Sviluppo rurale e istituzioni: un cantiere aperto

Sviluppo rurale e istituzioni: un cantiere aperto
a Università della Tuscia, Dipartimento Istituzioni Europee

Il Cantiere agricolo

L’adozione, nel settembre 2005, del nuovo regolamento sullo sviluppo rurale1, ricco di novità sia di disegno istituzionale che di contenuti rispetto al regolamento del 1999 che ha sostituito, sollecita ad un’indagine sui possibili esiti di questo atto normativo all’interno del sistema italiano di governo dell’agricoltura.
Occorre muovere dalla considerazione che soggetti, competenze, e procedimenti in materia, restano obiettivamente di incerta individuazione e perimetrazione nel nostro Paese, a cinque anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione, e dalla scomparsa della parola "agricoltura" dal testo, ma non dai contenuti, dell’art.117 della Costituzione (Jannarelli 2003, Costato 2004, Germanò 2003a, 2003b).
Tanto che - non senza ragione - Cantiere agricolo è divenuto espressione ormai consueta nelle riflessioni sulle vicende di questi anni del diritto dell’agricoltura, a designare una sorta di architettura spontanea, per successive addizioni, che non sembra disporre di condivise ed esplicite tavole di progetto predisposte ex ante, e piuttosto richiede la redazione ex post di rilievi e di mappe, anch’essa articolata per sistemazioni progressive e in larga parte provvisorie (Albisinni 2005b).
In Italia il Cantiere si è aperto alla fine degli anni ’90, alla dichiarata ricerca di nuove linee di organizzazione dell’intervento pubblico, dopo due decenni in cui (acquisita la riforma dei patti agrari con la legge n.203 del 1982) la legislazione sembrava esaurirsi in pedissequa applicazione delle disposizioni comunitarie, ovvero in posizione di minuti benefici difficilmente riducibili a sistema, sempre però all’interno di una logica sostantiva, che aveva a lungo trascurato i profili di governo delle istituzioni e dell’economia.
Da qui un indefinito movimento (Irti) di provvedimenti di regolazione, che, svalutando esigenze di coerenza tra istituti, ha largamente privilegiato tecniche additive, di sovrapposizione di soluzioni particolari.
Ne è risultata una quota crescente di nuova regolazione, connotata dal canone di complessità (Gell-Mann), necessariamente plurima, sia per le fonti che per gli oggetti assunti come elemento di individuazione, qualificazione e regime.
La peculiare connotazione di un processo permanente di riforma del quadro disciplinare, praticato ma non definito, e perimetrato solo in ragione di finalità, la cui genericità ed ampiezza è tale da poter assumere i più vari contenuti, si è accompagnato al sovrapporsi non sempre ordinato di centri regolatori, operanti secondo canoni assertivamente funzionali, di utilizzo assai più incerto delle tradizionali ripartizioni di competenze.
Anche tecnica e linguaggio del diritto di fonte nazionale hanno conosciuto in questi anni articolazioni ben diverse da quelle tradizionali, e sembrano piuttosto rimandare a tecniche e linguaggi propri del diritto comunitario dell’agricoltura, siccome risolventesi in una molteplicità di provvedimenti di contenuto economico, apparentemente privi di impianto sistematico, connotati nel senso dell’amministrazione più che in quello della legislazione.
Se ne potrebbe concludere – secondo alcuni commentatori - che la comunitarizzazione del diritto dell’agricoltura investe ormai non soltanto il merito della disciplina, in ragione della primazia del diritto comunitario nella materia, ma anche modelli e tecniche, concettuali, argomentativi e comunicativi, attraverso i quali si fa diritto.
Va detto, peraltro, che le critiche mosse al diritto comunitario hanno risentito a lungo delle suggestioni di una risalente dottrina civilistica, poco propensa ad accogliere un metodo, quello casistico, che non esclude una diversa possibile sistematica, articolata su base storico-comparativa.
Al contrario, proprio nella disciplina europea dell’agricoltura è possibile individuare linee sistematiche e ordinatrici, al di là della moltitudine di regolamenti (Jannarelli 1990, 2003).
Negli ultimi anni, in particolare può dirsi consolidato l’emergere di due piani:

