Vulnerabilità e irregolarità dei lavoratori nel settore agricolo: percezione, determinanti, interventi

Vulnerabilità e irregolarità dei lavoratori nel settore agricolo: percezione, determinanti, interventi

Abstract

L’analisi dei molteplici fattori che determinano la vulnerabilità dei lavoratori migranti impiegati in agricoltura, realizzata nei Presìdi del Progetto di Caritas Italiana, evidenzia la necessità di adottare, sul piano normativo e politico, un approccio ad ampio raggio, per superare la potenziale inefficacia sia di interventi specifici, sia di misure generali che non prevedano, nella loro implementazione, adeguate forme di flessibilità e di adattamento ai diversi contesti locali.

Introduzione

La vulnerabilità dei lavoratori impiegati in agricoltura, oggetto di questo lavoro, costituisce una condizione strutturale che riguarda la società nel suo complesso e, allo stesso tempo, un attributo di individui e gruppi in specifiche condizioni socio-economiche. È quest’ultima accezione che sarà approfondita nella seguente trattazione, con l’obiettivo di indagare i molteplici fattori che concorrono a determinare la vulnerabilità dei lavoratori in agricoltura e di rilevare le principali difficoltà che si possono incontrare nell’attuare politiche di contenimento. In particolare, l’attenzione verrà posta sul binomio lavoratori agricoli-migranti, in quanto la centralità, nelle dinamiche di sfruttamento, dell’“umanità di scarto” abbassa la percezione della rilevanza pubblica e politica del fenomeno. Parte del ragionamento sfrutterà dati empirici provenienti da Campanella (2018).

Vulnerabilità e fattori determinanti

La vulnerabilità sociale dei lavoratori, solitamente, fa riferimento alle fragilità e ai rischi complessi, non mitigati da reti di protezione formale o informale, che caratterizzano il mercato del lavoro e la struttura sociale postfordista, ed è intesa come una componente (esplicita o implicita) di un sistema (Ranci, 2002). In termini giuridici, invece, la vulnerabilità può intendersi, in modo complementare rispetto alla precedente definizione, come una situazione soggettiva in cui il consenso è coartato dall’assenza di alternative reali e accettabili. La vittima vulnerabile, dunque, si trova costretta a prestare il consenso a forme odiose di sfruttamento (Sciurba, 2018).
In alcuni casi, è lo stesso tessuto normativo che regola i rapporti di lavoro che può determinare situazioni di “vulnerabilità giuridica” in una determinata categoria di soggetti.
La vulnerabilità dei lavoratori stranieri è legata, infatti, non solo a condizioni di debolezza contrattuale, che in buona misura accomunano nativi e immigrati, ma anche a specifici fattori legati alla condizione di soggiorno. In quest’ultimo caso, la condizione di vulnerabilità è connessa alla regolarità e al set di diritti associati alle diverse tipologie di permesso di soggiorno, che definiscono forme di “stratificazione civica” (Morris, 2002) e che espongono i lavoratori al rischio di espulsione, sfruttamento, ricattabilità e intrappolamento in reti criminali.
Dal punto di vista socio-economico, emerge una “quotidianizzazione del rischio” (Negri, 2006), non più legato a specifici eventi della vita, ma alla mancanza sistemica di reti di protezione: il lavoro, in particolare, non è necessariamente salvaguardia dal rischio di impoverimento, data la sua scarsa remuneratività in importanti segmenti economici; l’isolamento sociale riduce il ruolo delle reti informali di aiuto; la disarticolazione dei diritti di cittadinanza e del welfare - particolarmente evidente nelle forme di denizenship, ovvero una condizione di accesso subordinato ai diritti legata all’assenza di piena cittadinanza (Hammar, 1990) che coinvolgono i migranti - pone dei limiti alla protezione formale.
Tutto ciò richiede una particolare riflessione sull’idea di giustizia. Come dimostrato da Amartya Sen (2009), infatti, nelle questioni che riguardano la realtà umana non si tratta tanto di definire un’idea di giustizia assoluta, quanto piuttosto di seguire un orientamento legato alla “comparazione centrata sulle realizzazioni concrete” che focalizza l’attenzione sulle questioni delle scelte e della valutazione dei pro e contro ad esse legate. Tale approccio da un lato consente di procedere in maniera molto pragmatica e dall’altro impone l’individuazione di categorie alle quali fare riferimento per tentare di definire la bontà di una particolare azione di policy. Nel caso specifico, un approccio di questo tipo permette di contribuire all’individuazione e alla valutazione delle conseguenze legate a una determinata scelta normativa o politica in materia di lavoro in agricoltura, ovvero di evidenziarne gli impatti (complessi), anche in termini di contenimento della vulnerabilità della categoria oggetto dell’analisi che, in questo caso, è rappresentata dai migranti.

