L’agricoltura tra vecchia e nuova globalizzazione

L’agricoltura tra vecchia e nuova globalizzazione

Abstract1

L’agricoltura mondiale è chiamata a sfamare una popolazione in crescita, ma la vera sfida non è quella di produrre di più, quanto di farlo in modo sostenibile. Di fronte alla crisi del modello di globalizzazione basato sulla liberalizzazione multilaterale e alle crescenti tentazioni neoprotezionistiche, il dilemma tra libero commercio e protezionismo andrebbe mediato in una prospettiva di fair trade.

Produzione alimentare, sostenibilità, cambiamenti climatici

Guardando alle proiezioni sulla crescita della popolazione mondiale e della domanda di cibo ad essa associata, spesso ci si interroga sulle sfide a cui l’agricoltura dovrà rispondere in termini di produzione di alimenti. Su questo fronte, specie dopo la fiammata dei prezzi agricoli mondiali del 2007-08, insieme alla consapevolezza del valore strategico del cibo e delle risorse per produrlo, è aumentata la preoccupazione circa le possibilità che l’offerta agricola sia in grado di crescere a un tasso tale da rispondere alla crescita della domanda di alimenti (De Castro, 2015). In questo contesto, tuttavia, rispetto agli scenari neomalthusiani di nuova scarsità alimentare che enfatizzano la necessità di aumentare la produzione agricola per sfamare il mondo, è forse più importante interrogarsi sui ruoli che l’agricoltura sarà chiamata a svolgere rispetto a scenari dove – anche rispetto alle necessità produttive – i vincoli e le variabili che contano sono altre: terra, acqua, clima, ambiente, migrazioni; temi sui quali, non a caso, la Fao è da qualche anno impegnata forse più ancora che su quelli della produzione agricola (Mercandalli, Losch 2017; Fao 2017).
Innanzitutto, è ormai ampiamente noto che sul terreno dell’alimentazione i problemi maggiori sono quelli di accesso al cibo – legati più alla domanda che all’offerta e dovuti  più alla povertà di chi ha fame che alla scarsità di alimenti – insieme allo spreco e alla eccessiva e cattiva alimentazione, anche di chi è povero.
In secondo luogo, a lungo termine bisogna preoccuparsi, oltre e forse più che dell’offerta potenziale e delle quantità effettivamente prodotte, della sostenibilità ambientale del modo in cui si produce, in relazione alla disponibilità e alla distribuzione della terra e delle risorse idriche, nonchè alle incerte conseguenze del cambiamento climatico; nella consapevolezza che, rispetto a quest’ultimo, non si tratta solo di promuovere tecniche sostenibili riguardo agli effetti sul clima ma anche di sviluppare strategie di adattamento ai crescenti rischi ambientali legati ai cambiamenti climatici, per aumentare la resilienza dei sistemi di produzione agricola.  
In terzo luogo, oltre agli effetti dei cambiamenti climatici e alla disponibilità di risorse naturali, si deve tener conto delle migrazioni di enormi masse di popolazione mondiale, nella consapevolezza che non si tratta solo di un problema di equilibrio Nord-Sud, ma anche e soprattutto di una questione interna al Sud del mondo. Le statistiche della Fao (Fao, 2017) mostano che l’emigrazione è concentrata nel continente africano e che la sua componente internazionale è solo la punta di un iceberg, dal momento che il numero di persone che si sposta all’interno dei Paesi di appartenenza è sei volte superiore al numero di migranti che varcano le frontiere, e che la direzione dei flussi migratori non è solo dalle campagne alle città, ma anche tra un’area rurale e un’altra.
In sintesi, dunque, le domande “globali” che è necessario porsi non sono solo – e forse neanche tanto – quelle sulla quantità di cibo, quanto piuttosto quelle sulla sua distribuzione, sulla disponibilità di risorse e in particolare di acqua; sulla possibilità di adattare la tecnologia per renderla più sostenibile e meno esigente in termini energetici; sull’agricoltura di precisione e sulle sue prospettive di diffusione nei paesi in via di sviluppo; sulla necessità di gestire i flussi migratori internazionali senza illudersi di poterli contrastare ma, piuttosto, guardandoli anche come opportunità invece che solo come minaccia.

