La governance come fattore di successo dei prodotti tipici: alcune riflessioni a margine di una ricerca europea

La governance come fattore di successo dei prodotti tipici: alcune riflessioni a margine di una ricerca europea
a Università degli Studi di Parma, Dipartimento di Economia

Qualità delle materie prime e identificazione di un marchio: ecco la ricetta base per la buona riuscita di un prodotto tipico. Ma questo non basta. Per fare di un prodotto tipico un prodotto di successo occorrono decisioni articolate e una stretta convergenza degli interessi degli attori coinvolti, elementi complessi ma indispensabili per aprire la via verso una buona riuscita. La dimensione aziendale, improntata alla efficienza, e la gestione della filiera, orientata alla garanzia di qualità della materia prima e del processo di lavorazione, insieme, aprono poi la strada a un orizzonte di successo. Le ragioni del mercato, infine, suggeriscono anche l’esigenza di un’attenzione particolare alle strategie di comunicazione. Perché, da sole, le materie prime di lavorazione e le caratteristiche culturali che avvolgono il prodotto e la sua storia non arrivano a stimolare a sufficienza l’interesse del consumatore medio.
Per questo, parlare di strategia diventa indispensabile e il viatico che si apre è quello che segna la differenza tra il prodotto DOP e quello IGP.
Se da una parte, infatti, il prodotto DOP richiama il turismo locale e si cimenta di certo con un notevole appeal nell’area di prossimità al suo luogo di origine culturale, dall’altra manca l’attenzione forte alle ragioni del mercato di massa e della grande distribuzione. Ragioni che, se soddisfatte, consentono di ottenere un buon posizionamento del prodotto, l’esportazione degli aspetti culturali che lo hanno generato e, di riflesso, anche una certa emancipazione dell’area di origine, della sua popolazione e della sua identità culturale.

Come nasce un prodotto tipico

Nonostante la non piena conoscenza dei marchi europei e del loro significato, il consumo dei prodotti tipici in Europa è crescente. Esso è legato a tre tipologie di fattori che ne possono condizionare, in senso ora positivo, ora negativo, le potenzialità commerciali. La prossimità dell’uso alla regione di origine, sia geografica che culturale, promuove di fatto la scelta consapevole del prodotto. La sua complessità, inoltre, può essere importante come comportamento: i prodotti cosiddetti “complessi” implicano potenzialità di sviluppo dei metodi e della tradizione ad essi legati, dando vita a una sinergia che ne favorisce il consumo motivato e consapevole. Infine, la presenza di fattori di macro livello può essere importante, per esempio, in paesi o regioni con una forte tradizione socio-culturale, che facilitano la presenza di fruitori che operano la loro scelta anche in virtù di un senso civico.
Se il prodotto tipico dovesse perdere le caratteristiche di prossimità geografica e culturale, mantenendo una forte caratterizzazione di complessità, in assenza di marchi noti, o in presenza di marchi troppo ampi come quello comunitario, non sarebbe in grado di informare e rassicurare i consumatori.
Ecco dunque che la difficoltà di comunicare la qualità del prodotto tipico lascia spazio a forti politiche di comunicazione con maggiore capacità di penetrazione, come quelle basate sulla reputazione territoriale; si pensi, per esempio, al vino Chianti che trae notorietà anche dalla sua reputazione legata al territorio e alla cultura che esso esprime nell’immaginario collettivo. Le elevate potenzialità di comunicazione legate al territorio, purtroppo, lasciano spesso spazio a comportamenti sleali a danno dei consumatori e a conseguenti iniziative di autodifesa, che possono, addirittura, spingere fino al mancato acquisto del prodotto o alla “selezione inversa”. L’importanza della governance come fattore alla base dello sviluppo dei prodotti tipici trova in queste dinamiche la sua ragione di essere.