Irregolarità e vulnerabilità in agricoltura

Se si osservano i dati sull’occupazione agricola relativa al periodo 2008-2016 è possibile rilevare alcune tendenze peculiari, tra le quali, innanzitutto, un aumento del numero degli addetti (pari al 3,5%), contrariamente a quanto registrato per altri settori produttivi (Crea, 2018). Tale aumento è accompagnato da un cambiamento della composizione della forza lavoro e da un aumento della quota di irregolari. Si segnala, infatti, una riduzione degli “autonomi” e un incremento costante, e con un tasso superiore a quello degli altri settori (16,9%, nel 2017), di lavoratori stranieri che arrivano a circa 147 mila, con una crescita di quelli di origine extracomunitaria (Crea, 2018; Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2018). Allo stesso tempo, il tasso di irregolarità (pari al 23,4% nel 2015 e chiaramente non esclusivo della componente straniera) è superiore a quello registrato per l’economia nel suo complesso (13,5%). A questo proposito, è da notare che la componente relativa all’impiego di lavoro irregolare pesa per il 37,2% del valore aggiunto. In particolare, la componente di valore aggiunto generata dall’impiego di lavoro non regolare (che rappresenta la totalità del sommerso) incide nel settore agricoltura, silvicoltura e pesca per il 16,4%, in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al 2015 (Istat, 2018).
Il tasso d’irregolarità presenta una sensibile differenziazione territoriale (14,3% al Nord, 16,3% al Centro e 28,8% nel Mezzogiorno) e, in generale, tende ad aumentare parallelamente al diminuire del valore aggiunto pro-capite. In questo contesto, la riduzione (illegale) della remunerazione del lavoro rappresenta in molti casi una “soluzione” ai problemi della bassa produttività e della debolezza strutturale del settore agricolo, rispetto alle imprese che operano nei settori a valle della trasformazione alimentare e della distribuzione (dominato dalla presenza della Grande Distribuzione Organizzata - Gdo - e relative centrali d’acquisto), tendenzialmente oligopolistici1. Con il suo potere contrattuale, la Gdo è in grado di esercitare forti pressioni sui prezzi dei prodotti, determinando un peggioramento delle condizioni di mercato, che spinge gli imprenditori agricoli a ridurre (lecitamente o meno) il costo del lavoro – unico input produttivo sul quale risulta effettivamente possibile incidere. Per gli altri fattori produttivi (macchinari, attrezzature e gli altri beni e servizi per l’agricoltura, quali sementi e specie animali e vegetali), infatti, i prezzi sono controllati dalle grandi industrie fornitrici. Tutto ciò si traduce in una riduzione dei compensi e, più in generale, a un complessivo peggioramento delle condizioni lavorative. Oltre al lavoro nero (o “grigio”), infatti, molte altre sono le pratiche di sfruttamento del lavoro, diffuse in molte filiere agroalimentari, quali, ad esempio, violazioni delle norme sulle condizioni di lavoro e sulla sicurezza (con effetti sugli infortuni), mancato riconoscimento dei diritti sindacali, umani e sociali.
Inoltre, in molti contesti produttivi italiani, questi fenomeni sono drammaticamente amplificati dalla contaminazione con attività criminali gestite da organizzazioni malavitose e facilitati dalla stagionalità della domanda di lavoro e dalla grande disponibilità di manodopera (spesso irregolare), che determina forti penalizzazioni non solo per i lavoratori (caporalato) ma anche per i consumatori, in termini di contraffazione dei fattori di produzione e/o dei prodotti finali (Legambiente, 2016).