  • per un verso la tendenza ad una legislazione di principi e di sistema, che si esprime in corpi normativi unitari (generalmente introdotti con regolamenti del Consiglio), che ha visto nel 1999 l’adozione del regolamento n.1257, con l’introduzione di una disciplina dello sviluppo rurale generale ed estesa all’intero territorio comunitario2 e con il riordino di una molteplicità di precedenti misure in una sorta di codice europeo dello sviluppo rurale, e nel 2003 l’adozione del regolamento n. 1782 con l’introduzione del regime unico di pagamento3 e l’unificazione di plurime discipline verticali sin qui fortemente differenziate in quello che può essere inteso come il codice europeo dei regimi di sostegno diretto all’agricoltura (Albisinni, 2005A); di talché anche in prosieguo, nel 2004, la riforma delle OCM dei settori dell’olio di oliva, del tabacco, del cotone e del luppolo4, si è tradotta in disposizioni destinate non a stare per sé sole, ma ad inserirsi nel corpo normativo del regolamento n.1782/2003;
  • per altro verso, e su un piano anche formalmente distinto, l’assegnazione del livello dell’ amministrazione agli atti di gestione della quotidianità (anch’essi in forma di regolamento, ma della Commissione), per loro stessa natura emendati ed integrati di continuo.

Singolarmente, nell’esperienza italiana il Cantiere agricolo sembra aver privilegiato soltanto uno degli aspetti dell’esperienza comunitaria: vale a dire l’amministrativizzazione della legislazione, senza condividere il bisogno di riorganizzazione sistematica, che connota i più recenti interventi europei.

Il primato delle istituzioni nella riforma della PAC

In questo quadro, due fenomeni, distinti ma coevi, hanno riportato l’attenzione sul tema dei modelli di governo dell’agricoltura; tema – come si è detto – largamente trascurato dalla legislazione di diritto interno di fine ed inizio secolo.
In particolare abbiamo assistito:

  • al prepotente emergere di domande locali di regolazione anche d’impresa, nella duplice veste di una pratica di autoregolazione a base consensuale e pattizia, e di una crescente affermazione del soggetto Regione, oggi sostenuta anche sul piano della lettera della Costituzione dalla riforma del Titolo V;
  • ed insieme alle sollecitazioni provenienti dall’ordinamento comunitario, che va ricercando risposte alle sfide poste dall’allargamento a nuovi Stati membri e dall’evoluzione dei negoziati sul commercio mondiale, accompagnando alla dimensione sistematica della legislazione una crescente attenzione verso i profili di governo, in una prospettiva che fa necessariamente i conti con una rilocalizzazione delle scelte, non più gestibili solo centralmente.