Gli interessi dell’agricoltura italiana tra produttivismo e distintività

Venendo agli interessi italiani, enfatizzare le paure neomalthusiane di nuova scarsità alimentare, proponendo un paradigma produttivistico per l’agricoltura e le politiche che a essa si rivolgono, ha ancora meno senso. Infatti è evidente che il nostro sistema agroalimentare – vista la sua ridotta capacità produttiva e la relativa debolezza delle sue strutture – in un tale paradigma produttivistico, dove conta la massa critica di produzione e la riduzione dei costi per unità di prodotto, è per definizione condannato alla marginalità.
Al contrario, un modello di globalizzazione che dia spazio a qualità, cultura e legame con il territorio, può valorizzare al meglio il made in Italy. Di conseguenza, più che raccogliere la sfida di sfamare il mondo, il sistema agroalimentare italiano dovrebbe puntare sulla distintività dei propri prodotti, per farsi riconoscere e apprezzare dalle nuove borghesie dei Paesi emergenti, la cui domanda è sempre più articolata e certo più elastica rispetto al reddito di quella per le cosiddette commodity standardizzate; anche perché queste ultime, nei flussi di scambio attivati nell’ambito della filiera agroalimentare, rischiano di scadere al ruolo di generica “materia prima”.
Più in generale – questo lo si dice sempre, ma non bisogna stancarsi di ripeterlo – bisognerebbe declinare sul serio la cosiddetta multifunzionalità dell’agricoltura, finora rimasta poco più di un modo per giustificare il sostegno pubblico al settore e che, invece, dovrebbe diventare il punto di forza del modello agricolo europeo. L’Italia potrebbe essere capofila di una strategia in cui il modello di distintività, basato sulla valorizzazione dei prodotti tipici e dei saperi locali, potrebbe essere proposto a molti altri paesi. È una sfida difficile, ma in linea con la grande lezione di Expo, che ha mostrato la possibilità di valorizzare, anche in differenti contesti di sviluppo, la straordinaria carica di sinergie positive che gravitano intorno al cibo e alla sua distintività.
Se da un parte è giusto puntare sulla distintività e sulla riconoscibilità e se è vero che quella del made in Italy agroalimentare è una storia di successo, dall’altra bisogna essere consapevoli che oggi nel commercio internazionale ha sempre meno senso guardare ai singoli prodotti. Piuttosto, è rilevante analizzare le diverse componenti delle cosiddette catene globali del valore, in termini di prodotti intermedi e di servizi quali logistica, credito, certificazione dell’origine e della qualità, controllo degli standard (Johnson, 2017; Greenville, Beaujeu e Kawasaki, 2016). Su questo fronte, il sistema agroalimentare italiano è ancora indietro, perché tende ancora a presentarsi come la somma di pezzi e componenti diverse, dove talvolta mancano le sinergie e il coordinamento capaci di fare in modo che il loro insieme, messo a sistema, valga di più della loro semplice somma.