Irregolarità e vulnerabilità dei lavoratori nel Progetto Presidio di Caritas Italiana

Il Progetto Presidio di Caritas Italiana nasce, nel 2014, con il duplice obiettivo di garantire alle vittime di sfruttamento lavorativo luoghi di ascolto, orientamento e tutela e di sensibilizzare le istituzioni pubbliche nei confronti di tale emergenza. A tal fine, gli operatori Caritas attivi nelle varie strutture, a sostegno delle consuete attività di assistenza ai bisogni di prima necessità e di tutela di carattere amministrativo, legale e sanitario, si sono dedicati alla raccolta di informazioni sui lavoratori beneficiari dei servizi dei Presìdi. L’impegno di tenere memoria della storia dei singoli individui, utile anche a fini operativi e assistenziali, ha consentito di costruire un set di dati di rilievo per analizzare la vulnerabilità. Tale database ha rappresentato la base di partenza per lo svolgimento di uno studio multidisciplinare, nell’ambito di una Convenzione stipulata tra Università di Urbino e Caritas Italiana, sulla realtà dei lavoratori migranti vittime di sfruttamento in agricoltura, editato in Campanella (2018). Oltre all’analisi quali-quantitativa dei dati relativi al biennio 2016-2017 per i 18 Presìdi implementati dalle diverse Caritas diocesane coinvolte nel Progetto2, per i distretti agricoli sono state realizzate interviste semi strutturate a testimoni privilegiati, volte a individuare le caratteristiche delle filiere, le condizioni lavorative e sociali dei lavoratori.

Lo status socio-demografico dei lavoratori e le loro condizioni di vita

Le elaborazioni effettuate, relative a circa 5.000 osservazioni, hanno consentito di delineare il profilo dei lavoratori migranti entrati in contatto con gli operatori dei Presìdi.
Il maggior numero di utenti è stato registrato dal Presidio di Ragusa (20% del totale), seguito da Foggia (18%), Acerenza (10,3%), Caserta (9,9%), Nardò-Gallipoli (9,7%), Saluzzo (7,8%).
La forza lavoro è prevalentemente maschile (circa 7 persone intercettate dagli operatori su 8), mentre la presenza femminile è in larga parte imputabile al Presidio di Ragusa, in cui più di un terzo dell’utenza è costituito da donne. Tale presenza, che assume una certa significatività in alcune filiere, evidenzia che le catene dello sfruttamento producono delle labour queue (Kalleberg e Sorensen, 1979; Waldinger, 2000) localmente determinate: si tratta, in sostanza, della presenza di una graduatoria “informale” che i datori di lavoro e gli intermediari operano, scegliendo come lavoratori preferiti soggetti di un determinato tipo, in ragione di una combinazione tra sfruttabilità e specifiche condizioni di produttività in alcune fasi delle filiere.
Per quanto concerne l’età, si tratta di lavoratori giovani: l’età media è di 34 anni, mentre il 3,6% degli utenti è costituito da minori, per grandissima parte ricevuti dal Presidio di Ragusa, a parziale corollario della femminilizzazione dell’utenza e della particolare composizione della forza lavoro in quell’area.
Le nazionalità presenti nell’utenza dei Presìdi sono 47, con prevalenza di persone provenienti da Paesi africani (che rappresentano il 75% circa dei soggetti registrati) e una quota significativa di lavoratori comunitari, da Romania e Bulgaria (circa il 17% degli utenti dei diversi Presìdi) (Figura 1).