Giova qui ricordare che già con il primo regolamento sullo sviluppo rurale, n.1257 del 1999, l’ordinamento comunitario ha collocato in pensione, dopo quasi un trentennio, la risalente figura dell’imprenditore agricolo a titolo principale. Al modello unico introdotto dalla direttiva n. 159 del 19725, ed ai plurimi modelli degli anni '80, si è sostituito non un diverso modello di struttura uniforme e fortemente conformata, ma una de-strutturazione, una libertà di conformazione, misurata per congruità agli obiettivi assunti, e libera nell'adozione di differenziati modelli organizzativi dell’impresa, oltre che nella scelta del livello geografico ritenuto più opportuno per la redazione dei piani di sviluppo rurale.
Ne è emerso un diverso modo di fare norma, che privilegia l’adattabilità ad una realtà plurale, il flessibile diritto della felice formula di uno studioso francese (Carbonnier).
Sicché, nei successivi piani di sviluppo rurale, ancor prima della riforma del Titolo V della Costituzione, le Regioni – sulla base della de-strutturazione operata dal diritto comunitario - hanno potuto legittimamente adottare criteri non uniformi, tanto per l'individuazione dei soggetti privilegiati ai fini della distribuzione degli aiuti, quanto per la scelta delle iniziative e dei territori cui assegnare specifica attenzione.
La pluralità di missioni o funzioni assegnate in sede comunitaria all'agricoltura europea, a far tempo dagli anni '80 e poi con maggiore enfasi negli anni '90, ha finito insomma con l’imporre un modello di governo dell’agricoltura, che necessariamente si misura con una dimensione locale e negoziale delle scelte.
La natura plurale dell’agricoltura (Adornato 2004), e con questa la necessità di valorizzazione dei momenti di autonomia nelle decisioni di allocazione delle risorse in coerenza con le peculiarità dei territori (qui intesi nel duplice senso, geografico e di comunità locale), è stata rafforzata in prosieguo dalla radicale riforma operata con il regolamento n. 1782 del 2003. La nuova definizione di attività agricola, introdotta da questo regolamento, non solo ha sancito, anche sul piano della lettera della legge, la piena equiparazione delle attività di manutenzione ambientale alle tradizionali attività produttive, ma soprattutto ha riattribuito all’imprenditore agricolo l’autonomia delle scelte, lì ove ha qualificato come attività agricola – ai fini del regime di pagamento unico – anche la semplice attività di manutenzione del terreno, e dunque un’attività in sé non immediatamente produttiva.
La valorizzazione degli elementi di libertà di impresa, ed insieme di dimensione anche locale delle scelte, individuano nel diritto dell’agricoltura un momento esemplare del processo di costruzione di un quadro di governo, non riducibile al solo diritto di fonte comunitaria, ma che costituisce il luogo di integrazione di una molteplicità di fonti regolatrici, di fini, di strumenti di intervento, di soggettività e competenze pubbliche e private.
La disciplina dell’agricoltura, in significativa corrispondenza con l’allargamento ai nuovi Stati membri, si va così articolando lungo un’ampia e non conclusa, né interamente definita, serie di atti nazionali e comunitari, che disegnano un diritto europeo dell’agricoltura, unitario ma non necessariamente uniforme nei diversi paesi della Comunità.
Sicché – come è stato osservato da un autorevole studioso di fatti istituzionali, in riferimento al regolamento sulla sicurezza alimentare, con considerazioni che ben si attagliano alle recenti riforme della disciplina dell’agricoltura – il diritto comunitario opera su diversi piani: "quello delle fonti del diritto, …(lì ove) reca principi generali … detta disposizioni dirette, per cui non sono necessari atti nazionali di attuazione; … quello dell’assetto che deve essere posto in essere in ciascuno Stato; … quello della collaborazione da assicurare tra organizzazioni nazionali e organizzazione comunitaria" (Cassese).
Si potrebbe dire che questo modo europeo di fare diritto non è altro che una forma di governo, in cui al primato delle fonti si sostituisce il primato delle istituzioni (Ferrarese), e che fissate le definizioni, affermati taluni principi, ed individuati (e talvolta istituiti o comunque conformati) i soggetti pubblici e privati, nazionali e comunitari, costruisce regole del movimento, assegnando a successivi atti ed esperienze, nazionali, regionali e locali, dunque non solo comunitarie, la progressiva adozione di regole della quotidianità.

