La terra cambia di mano

La terra cambia di mano
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In molti paesi del globo la questione fondiaria è d’attualità per come si connette alla questione dello spazio rurale e dell’agricoltura. In Europa, essa sembra connettersi preferenzialmente alla protezione degli spazi naturali e agricoli contro la crescita urbana. Il fatto che la questione della proprietà della terra – e dei diritti afferenti a questa proprietà – non occupi il primo piano della scena pubblica non significa d’altro canto che niente evolva a riguardo. Proprio al contrario, le società europee conoscono attualmente una profonda evoluzione, da un lato per quanto riguarda la proprietà della terra che tende a ritrovare delle forme societarie anonime – sia per il riacquisto pubblico sia per la costituzione di società di capitali di tipo non familiare – dall’altro per quanto riguarda i diritti collegati alla proprietà, che vanno significativamente riducendosi. Il piccolo proprietario individuale, che dispone di tutti i diritti sulla sua terra, tende gradualmente a scomparire.

Diversità storica delle forme

La gestione e il godimento della terra hanno assunto nel passato e nelle diverse civiltà modalità molto varie e diversificate. La terra poteva essere un bene comunitario gestito collettivamente, poteva essere divisa con durata e modalità differenti, poteva essere proprietà di una famiglia, di un individuo, di una congregazione. O anche proprietà di coloro che la facevano fruttare. In queste circostanze, la distinzione stessa tra diritto di proprietà e diritto di godimento non è netta in quanto il diritto di proprietà assume un valore forte, che implica e si correla ad altri diritti: quello d’uso, quello di trasmissione ereditaria.
Molto spesso nella storia non è stato così, nel Messico azteco, per esempio, la terra era trasmissibile agli eredi, ma non alienabile. E anche nei paesi a diritto romano, in cui prevaleva l’usus et abusus, che dava ogni diritto al proprietario, fu necessario escogitare delle procedure per gestire questo principio. Così l’enfiteusi, apparsa nel terzo secolo, trasferisce diritti e doveri (pagare l’imposta fondiaria) dei proprietari su di un terzo gestore. Non essendo l’oggetto di questo articolo descrivere in dettaglio l’origine e le diverse forme passate del diritto fondiario, si prenderà semplicemente in considerazione che non esiste una forma naturale di proprietà e d’uso della terra ma solo delle forme culturali. Vale a dire dunque, logicamente, che questo diritto evolve in funzione dell’evoluzione stessa delle società.

Il trionfo della proprietà e dell’uso individuale

Mi concentrerò sulla Francia, il paese che conosco meglio ma, tenuto conto della convergenza delle società europee, l’evoluzione che vi si constata non è senza equivalente nei paesi vicini. Dalla Rivoluzione francese al 1970, con alti e bassi, l’evoluzione della questione fondiaria appare come il lento e inesorabile trionfo della proprietà e dell’uso individuali a vantaggio del gestore. In altri termini, il modello che si generalizza è quello dei proprietari-gestori, intendendo come gestore una persona fisica, un agricoltore e non quindi una persona giuridica. Nell’agricoltura europea dell’ultimo secolo le società di capitali hanno avuto poca rilevanza.
Riassumendo, l’agricoltura ha conservato una forma giuridica artigianale: l’insieme dei mezzi di produzione e la produzione stessa sono organizzati in seno ad una unica entità giuridica: la persona fisica dell’agricoltore le cui sorti personali e familiari si integrano a quelle del suo patrimonio. Nel caso di affitto della terra, il sistema che ha prevalso in Francia è stato quello del fermage, in cui l’affittuario gode di un “quasi diritto” di proprietà, poiché può trasmettere l’affitto ai suoi discendenti. In questa forma di contratto, inoltre, mentre il gestore gode di un diritto molto esteso, gli obblighi che gli vengono imposti sono tutto sommato deboli. Dalla scomparsa delle grandi proprietà nobiliari ed ecclesiastiche, accompagnata dalla riduzione della popolazione agricola, si è operato un gigantesco trasferimento di proprietà fondiaria concentrata nelle mani di un numero sempre minore di agricoltori.
Questo sistema funzionava relativamente bene. Da una parte le modalità di gestione della terra avevano il consenso sia della società che degli agricoltori, dall’altra, ed è forse questo il punto fondamentale, la redditività dell’agricoltura era tale da permettere agli agricoltori il riacquisto dei mezzi di produzione e in particolare della terra generazione dopo generazione. In effetti, ad ogni passaggio generazionale, gli agricoltori rimanenti dovevano riacquistare le terre dai partenti (agricoltori senza successori, fratelli e sorelle soppiantati nella successione).
Da quindici anni, però, si è manifestato ed è cresciuto il problema delle proprietà “intrasmissibili”. Nei fatti, “intrasmissibili” nel sistema “artigianale” dell’agricoltura tradizionale e degli agricoltori proprietari o “fermiers” fin qui descritto. Il problema che è emerso negli ultimi lustri consiste nella impossibilità per il singolo agricoltore individuale di riacquistare la proprietà della terra, in quanto egli non ha più alcuna matematica possibilità di rimborsare il debito durante la sua vita professionale, tanto il mezzo di produzione è diventato costoso in proporzione al suo rendimento. Si è arrivati nell’agricoltura francese a dei rapporti capitale/lavoro analoghi a quelli dell’industria pesante. In queste condizioni appare difficile, se non del tutto impossibile conservare un modello di agricoltura artigianale e familiare.