Figura 1 - Nazionalità dei lavoratori migranti

Fonte: Campanella (2018)

Si rileva, poi, una minore frequenza di altre nazionalità (albanese, indiana, pakistana), che presentano però una forte concentrazione in territori specifici, a testimoniare una specializzazione produttiva di tipo etnico. Le diverse nazionalità, infatti, non sono distribuite uniformemente fra i vari Presìdi, in rapporto a specifiche reti migratorie, canali di reclutamento, labour queue e mercati segmentati nei diversi sistemi produttivi.
La particolare fragilità di questa utenza è confermata da un livello di scolarizzazione particolarmente basso. Al di là del titolo di studio formale, vale la pena menzionare che solo l’11% dei soggetti intervistati dichiara di conoscere la lingua italiana.
La gran parte delle persone assistite lavora nel settore agricolo (85%), mentre altri ambiti lavorativi riguardano il settore edile (7,4%), il settore domestico (1,6%) e quello del commercio (1,5%).
Solo il 30,4 % dei soggetti dispone di contratto di lavoro e l’agricoltura non sembra essere il settore più colpito dalla presenza di lavoro “nero”, ben sopravanzata dall’edilizia. La modalità di compenso prevalente è il pagamento “a giornata” (71,5%), mentre il compenso “a ore” viene percepito del 10% dei lavoratori.
Meno del 30% degli utenti registrati è iscritto all’anagrafe. Tale situazione, ovviamente legata anche a situazioni di irregolarità, rappresenta un problema estremamente significativo, che può limitare l’accesso ai diritti sociali.
Per quanto riguarda, infine, le condizioni abitative, la precarietà più marcata riguarda oltre un quinto dei rispondenti, che vivono in sistemazioni di fortuna. L’accoglienza precaria ma organizzata (come le tendopoli) sembra avere un ruolo residuale (meno del 5% dei casi). Il fatto che una quota significativa di rispondenti dichiari di vivere in una casa non significa necessariamente e automaticamente che disponga di maggior comfort, perché tale informazione deve essere messa in rapporto con le condizioni della struttura (ad esempio, in termini di dotazione di servizi, affollamento, etc.). In effetti, circa il 30% dei soggetti intercettati dai Presìdi non dispone né di elettricità né di servizi igienici e una quota superiore (più del 36%) non ha accesso domestico a fonti di acqua potabile.
Le situazioni alloggiative sono estremamente precarie e implicano una rotazione dettata da stagionalità produttive e conseguenti circolarità migratorie, così come probabilmente da tentativi di trovare soluzioni più adeguate. Per questo motivo il tempo di permanenza in una determinata struttura è limitato (il 54% dei dati inclusi nelle schede indica una presenza inferiore all’anno). Da segnalare, inoltre, che la sistemazione in qualche caso è esplicitamente “mediata” dai caporali, sia nelle scelte che nel pagamento. Non a caso il numero di persone che si rifiuta di fornire informazioni di dettaglio, anche per timore di ritorsioni, non è trascurabile.
Gli interventi realizzati dai Presìdi riguardano soprattutto la fornitura di beni e servizi di prima necessità e l’assistenza sanitaria, ma anche l’assistenza di tipo amministrativo e legale, quest’ultima legata alle necessità di tutela lavorativa, civile e penale.

I Presìdi “agricoli”

I Presìdi nei quali il fenomeno dello sfruttamento del lavoro in agricoltura risulta prevalente sono stati selezionati mediante focus group con i responsabili nazionali e locali del Progetto, cercando di includere filiere agroalimentari eterogenee (Tabella 1).

Tabella 1 – Presìdi agricoli analizzati: prodotti prevalenti, tipo e periodo di attività

Fonte: Campanella (2018)

Dall’analisi delle interviste emerge un quadro abbastanza variegato per quanto riguarda la distanza dai luoghi di lavoro (e, conseguentemente, il mezzo di trasporto utilizzato), aspetto particolarmente rilevante per la dipendenza dai “servizi” offerti dai caporali. Assolutamente gravi risultano le difficoltà di tipo abitativo, analogamente a quanto segnalato per gli utenti dell’insieme dei Presìdi, e, in alcuni contesti, anche i problemi di salute, legati a incidenti o a patologie contratte durante il lavoro (Tabella 2).