La leale collaborazione nella giurisprudenza costituzionale sul Titolo V

Le linee così individuate in sede comunitaria hanno trovato significativo riscontro, in sede nazionale, nella giurisprudenza costituzionale, che a partire dalla riforma del Titolo V, ha dovuto occuparsi più volte della difficile perimetrazione delle competenze fra Stato e Regioni, in riferimento ad una materia, l’agricoltura, che – come si è ricordato – è scomparsa dal testo riformato dell’art.117 cost. ma si è rivelata straordinariamente presente nel confronto normativo e politico fra lo Stato e le Regioni. Basti qui ricordare che dal gennaio 2002 al giugno 2006 ben 73 pronunce della Corte hanno investito questioni che in vario modo riguardano l’agricoltura, con un impressionante crescendo del contenzioso costituzionale in argomento6.
A fronte di posizioni regionali, che, in forza dell’assenza della parola agricoltura dal testo riformato dell’art.117 cost., rivendicavano una competenza esclusiva su tutto ciò che poteva riguardare questa materia, la Corte costituzionale per un verso ha individuato come "nocciolo duro della materia agricoltura""la produzione di vegetali ed animali destinati all'alimentazione», riconoscendola come «competenza legislativa affidata in via residuale alle Regioni e sottratta alla competenza legislativa statale"7.
Per altro verso, però, attraverso una serie di decisioni che esprimono un evidente impegno di lettura ricostruttiva e sistematica dell’intero Titolo V riformato, la Corte ha disegnato un’articolazione delle competenze regolatrici in agricoltura, che integra momenti nazionali e regionali di disciplina e di scelta.
In questa lettura il Giudice delle leggi ha individuato un ormeggio normativo saldo proprio nel diritto di fonte comunitaria.
Peraltro, quand’anche riconosciuta, la competenza legislativa dello Stato va comunque esercitata nel rispetto del "principio fondamentale di leale collaborazione" fra Stato e Regioni, cui la Corte ha più volte fatto riferimento quale privilegiato canone decisorio.
Alcune recenti decisioni hanno costituito per la Corte l’occasione per una compiuta illustrazione del complessivo disegno istituzionale che ne risulta.
Così, una sentenza del 20068, accogliendo il ricorso proposto dalla regione Marche avverso la normativa statale in tema di coesistenza fra agricoltura transgenica, convenzionale e biologica, ha chiarito che legittimamente lo Stato, nell’esercizio delle competenze esclusive di tutela dell’ambiente e concorrente di tutela della salute, può adottare norme generali in ordine alla coesistenza tra le colture e con ciò investire anche la disciplina dell’agricoltura; ma che tuttavia spetta alle Regioni esercitare il potere legislativo per disciplinare le modalità di applicazione del principio di coesistenza nei diversi territori regionali.
Ancor più di recente, una sentenza in tema di pesca, che pone problematiche analoghe a quelle poste dall’agricoltura quanto alla distribuzione di competenze, ha consentito alla Corte di precisare in dettaglio il contenuto da assegnare al principio di leale cooperazione fra Stato e Regioni9, "che si deve sostanziare in momenti di reciproco coinvolgimento istituzionale e di necessario coordinamento dei livelli di governo statale e regionale"10.