DOP e IGP: due sigle che identificano prodotti tipici diversi

Ecco perché si delinea una situazione di coesistenza tra produzioni tipiche vicine alla produzione di massa e produzioni tipiche che possono essere considerate di nicchia. Proprio con riferimento alle caratteristiche del prodotto, Sylvander e Barjolle (2000) evidenziano le specificità dei prodotti cosiddetti tipici. Essi devono essere nettamente diversi dai prodotti industriali che fanno riferimento allo stesso segmento di mercato, in ragione di peculiarità che il consumatore deve essere messo in grado di riconoscere o percepire.
Sebbene i prodotti tipici DOP/IGP e STG facciano riferimento a beni già presenti nel territorio con un loro preciso metodo di produzione, il processo di istituzionalizzazione, e più specificatamente la scelta tra DOP e IGP e la definizione di un disciplinare di produzione pubblico, può portare alla nascita di produzioni con caratteristiche leggermente diverse rispetto ai beni di origine. Queste diversità sono giustificate dagli obiettivi economici e commerciali che gli attori si pongono e dai vincoli tecnologici e produttivi che oggettivamente sono presenti nella fase di produzione.
In altre parole, se i disciplinari relativi ai prodotti DOP sono molto restrittivi rispetto al ruolo del territorio, all’origine delle materie prime e al rispetto della tradizione, i disciplinari IGP offrono l’opportunità di “re-inventare” il prodotto, permettendo di fatto un maggiore grado di libertà rispetto all’origine delle materie prime e alla loro lavorazione. Inoltre, il disciplinare IGP consente il superamento delle limitazioni geografiche per il procacciamento della materia prima e dei vincoli inerenti le tecniche produttive più industriali, sempre nel rispetto di una tradizione locale.
Esiste quindi una differenza in termini di qualità e reputazione a favore dei prodotti DOP i quali, con qualche eccezione, sono riferiti a produzioni di nicchia, molto limitate e riservate a mercati di prossimità. Per contro, le produzioni IGP si addicono meglio a produzioni più industriali e di massa destinate a mercati più distanti e più ampi. Nella realtà italiana, vi sono numerosi esempi significativi di prodotti IGP: la bresaola della Valtellina, lo speck del Tirolo, lo zampone di Modena, l’olio toscano IGP e le pesche dell’Emilia-Romagna. In tutti questi casi, la difficoltà maggiore è proprio il reperimento della materia prima per produzioni “territorialmente” delimitate ma destinate a mercati di massa e veicolate mediante la moderna distribuzione.
Di fronte alla possibilità di “creare” un prodotto per il mercato, la scelta tra DOP, IGP e STG diventa cruciale. Ma assieme ad essa diventa fondamentale anche la definizione del disciplinare di produzione, documento tecnico, ottenuto come risultato del processo di mediazione politica tra i vari attori della filiera.

La DOP non basta: l’importanza della filiera

La filiera e la sua gestione rappresentano quindi le dimensioni nelle quali i prodotti tipici si distinguono tra loro e in cui si “giocano” le loro potenzialità.
Tre sono gli aspetti che possono essere considerati centrali nella realtà europea: i confini delle filiere e dei sotto-sistemi, la gestione e la leadership sociale, l’articolazione della filiera fino alla distribuzione (Albisu et altri, 2002).
La filiera non deve essere considerata come un sistema chiuso: è questa la prima regola da osservare. I prodotti tipici sono sottoposti alla pressione dei sistemi competitivi che tentano di accaparrarsi fette di mercato e in cui vigono consolidate regole organizzative e rituali di negoziazione.
E’ dunque necessario imporsi di analizzare le strutture del sistema per ottimizzare la strategia della filiera del prodotto tipico.