Tabella 2 - Presìdi agricoli: distanza dai luoghi di lavoro, mezzo di trasporto utilizzato, luoghi di vita, problemi sanitari

Fonte: Campanella (2018)

Sul fronte contrattuale, si rileva una generale diffusione di lavoro “grigio” (che si sostanzia in diverse pratiche di falsificazione delle buste paga, delle giornate lavorate, fino alle stesse identità delle persone) e, in alcuni Presìdi, anche di lavoro “nero”. Più eterogenea risulta, invece, la condizione d’irregolarità e considerazioni sostanzialmente simili valgono per l’orario di lavoro e per la tipologia dei permessi di soggiorno, caratterizzata da forti cambiamenti da una stagione produttiva all’altra (Tabella 3).

Tabella 3 - Presìdi agricoli: permesso di soggiorno, contratti e orario di lavoro

Fonte: Campanella (2018)

Ma al di là delle distorsioni dei rapporti lavorativi, un elemento che contraddistingue le segnalazioni emerse durante le interviste è costituito dalla posizione di assoluta dominanza dei grandi trader, che acquistano a prezzi irrisori i prodotti dalle imprese agricole, rivendendoli poi alle imprese della trasformazione e, soprattutto, della Gdo (Tabella 4).

Tabella 4 - Presìdi agricoli: imprese acquirenti, mercati di destinazione, criticità

Fonte: Campanella (2018)

Con meccanismi di fissazione del prezzo controllati dalle industrie della trasformazione o della distribuzione, la redistribuzione del valore va a tutto svantaggio della produzione agricola. Allo stesso tempo, viene segnalato uno spostamento significativo di una parte di tale valore al di fuori della filiera in senso stretto, in relazione ai costi per l’acquisto di beni e servizi forniti da imprese di altri settori (utenze, trasporto e logistica), nonché a quelli “poco visibili”, prodotti dalle carenze infrastrutturali del Paese. Va peraltro evidenziata anche una sostanziale difficoltà, da parte degli imprenditori agricoli, ad adottare innovazioni di tipo sia tecnico-produttivo, sia organizzativo. Nella maggior parte dei territori analizzati, poco diffuso risulta, ad esempio, il ricorso a strategie di aggregazione orizzontale e/o d’integrazione verticale.