Il diritto europeo dell’agricoltura ed i nuovi regolamenti comunitari

La lettura del testo costituzionale operata dal Giudice delle leggi ha trovato significative conferme nella pratica di questi primi anni di applicazione del Regime di Pagamento Unico. Lo strumento adottato per l’attuazione in Italia della Riforma Fischler del 2003 è stato quello del decreto ministeriale11, sia per le scelte strategiche relative al disaccoppiamento ed alla politica per l’agricoltura di qualità prevista dall’art. 69 del reg. 1782/2003, sia per le decisioni applicative su profili di notevole rilievo economico (quali quelli relativi alla successione ereditaria anticipata od all’individuazione dei nuovi agricoltori).
La base giuridica del D.M. è assai debole ed è stata motivatamente censurata (Costato-Germanò-Albisinni). Ma nonostante l’inadeguatezza della base giuridica adottata, restano come elementi qualificanti di lungo periodo la previsione che pur in sede nazionale il potere va esercitato d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni e, insieme, il richiamo alla parità di trattamento ed alla tutela del mercato e della concorrenza come giustificazione ordinamentale e sistematica.
Il diritto di fonte comunitaria in generale, e la Riforma Fischler in particolare, hanno dunque contribuito ad esplicitare l’esigenza di una dimensione anche nazionale di governo in agricoltura, ma nel contempo hanno concorso a collocarla all’interno del quadro di leale collaborazione più volte riaffermato dalla Corte costituzionale.
Il nuovo regolamento sullo sviluppo rurale prosegue lungo questo percorso, come risulta evidente già da un semplice confronto fra il regolamento del 2005 e quello del 1999.
Il regolamento n.1257 del 1999 si apriva direttamente con l’indicazione delle misure sostenibili nel merito, e dedicava soltanto negli ultimi articoli alcune disposizioni ai profili di programmazione, rinviando al regolamento n.1260/1999.
Il regolamento n.1698 del 2005 dedica sia il Titolo I che il Titolo II al quadro istituzionale ed all’impostazione strategica. Da qui l’attenzione ai plurimi soggetti della programmazione, individuati sulla base dei criteri di complementarità e partenariato. Da qui anche la previsione originale12 della predisposizione, ad opera di ciascuno Stato membro, di un piano strategico nazionale nel quale raccordare i programmi di sviluppo rurale.
Il principio di leale collaborazione trova accoglimento sostanziale, con la formula del partenariato, nell’art.6, che chiama gli Stati membri a coinvolgere, sia nel piano strategico nazionale, che nei programmi di sviluppo rurale, oltre agli enti pubblici territoriali e altre autorità pubbliche competenti, le parti economiche e sociali e qualsiasi altro organismo rappresentativo della società civile, le organizzazioni non governative nel settore socioeconomico, ambientale o in altri settori13; e nell’art.11 lì ove prevede che "Il piano strategico nazionale garantisce la coerenza tra il sostegno comunitario allo sviluppo rurale e gli orientamenti strategici comunitari, nonché il coordinamento tra le priorità comunitarie, nazionali e regionali. I piani strategici nazionali rappresentano uno strumento di riferimento per la programmazione del FEASR. Essi sono attuati attraverso i programmi di sviluppo rurale".
L’assetto formale, oltre che quello materiale, della disciplina del governo dell’agricoltura nel nostro Paese, viene conformato in misura significativa da queste scelte europee, ove si consideri che ai sensi del testo riformato dell’art.117 cost.: "La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali".
Stato e Regioni, pertanto, non potranno ignorare le prescrizioni del nuovo regolamento sullo sviluppo rurale, quanto al procedimento, alle competenze ed ai soggetti, anche privati ed espressione delle comunità locali, cui spetta esplicita legittimazione "nell'elaborazione e nella sorveglianza dei piani strategici nazionali, nonché nella preparazione, attuazione, sorveglianza e valutazione dei programmi di sviluppo rurale"14.
Anche nel merito delle scelte, la Riforma Fischler ed il nuovo regolamento sullo sviluppo rurale rafforzano questo quadro, muovendo verso un diritto europeo dell’agricoltura, che non è un diritto unico per i venticinque paesi che oggi compongono la Comunità, ma un diritto comune, nel quale bisogni e soggetti, nazionali, regionali e locali, occupano un posto centrale, nella misura in cui la disciplina giuridica è anzitutto un sistema di segnali, di comunicazione, di decrittazione, un modo di interpretare (e dunque di regolare) l’esperienza del reale, che richiede la condivisione di un comune linguaggio.
Scompare sul piano del linguaggio quella categoria di attività rurali che era stata introdotta dall’art.33 del regolamento (CE) n.1257/1999 e che aveva a suo tempo suscitato notevole interesse per la sua novità. Ma non scompare nei contenuti, i quali riprendono tutte le indicazioni precedenti ed anzi enfatizzano due nuovi versanti di intervento: la qualità alimentare e l’attività forestale.
La qualità alimentare è esplicitamente assunta nell’ambito di tutte le misure di miglioramento della competitività.
Ed il sostegno alle misure forestali non è più inteso separatamente ed a margine delle altre misure, come avveniva con gli artt. 29-32 del reg. (CE) n. 1257/1999, ma è inserito a pieno titolo, sia con riferimento agli investimenti produttivi che a quelli con fini ambientali, affiancando all’agricoltore un nuovo soggetto, il detentore di aree forestali, al quale si riconosce piena legittimazione.
La novità è ancor più rilevante ove si consideri che, con una decisione di pochi anni fa, la Corte di Giustizia, accogliendo il ricorso della Commissione e del Parlamento europeo, ha concluso che, non essendo il legno un prodotto agricolo, il sostegno dell’attività forestale non rientra nella politica agricola, ma in quella ambientale; sicché le relative misure andavano adottate con il procedimento e le maggioranze previste dall’art. 251 del Trattato, e non con quelle di cui all’art. 3715.
La riforma del regolamento sullo sviluppo rurale, assegnando dichiarato ed esplicito rilievo all’attività forestale come attività rientrante a pieno titolo e non solo in via sostitutiva nell’ambito della politica agricola europea, rafforza la dimensione territoriale dell’intervento, concorre a spostare l’enfasi dal prodotto al territorio, sottolinea l’esigenza di un modello di governo, che sia insieme capace di scelte strategiche condivise sul piano nazionale e di decisioni ed interventi anche assi differenziati sul piano regionale.
L’esperienza dei prossimi anni ci dirà quanto queste novità istituzionali e di merito potranno calarsi in una realtà italiana dell’oggi, che con grande fatica ricerca possibilità di stabile confronto (Adornato 2005).
Torna alla mente l’immagine del “diritto insonne come il grifone” evocata di recente da uno studioso che da anni indaga sui temi della codificazione (Irti), riprendendo le sollecitazioni di Paul Valéry. Il diritto europeo dell’agricoltura, come il grifone insonne, esprime non la «pacificante e assoluta oggettività» di un testo, ma piuttosto quella "“discordia organizzata e feconda” che è la vita stessa del diritto … l’inesauribile fertilità del testo" (Irti); è ordinamento plurale che valorizza la diversità e l’autonomia, ma richiede insieme "complementarità, coerenza e conformità"16, imponendo a tutti i protagonisti (ed anzitutto ai regolatori nazionali e regionali) scelte e responsabilità non rinviabili.