Il ritorno a delle forme collettive

Tutto ciò ha spinto gli attori a reagire e a trovare delle soluzioni. La più semplice è stata evidentemente disgiungere le strutture sociali di proprietà della terra dalle strutture della sua gestione. Ecco qui di seguito alcuni esempi.

  • Un agricoltore crea due società, una per possedere la terra, l’altra per gestirla. Al momento della trasmissione della proprietà trasmette al figlio continuatore dell’attività l’integralità della società di gestione (che generalmente, in termini di capitale, rappresenta un valore minore) e trasmette a tutti i figli le rispettive parti della prima società. Nei fatti, egli non trasmette che parti di società praticamente invendibili. Ma in capo a due generazioni siamo già ai cugini. La società familiare diviene rapidamente e sempre di più evidentemente una società di capitali. In diversi paesi dell’Europa centro-orientale, d’altronde, l’emergere delle società “capitalistiche” di questo tipo è avvenuto in modo accelerato dopo la caduta del comunismo(1). Le società capitalistiche agricole sono già una realtà.
  • Un figlio di agricoltori eredita delle terre che non intende coltivare (perché ha un altro impiego più redditizio), ma non vuole comunque porle in fermage, cosa che lo priverebbe completamente del possesso. Rimane allora nominalmente gestore e ricorre ad un contoterzista o anche ad una società di lavori agricoli, che realizza per lui tutta l’attività produttiva e gestionale. Si può immaginare facilmente quali possono essere gli esiti di una tale soluzione in capo a un paio di generazioni.
  • Una collettività territoriale desidera preservare una zona per ragioni ambientali o territoriali, vi costituisce un diritto di prelazione e l’affitta sotto condizione a dei gestori esterni.
  • Un gruppo di persone, sensibili alle tematiche ambientali e preoccupate della salubrità degli alimenti, si aggrega e crea una società per acquistare della terra e metterla a disposizione di un giovane agricoltore (spesso biologico). Generalmente i proprietari di quote di capitale fondiario divengono in casi del genere i primi clienti dell’agricoltore stesso.

Al di là di questi differenti esempi di proprietà, si assiste ugualmente a un aumento degli obblighi che pesano sul conduttore. In un mondo europeo dove globalmente lo spazio è un bene raro e dove l’attività agricola interferisce pesantemente sulla disponibilità e la qualità dell’acqua, dell’aria, del paesaggio, è inevitabile che l'usus et abusus dei latini sia oggetto di restrizioni via via crescenti. Gli obblighi che pesano sempre di più sui produttori, del cui onere riflesso spesso si lamentano, sono proporzionati all’impatto delle loro pratiche sul resto della società. E’ questa una condizione verso la quale si orienta l’Europa all’insegna del suo “modello di agricoltura”, verso il quale muovono sia pure timidamente, ma irreversibilmente, le ricorrenti riforme della PAC. Ma il problema si affaccia anche fuori dall’Europa. In Brasile, per esempio, un agricoltore che adotti la tecnica del “rittochino”, che svolga cioè le arature nel senso del pendio, è suscettibile di un’ammenda (il “rittochino” è infatti una pratica che favorisce l’erosione, le inondazioni ecc.). Per ora, non c’è ancora in Francia una norma del genere! Niente autorizza comunque a pensare che questa tendenza ad un maggiore controllo ambientale si invertirà, molto semplicemente perché i problemi non si attenuano e rischiano di aggravarsi.
Infine non solo i modi in cui si esercita la proprietà evolvono, ma lo stesso contenuto del diritto di proprietà va assottigliandosi. Si assiste ad una de-individualizzazione della proprietà della terra e del suo uso.

Domani, la terra?

Una sola cosa è certa, il peggior modello è quello latifondista: una proprietà oligopolistica della terra concentrata in un numero limitato di mani che possono usarne e abusarne senza restrizioni. Tanto il sistema sovietico, che quello delle aristocrazie fondiarie presenti in passato specie nell’Europa meridionale e che ancora affliggono vaste aree del pianeta hanno mostrato le conseguenze drammatiche di una tale situazione. D’altro canto, la sola difesa nostalgica della piccola proprietà individuale non potrebbe costituire una risposta efficace. Almeno per quanto riguarda l’Europa, la proprietà collettiva della terra – che sia sotto forma privata (le società fondiarie) o pubblica (comuni o regioni) – associata ad una messa in valore individuale secondo delle norme pubbliche e sulla base dell’affitto deve essere decisamente privilegiata. La terra potrà essere forse gestita domani come l’acqua. Ma su quale base si realizzerà la contrattualizzazione tra proprietari e conduttori? La questione delle “buone pratiche agricole” come base di una contrattualizzazione tra proprietari e conduttori della terra è un immenso cantiere nel quale sfortunatamente le organizzazioni agricole hanno giocato fin qui un ruolo inappropriato. Aggrappate al loro modello artigianale, sono state incapaci di posizionarsi come “negoziatori” di un nuovo contratto di cui sarebbero state le promotrici. La società, compresi gli agricoltori individuali, si è mossa evidentemente più velocemente. Gli accordi locali per la manutenzione del territorio e le pratiche agricole rispettose dell’ambiente formano un vivaio dove si elaborano le politiche rurali di domani. Rimane da far emergere e centrare su di esse il dibattito e la riflessione.

Note

(1) L’aggettivo “capitalistica” deve essere inteso in senso proprio. Si tratta di strutture associative in cui il “capitale” non è più “familiare”, il fondamento della società non è più dunque la famiglia e i detentori del capitale possono avere pochi o nessun legame familiare tra loro.

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