I confini delle filiere e dei sotto-sistemi

A questo riguardo, Réviron and Chappuis (2002) hanno individuato l’esistenza di tre tipologie differenti di organizzazione di filiera, rispetto alle modalità di sviluppare accordi tra gli attori: accordi contrattuali bilaterali, accordi contrattuali orizzontali e accordi verticali.
Occorre tenere presente che, spesso, ad un dato livello della filiera, il mercato presenta organizzazioni di tipo collettivo (istituzioni intermedie, cooperative, consorzi e associazioni) che gestiscono il rapporto tra venditori e acquirenti mediante lo sviluppo di regole e di modelli contrattuali di riferimento. Il coordinamento verticale nell’ambito delle filiere DOP/IGP, in nome della tutela della qualità e della reputazione, porta a superare le caratteristiche organizzative dei mercati intermedi sino ad abbandonare, parzialmente o totalmente, i partner commerciali tradizionali e i loro riti contrattuali, creandone di nuovi.
Ne discende che i sistemi di mercato convenzionale competono con le filiere DOP/IGP sugli stessi mercati al consumo, stigmatizzando la necessità di una differenziazione e di efficienza commerciale e quindi sulla necessità di un coordinamento. Un buon esempio in questo senso è il caso del formaggio svizzero della Raclette du Valais, il quale, presenta una produzione industriale di circa 12.000 tonnellate contro una produzione artigianale (DOP) di 2.000 tonnellate. Tali situazioni sono assai diffuse nel contesto europeo, giustificando l’adozione di strategie rispetto alla tutela del prodotto, della organizzazione di filiera e della politica di comunicazione.

La gestione e la leadership sociale

Il Regolamento UE 2081/92 ha stimolato i produttori di prodotti tipici non tutelati ad intraprendere il processo di riconoscimento istituzionale re-inventando tecnicamente il prodotto in relazione agli obiettivi economici degli attori (scelta tra DOP e IGP), a vincoli ambientali oggettivi (disponibilità della materia prima) e alla presenza di innovazioni tecnologiche che rendevano più competitiva la produzione e la commercializzazione. E’ in considerazione di questi fattori che possiamo distinguere tra “sistemi sviluppati”, dove il processo di definizione del prodotto, di tutela e coordinamento è avviato da tempo, e “sistemi in via di sviluppo”, dove il processo di definizione del prodotto, tutela e coordinamento è appena avviato e non ancora consolidato (Sylvander 2004). Questa distinzione diventa particolarmente importante perché pone l’attenzione sulle modalità con cui il sistema coordina la filiera in modo efficiente (riducendo i costi di transazione) coinvolgendo, o meno, gli attori istituzionali.
Ancora una volta, diventa importante il ruolo del coordinamento tra le istituzioni pubbliche e private coinvolte nel processo. I fattori che “fanno la differenza” sono l’obiettivo che l’azione di coordinamento si pone e il ruolo giocato da chi ha avviato il processo di istituzionalizzazione e da chi governa la filiera: rispettivamente, iniziatore e capitano della filiera. Tra le 15 produzioni tipiche analizzate nella ricerca europea DOLPHINS1 (Arfini 2003) emerge chiaramente come vi siano notevoli differenze tra le motivazioni degli iniziatori e obiettivi perseguiti (Tabella 1).

Tabella 1 - Prodotti oggetto di analisi nel progetto di ricerca europeo denominato DOLPHINS

Fonte: DOLPHINS-WP5 final report.

In generale si notano differenze dovute alle caratteristiche intrinseche al bene e alla modalità di produzione: alcuni di essi sono davvero manifatture, come il culatello, il Beacon Fell, l’Etivaz, l’olio Tras-os-montes, il formaggio Terrincho, altre possiedono la peculiarità di prodotti più industrializzati, come i salumi tipici Piacentini, il formaggio Roquefort, la birra bavarese, l’olio di oliva toscano. Altri ancora sono realizzati da piccole o piccolissime aziende, come la Ciliegia di Lari, il “C de Calitad”, la DOCG Carinena, la carne scozzese, l’asparago Schrobenhauser, Il Toro della Camargue. Per tutti i quindici prodotti presi in esame, il processo di istituzionalizzazione è iniziato in modo e per ragioni diverse. Per difendersi dalla competizione sleale, per avere maggiore visibilità, per differenziarsi in un sistema di competizione con altri… ma, in tutti i casi, l’intento era anche quello di aumentare la reputazione e il successo sul mercato.
Per tutti, ancora, il processo di istituzionalizzazione è stato difficile e ha generato conflitti, soprattutto per quanto riguarda la definizione del disciplinare e dell’area di produzione. Ognuno di loro possiede un ente di certificazione della qualità, in alcuni casi esiste un marchio collettivo, ma pochissimi hanno un marchio aziendale.
Dunque i Consorzi e le Associazioni di produttori che gestiscono la filiera svolgono un ruolo che si può considerare non meno importante dell’azione di gestione delle singole imprese. Sono essi infatti che, di fatto, tracciano le politiche di gestione del prodotto, di comunicazione e dei rapporti tra gli attori della filiera. In questo modo, diventa evidente che le politiche espresse dai Consorzi sono speculari alle tipologie di attori che la filiera rappresenta a cui dà voce.