Riferimenti bibliografici

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  • 2. Regolamento (CE) n.1257/1999 del Consiglio del 17 maggio 1999.
  • 3. Regolamento (CE) n.1782/2003 del Consiglio del 29 settembre 2003.
  • 4. Regolamento (CE) n. 864/2004 del Consiglio del 29 aprile 2004.
  • 5. Direttiva 72/159/CEE del Consiglio, del 17 aprile 1972.
  • 6. Si va dalle 10 decisioni in materia di agricoltura del 2002, alle 12 del 2003, alle 16 del 2004, alle 21 del 2005, ed alle 14 del primo semestre del 2006.
  • 7. Così la sentenza n.12 del 13 gennaio 2004.
  • 8. Corte cost., sentenza n.116 del 17 marzo 2006.
  • 9. Corte cost., sentenza n.213 del 17 maggio 2006.
  • 10. Così in motivazione la sentenza n. 213 del 17 maggio 2006.
  • 11. D.M. 5 agosto 2004, n.1787.
  • 12. Art.11 reg. (CE) n.1698/2005.
  • 13. Cfr. la più ristretta previsione contenuta nell’art.8 del reg. (CE) n.1260/1999.
  • 14. Art. 6, par.3, reg. (CE) n. 1698/2005; cfr. la più ristretta previsione contenuta nell’art.8 del reg. (CE) n.1260/1999.
  • 15. Corte di giustizia, sentenza 25 febbraio 1999, in cause riunite C-162/97 e 165/97.
  • 16. Secondo l’espressa previsione dell’art. 5 del reg. (CE) n.1698/2005.
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