Le forme di vulnerabilità prevalenti

Le forme di vulnerabilità dei lavoratori migranti nel settore agricolo sono caratterizzate dall’interdipendenza tra diversi fattori: il grave sfruttamento lavorativo si inserisce, infatti, in un quadro più ampio di debolezze personali, sociali e istituzionali, che includono fra le altre le condizioni di salute psico-fisica, status giuridico, capitale umano e reti sociali, situazione abitativa.
Dalle informazioni raccolte sugli utenti dei servizi dei Presìdi Caritas è possibile evidenziare, in primis, la sistematicità delle condizioni di vulnerabilità, che creano una sfiducia sistemica e una difficoltà di uscita dalla condizione di sfruttamento e marginalità: molti lavoratori migranti non possono svolgere azioni sociali quotidiane (come, ad esempio, affittare una casa, andare dal medico, rivolgersi ad un avvocato e, ovviamente, sottoscrivere un contratto di lavoro) senza il timore di essere vittime di raggiri. L’isolamento e la vulnerabilità dei migranti li rende vittime perfette, perché poco propensi alla denuncia e troppo marginali per incidere su reputazione e potere di chi li inganna e li sfrutta. Questo comporta il ricorso a sostituti funzionali della fiducia (Sztompka, 1999), come la mercificazione (si paga per tutto: per lavorare, per ottenere documenti, ecc.) o il ritiro in reti sociali “dense” (spesso coetniche) che risultano abbastanza ambigue, in quanto forniscono sia protezione dai rischi, sia intrappolamenti, perché distinguere fra reti di supporto e sfruttamento non sempre è facile.
L’effetto personale è spesso devastante, portando a traiettorie discenti, di disempowerment, che minano, in alcuni casi molto seriamente, l’equilibrio personale.
Contribuisce a questa vulnerabilità l’evidenza che la precarietà (abitativa, lavorativa e sociale) incide fortemente sulle diseguaglianze di salute. Alcuni profili sono più vulnerabili, come i soggetti più isolati o più dipendenti da reti di supporto/sfruttamento chiuse. Ciò avviene, in particolare, per le donne, nei casi in cui sfruttamento lavorativo e violenza si coniugano allo sfruttamento sessuale e alle molestie. Non si tratta di casi eccezionali, ma forme di “controllo sociale”, particolarmente odiose, che in alcuni contesti sembrano sistematiche (si veda, ad esempio, Prandi, 2018).
Le traiettorie di caduta nella marginalità sono tali da rendere poi molto difficile per le vittime persino chiedere aiuto: la limitata conoscenza e la scarsa capacità di interagire con le amministrazioni (specie quelle legate all’ordine pubblico e alla giustizia) facilitano irregolarità e soprusi, alimentando quella “sfiducia sistemica” sopra menzionata. In alcuni casi, si rileva anche un mancato riconoscimento della propria condizione di sfruttamento e, peraltro, dimostrare condizioni di sfruttamento e riuscire a far valere i propri diritti appare molto complicato da un punto di vista soggettivo e oggettivo. A ciò si aggiungono le condizioni di dipendenza dal datore di lavoro o dal caporale, di tipo sociale, ma anche strumentale, come nel caso del trattenimento dei documenti di soggiorno.
Del resto, anche ove l’accesso sia formalmente possibile, le istituzioni del welfare sembrano inaccessibili, contribuendo a un’ulteriore vulnerabilizzazione: da questo punto di vista, per esempio, la condizione di stagionalità (del lavoro e/o della presenza sul territorio) costituisce un forte fattore di vulnerabilità in un sistema istituzionale e di welfare che premia la stanzialità (come evidenzia il requisito della residenza per l’accesso a diverse prestazioni).

Quali soluzioni?