La crisi del vecchio modello di globalizzazione multilaterale

Negli anni ’90 la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) fu il punto di arrivo di un modello di globalizzazione progettato a metà del Novecento –  all’indomani del secondo conflitto mondiale – inizialmente guidato dalla egemonia paternalistica degli Stati Uniti e poi dal duopolio Usa-Ue: una globalizzazione, per così dire, democratica, fondata sul paradigma della liberalizzazione su base multilaterale e sul trattamento speciale e differenziato a favore dei Paesi in via di sviluppo, da declinare nell’ambito di un foro negoziale ampio e basato sul consenso – appunto, l’Omc – dove vige il principio “un paese un voto”. In effetti, nella seconda metà degli anni novanta, questo modello era già in larga misura superato, perché il mondo era cambiato: non c’era più la divisione tra capitalismo occidentale e blocco sovietico e la differenza tra paesi sviluppati e in via di sviluppo non era più così netta e indiscutibile come allora; al contrario, i paesi emergenti che irrompevano sulla scena – Cina, Russia, Brasile, Argentina, India, Sud Africa – non somigliavano né ai paesi sviluppati di un tempo, né a quelli in via di sviluppo, ai quali fin troppo a lungo sono stati assimilati.  I continui fallimenti del Doha round, lanciato nell’ormai lontano 2001, hanno contribuito a certificare la fine del vecchio paradigma di globalizzazione, per fare posto a un nuovo scenario multipolare, ancora indefinito nei suoi equilibri geopolitici, dove l’unica cosa certa è l’incertezza che lo caratterizza (Rodrik, 2018).
Da almeno un decennio, i segnali di crisi del modello di globalizzazione incentrata sull’Omc sono diventati sempre più chiari e frequenti. Negli ultimi due anni, dai semplici segnali si è passati a una crisi conclamata, anche per lo sgretolarsi del duopolio Usa-Ue che era il baricentro del sistema. Da un lato, la Brexit e il rafforzamento di populismi antieuropei hanno indebolito l’Unione europea – sia oggettivamente che, per così dire, soggettivamente – nella propria coscienza di sé. Dall’altro lato, l’irruzione sulla scena mondiale di Donald Trump che ha assunto il ruolo di “rottamatore” del vecchio ordine economico internazionale basato sul paradigma della liberalizzazione multilaterale gestita dall’Omc, rendendo gli Stati Uniti interlocutore molto diverso dal passato (Ismea, 2017).
Talvolta le crisi sono salutari, perché da esse nascono soluzioni, ma per ora all’orizzonte non sembra esserci alcun modello alternativo credibile. La strada degli accordi commerciali bilaterali o plurilaterali si è dimostrata quasi impraticabile e comunque estremamente difficile. In questo contesto l’attuale fase di globalizzazione senza governo può avere effetti preoccupanti, con derive protezionistiche incontrollate, da cui tutto il mondo rischierebbe di uscire impoverito, quali quella che lo stesso Trump ha appena innescato con l’imposizione di dazi discriminatori sulle importazioni di acciaio e alluminio.
Guardando all’Europa, altrettanto incerte appaiono le conseguenze della Brexit. Da un lato, infatti, c’è il rischio che l’uscita del Regno Unito alimenti un contagio disgregatore che potrebbe rafforzare le forze populiste e anti europee; dall’altro, poiché anche a molti dei suoi sostenitori nel Regno Unito la Brexit si è rivelata un percorso difficile, rischioso e forse meno appetibile di quanto atteso, essa potrebbe agire da “vaccino” contro la febbre separatista, bloccandone la diffusione. È uno scenario ottimistico, ma nulla impedisce di sperare che l’incertezza, i costi economici e politici e l’estrema complessità di uscire dall’Ue che la Brexit sta rendendo evidenti, possano contribuire a fare dell’attuale dibattito sul nuovo quadro finanziario pluriennale dell’Ue l’occasione per rilanciare un europeismo, per così dire, pragmatico: non tanto come ripresa degli ideali dei padri fondatori dell’Europa unita, quanto come spinta a rivisitare il progetto di integrazione europea, in modo che esso possa essere concretamente percepito come un gioco a somma positiva (De Filippis, 2016).
In questo scenario di incertissima transizione, guardando alle questioni relative alla Pac e agli interessi italiani, il rischio è duplice: da un lato, quello di sottovalutare la portata della crisi epocale in atto e di continuare a ragionare come se si trattasse di una fase di difficoltà passeggera, trovandosi poi a dover inseguire i nuovi equilibri; dall’altro, quello di usare la crisi come occasione opportunistica per ottenere vantaggi di breve respiro. In particolare, sul terreno della politica agraria ci può essere la tentazione di riproporre un ritorno tout court al vecchio sostegno “accoppiato” ai prezzi e alla quantità prodotta, con l’argomento che il sistema di regolazione internazionale basato sulla Omc sta saltando. Se è vero che tale sistema – proprio per non essere travolto dalla propria rigidità e dall’inconcludenza dei negoziati multilaterali – dovrà tollerare un maggiore grado di flessibilità, sarebbe discutibile, specie per l’Italia, sostenere un ritorno senza freni alle politiche protezionistiche del passato.
A questo riguardo va sottolineato il ruolo propulsivo delle esportazioni agroalimentari italiane, fatte di prodotti differenziati e di qualità, la cui dinamica è stata molto positiva anche negli anni di crisi economica. Data la sua vocazione esportatrice e la sua capacità di servire le fasce alte della domanda di alimenti di qualità da parte di un ceto medio mondiale in espansione, al sistema agroalimentare italiano sicuramente non conviene una globalizzazione di segno protezionistico. Se, infatti, dazi e barriere non tariffarie possono difendere la produzione interna dalla concorrenza estera, essi rendono più costose le importazioni (comunque necessarie anche per alimentare l’esportazione del made in Italy); ma, soprattutto, in un ambiente dominato dal protezionismo sarebbe più difficile per i nostri prodotti penetrare nei mercati esteri, particolarmente nei nuovi mercati extra-Ue, dove la domanda è più dinamica. Piuttosto – in agricoltura come in altri settori –all’Italia conviene perseguire (insieme all’Europa e anche grazie a essa) una via di mezzo tra protezionismo e libero commercio senza vincoli: un fair trade più che un free trade, secondo un approccio di “liberalismo pragmatico”, al cui interno sia possibile commerciare senza barriere, ma sia anche consentito esercitare – sia pure in dosi non eccessive – un “protezionismo culturale” per valorizzare la distintività dei nostri prodotti (in particolare le nostre eccellenze alimentari) e per difenderle da azioni predatorie e da pratiche di concorrenza sleale.

