevenzione), offre un’opportunità per ripensare i nostri modelli di produzione e consumo. In altre parole, lo spreco di cibo può diventare un’opportunità per riflettere sugli impatti che il sistema economico genera a livello sociale e ambientale su scala locale e globale.

L’uso sostenibile della plastica in agricoltura

Assunta Amato

La produzione di materie plastiche nel mondo ha raggiunto nel 2018 359 milioni di tonnellate. I produttori europei (UE28+ Norvegia e Svizzera) hanno contribuito con 62 milioni di tonnellate, 2,2 milioni in meno rispetto al 2017. In ambito mondiale, l’Europa concorre quindi alla produzione totale per il 17%, poco sotto dell’Area Nafta (18%), ma ben lontana dall'Asia, che produce (51%) ormai la metà delle plastiche consumate nel globo (30% la sola Cina).
L’80% del consumo europeo è concentrato in sei paesi: la Germania (24,6%), l’Italia (13,9%), la Francia (9,4%), la Spagna (7,6%), il Regno Unito (7,3%) e la Polonia (6,8%).
Per quanto concerne i principali settori di destinazione, l’imballaggio resta al primo posto con il 39,9% delle 51,2 milioni di tonnellate trasformate nel 2018 in Europa; seguono costruzioni con il 19,8%, automotive con il 9,9% e settore elettrico/elettronico con il 6,2%. A seguire casalinghi e articoli per lo sport e il tempo libero (4,1%), agricoltura (3,4%) e altre applicazioni (16,7%).
Quando si parla di plastica ci si può riferire a due famiglie di polimeri principali: termoplastiche (che si ammorbidiscono con il calore e si irrigidiscono nuovamente con il raffreddamento) e i termoindurenti (che non si ammorbidiscono mai dopo essere state sagomate). In agricoltura, l’utilizzo maggiore delle plastiche è riferito al polipropilene e al polietilene. Queste materie plastiche in agricoltura sono destinate: alle serre, ai tunnel di serre, alla pacciamatura, all’irrigazione, nella raccolta, nella conservazione, ai silos. È vero che il 3,4% di queste materie plastiche sono destinate all’agricoltura, ma un ruolo fondamentale è dato anche dal packaging che va considerato. In Italia quasi il 40% va in discarica, il 30% viene riciclato e il resto, invece, viene riconvertito. Un esempio del riciclo della plastica in agricoltura utilizzato in Inghilterra è quello dell’utilizzo dei film, i teli che vengono utilizzati in agricoltura per le serre, per la pacciamatura. Dopo un primo utilizzo vengono rimossi dal terreno, vengono quindi collezionati, trasportati, trattati e poi di nuovo riciclati; questo grazie all’uso di un macchinario che dà sempre nuova vita alla plastica, di conseguenza non va in discarica ma viene riutilizzata in agricoltura.
Ora oltre appunto il riciclo, che cosa si può fare? Quale alternative noi abbiamo in questo momento? Abbiamo i prodotti biodegradabili o compostabili che possono essere prodotti da materie prime biologiche o fossili e per avere funzioni simili o eguali alle plastiche convenzionali.
La sostenibilità dei materiali a base biologica, proprio come avviene per le plastiche originate da fonti fossili, dipende dalle pratiche di produzione, dalla durata dei prodotti e dal trattamento di fine vita.
Infine, molto importante sono i consorzi che permettono alle aziende di mettersi insieme per riciclare la plastica e sostenere costi più bassi. A livello di politiche dell’Unione Europea, la direttiva UE (2019)/904  tratta la riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente ed il Piano d’azione per l’economia circolare (2020) come quadro strategico in materia di prodotti sostenibili. In Italia la legge di bilancio 2020 ha istituito la plastic tax che è una imposta generalizzata sulla plastica monouso, il cui obiettivo è quello di incentivare l’utilizzo di prodotti monouso e promuovere materiali compostabili ed ecocompatibili.

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