L’indagine realizzata nei Presìdi agricoli del Progetto di Caritas Italiana ha consentito di evidenziare la presenza di molteplici forme di vulnerabilità dei lavoratori migranti, che richiede l’adozione, sul piano normativo e politico, di un approccio ad ampio raggio. L’analisi dei principali fattori che influiscono sulla vulnerabilizzazione del lavoro agricolo e sull’intreccio di diversi fattori amministrativo-burocratici, economici, di reti criminali rendono, infatti, potenzialmente inefficaci sia interventi su un solo elemento, sia misure generali che non prevedano, nella loro implementazione, adeguate forme di flessibilità e di adattamento alle specificità locali.
Se in alcuni casi, infatti, sembrerebbe sufficiente puntare alla promozione di processi di autoregolamentazione volti a responsabilizzare le imprese e i consumatori, in altri contesti si tratta di scardinare una vera e propria cultura dell’irregolarità, che, a fronte di istituzioni latitanti, porta a considerare leciti e finanche normali l’aggiramento e il sopruso e a consolidare il fenomeno dello sfruttamento lavorativo della manodopera straniera.
In generale, l’introduzione di misure sanzionatorie non sembra, di per sé, sufficiente ai fini del contrasto di tale fenomeno, per il quale pare evidente la necessità di una opportuna integrazione normativa e funzionale delle previsioni repressive con l’intensificazione dei dispositivi di supporto all’attività ispettiva e con un potenziamento di efficienti e regolari canali pubblici di intermediazione nel settore agricolo.
Un’importante azione correttiva delle distorsioni all’interno della filiera potrebbe essere realizzata dall’introduzione di una normativa, a livello nazionale ma ancor meglio europeo, di contrasto a quelle pratiche commerciali sleali e scorrette (quali, ad esempio, le aste on line al doppio ribasso), che sottopongono gli agricoltori ad eccessive pressioni competitive sui prezzi dei prodotti e inducono allo sfruttamento lavorativo della manodopera agricola. Ma, nonostante l’attenzione rivolta dall’Unione Europea a questo fenomeno (che porta a vere e proprie pratiche commerciali sleali nei confronti delle imprese agricole più deboli), mediante varie iniziative, fra cui il “Libro verde sulle pratiche commerciali sleali nella catena di fornitura alimentare e non alimentare tra imprese in Europa” del 31 gennaio 2013 (Commissione Europea, 2013), manca tuttora una disciplina omogenea a livello europeo volta a contrastarne la diffusione e gli effetti negativi. Tale lacuna non viene peraltro compensata dalle previsioni delle legislazioni nazionali, che risultano allo stato ancora carenti.
Allo stesso tempo, sarebbe utile realizzare interventi che consentano agli agricoltori di rafforzare la propria posizione contrattuale attraverso forme di aggregazione o di associazione delle imprese, anche mediante l’individuazione di un ambito di negoziazione “di filiera” con una connotazione sia sovra-aziendale, sia territoriale.
A livello preventivo, inoltre, sarebbe importante rafforzare, nei vari anelli della filiera, la presenza di iniziative imprenditoriali, ispirate ai principi della responsabilità sociale d’impresa e della sostenibilità sociale e ambientale, al fine di promuovere modelli produttivi più equi e salutari, rispettosi degli interessi dei lavoratori e consumatori.
In quest’ottica, andrebbe valorizzata la Legge n. 199 del 2016 «in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo» che, oltre a predisporre un adeguato sistema sanzionatorio, mira a sostenere il consolidamento delle imprese che operano legalmente. Lo strumento utilizzato è l’istituto della “Rete del lavoro agricolo di qualità”, introdotto dal D.L. n. 91 del 2014 e convertito nella Legge n. 116 del 2014, che costituisce una misura di valutazione e certificazione preventiva della legalità dell’impresa. La Rete mira a selezionare le imprese agricole che si qualificano per il rispetto delle norme in materia di lavoro. L’adesione produce nei confronti delle imprese agricole selezionate un effetto «di ordine tendenzialmente esonerativo», sottraendo le stesse all’attività di vigilanza da parte dell’Ispettorato del lavoro o dell’Inps, che viene così orientata nei confronti delle imprese non iscritte. Attraverso la pubblicazione di un elenco delle imprese iscritte, si arriva alla creazione di uno spartiacque che rende riconoscibile chi opera nella trasparenza e nella legalità. L’istituto agisce così a un duplice livello, ovvero come strumento di controllo e di prevenzione di comportamenti illeciti e, allo stesso tempo, di promozione di condotte socialmente desiderabili.

Riferimenti bibliografici

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  • 1. Si tratta, peraltro, di una soluzione che altera fortemente le condizioni concorrenziali, rendendo meno competitive le imprese rispettose della normativa sociale e consentendo a quelle meno efficienti di restare sul mercato, con un impoverimento del capitale umano a livello locale, in quanto tende ad allontanare i lavoratori più qualificati e a non migliorare la formazione di quelli che restano (Coderoni et al., 2015).
  • 2. Le Diocesi interessate sono quelle di Acerenza, Altamura, Aversa, Cerignola, Capua, Caserta, Foggia, Latina, Matera, Melfi-Rapolla-Venosa, Nardò-Gallipoli, Noto, Oppido-Mamertina-Palmi, Ragusa, Rossano-Cariati, Saluzzo, Teggiano-Policastro, Trani-Barletta-Bisceglie. Altamura e Matera non presentano, al momento dell’elaborazione, dati rilevati.
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