L’articolazione della filiera e la distribuzione

Uno dei fattori determinanti che contraddistinguono e differenziano i prodotti tipici è rappresentato dal legame con il territorio di origine. Questo si basa su due aspetti fondamentali: la capacità del territorio e del suo microclima di influenzare e condizionare la qualità del prodotto associato alla capacità dell’uomo di “amalgamare” le materie prime e i fattori ambientali (H. Briand, 2000). Il secondo è rappresentato da come il territorio è capace di fornire strutture e infrastrutture funzionali al processo, ma anche come è in grado di trasmettere e perpetuare la conoscenza rispetto ai sistemi di produzione che vengono adottati. Infine, non va dimenticato l’obiettivo economico e sociale che è alla base dei prodotti tipici, cioè consentire l’avvio e il mantenimento di un processo di sviluppo che abbia ripercussioni di tipo economico, sociale e ambientale. Che risponda, in altre parole, ai principi di multifunzionalità e sostenibilità.
Ecco dunque l’aspetto centrale di questo nodo: come considerano il territorio le strutture di governo della filiera (i Consorzi e le Associazioni dei produttori)? Che accordo sussiste tra esse e i policy maker locali che hanno la responsabilità di governo? Occorre, in sostanza, definire una strategia rispetto al territorio che possa favorire il settore e, nel contempo, tutelare il territorio favorendone lo sviluppo.
Le scelte possibili di fatto sono tre e ognuna attribuisce al territorio un ruolo differente: governance territoriale, di settore e governance corporativa (Sylvander 2004). Nella prima si privilegia il coinvolgimento di tutti gli attori del territorio, ponendo la tutela e la valorizzazione dell’area al centro dell’azione di governo. Le imprese locali e le istituzioni discutono e si accordano tra loro su base territoriale, adottando contratti formali e informali. In questi sistemi, esiste un alto grado di orgaizzazione a livello spaziale: istituzioni locali e relazioni inter-settoriali. Nella seconda, si sviluppano accordi di filiera “verticali” considerando il territorio come mero contenitore delle attività produttive, lasciando ad esso un ruolo di passività.
Infine, con la governance corporativa si privilegia il coinvolgimento solo di alcuni soggetti della filiera (es. i soli salumifici), oppure esiste una sola impresa che non negozia con le istituzioni.
Se l’obiettivo è quello di usare il territorio anche come luogo di promozione e commercializzazione del prodotto, facendo leva sulle specificità culturali e ambientali, si dovrà adottare una logica territoriale. Per contro, se il territorio è usato solo come luogo di produzione e la valorizzazione del prodotto avviene attraverso la sua reputazione, prevarrà una logica settoriale o corporativa. Le conseguenze, di caso in caso, saranno funzionali agli obiettivi che gli organi di coordinamento si sono posti.

Riferimenti bibliografici

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  • Sylvander B., Barjolle D. (2000). Some factors of success for origin labelled products in agri-food supply chains in Europe: market, internal resources and institutions. In Sylvander B., Barjolle D., Arfini F., (Eds.). The socio-economics of origin labelled products in agrifood supply chains: spatial, institutional and co-ordination aspects. INRA-UREQUA, Le Mans, France.
  • 1. DOLPHINS - Development of Origin Labelled Products: Humanity, Innovation, and Sustainability (Contratto n. QLK5-CT-2000-00593). [link]
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