Conclusioni

I ragionamenti proposti in questa nota si possono schematicamente sintetizzare nei seguenti punti.
A livello globale quanto e forse più della disponibilità di cibo per tutti, preoccupano questioni quali la disponibilità e la distribuzione di acqua oltre che di terra, gli effetti del cambiamento climatico, la sostenibilità ambientale, le migrazioni tra e dentro i continenti, oltre che all’interno della stessa agricoltura.
Queste preoccupazioni si manifestano nel contesto di una nuova globalizzazione senza governo, sempre più incerta, ancora poco studiata e compresa, e di cui conosciamo solo ciò che si è lasciato alle spalle, ossia i cocci del modello di liberalizzazione multilaterale dell’Omc: la benevola egemonia statunitense, spazzata via dalla furia rottamatrice di Trump; l’idea forte di integrazione europea, oggi smarrita in un’Europa disorientata dalla Brexit, popolata di populismi antieuropeisti e alla ricerca di una nuova identità.
In questo quadro, non bisogna farsi tentare da scorciatoie protezionistiche per un improponibile ritorno al passato. Il protezionismo dei dazi e delle barriere doganali, salvo rare eccezioni, rende tutti più poveri, intralcia lo sviluppo delle catene globali del valore e a un paese esportatore come l’Italia non conviene per definizione: sia perché rende più difficile penetrare nei mercati emergenti, sia perché aumenta il costo delle importazioni dei prodotti necessari a produrre ciò che si esporta.
Piuttosto, bisognerebbe usare la crisi del vecchio modello liberista tout court per garantire una transizione verso un regime di commercio “corretto” più che “libero”: fair trade più che free trade, in cui sia possibile declinare un approccio di liberalismo pragmatico con opportune dosi di protezionismo culturale, per valorizzare e difendere le nostre tante  eccellenze agroalimentari nel mondo e sul mercato interno (europeo).
Per avere un ruolo in questa fase di transizione verso una nuova globalizzazione dai contorni incerti, non solo l’Italia, ma la stessa Europa è piccola, per cui a maggior ragione deve stare unita e stringersi intorno ai suoi presidi costruiti nel tempo: tra questi c’è sicuramente la Pac, che oggi va più che mai difesa e valorizzata anche per la sua valenza geopolitica.

Riferimenti bibliografici

  • De Castro P., Cibo - la sfida globale, Donzelli editore, Roma, 2015

  • De Filippis F., “Brexit”, il commercio agroalimentare e la Pac”, Intersezioni, dicembre 2016

  • Fao, The future of food and agriculture.Trends and challenges, [pdf], 2017

  • Greenville, J., Beaujeu, R., and Kawasaki, K., Estimating Gvc participation in the agriculture and food sectors, Oecd Trade and Agriculture Directorate, Working paper gennaio 2017,  [link]

  • Ismea, L’America first di Trump – Scenari globali per il commercio agroalimentare, Roma, settembre 2017

  • Greenville, J., Beaujeu, R., and Kawasaki, K., Estimating Gvc participation in the agriculture and food sectors, Oecd Trade and Agriculture Directorate, Working paper gennaio 2017, [link]

  • Mercandalli, S.  Losch, B., eds. Rural Africa in motion. Dynamics and drivers of migration South of the Sahara. Roma Fao e Cirad, 2017

  • Rodrik, “La globalizzazione sbagliata”, Internazionale, n. 1239, 19/25 gennaio 2018

  • Johnson R. C., Measuring Global Value Chains, Nber Working Paper n. 24027, National Bureau of Economic Research, [link]

  • 1. La presente nota riprende e approfondisce l’intervento dell’autore all’evento inaugurale della Fiera di Verona 2018. Ferma rimanendo la personale responsabilità di quanto scritto, si ringraziano i due anonimi revisori della rivista per i loro utili commenti a una prima stesura della nota.
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