Introduzione
Il ruolo dell’attività agricola nella gestione dei flussi dei gas serra (Greenhouse gas - Ghg) e le relative implicazioni nei processi di cambiamento del clima sono un tema oggetto di interesse, sia nei tavoli di negoziazione mondiale che si pongono l’obiettivo di monitorarne e ridurne l’entità, sia nella definizione degli obiettivi strategici della Pac (European Commission, 2010).
Per quanto riguarda il primo aspetto, a partire dal protocollo di Kyoto fino a giungere alle accounting rule concordate alla United Nations Climate Change Conference di Durban nel 2011 sono state definite successive modalità di valutazione delle emissioni di Ghg. Al momento è aperto un complesso negoziato per arrivare a una scelta condivisa delle nuove regole sulla base delle quali verranno definiti gli obiettivi di riduzione dei gas serra e del loro impatto sui cambiamenti climatici.
Con riferimento alla politica agricola comunitaria, la mitigazione e l’adattamento dell’agricoltura ai cambiamenti climatici sono esplicitamente individuati come sfide da fronteggiare con opportune azioni. In tale situazione, appare necessario utilizzare specifici strumenti del primo e del secondo pilastro per orientare le imprese agricole verso comportamenti capaci di migliorare le loro performance ambientali anche relativamente alla gestione dei gas climalteranti. A questo scopo è necessaria una adeguata metodologia che consenta di valutare tali performance e l’impatto che su di esse possono avere le diverse misure messe in atto.
La constatazione dell’impatto dell’attività agricola sul clima è definita, in entrambi i contesti, dalla pubblicazione da parte dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) di misure che quantificano le emissioni di Ghg e ne descrivono tipologie e distribuzioni tra settori.
A livello italiano è l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) a calcolare, in conformità a riconosciuti standard metodologici (Ipcc, 2006)1, il livello di emissioni nazionali attraverso l’Inventario nazionale delle emissioni (National inventory report - Nir). I risultati contenuti nel Nir e nel rapporto specifico sull’agricoltura identificano nel settore agricolo il principale responsabile dell’emissione di metano (CH4) e protossido di azoto (NO2) e il più alto contributore di emissioni, espresse in termini di tonnellate di CO2 equivalente, dopo il settore energia (Còndor, 2011)2. Da notare che il dato percentuale nazionale sulle emissioni di Ghg dell’agricoltura è in linea, anche se leggermente inferiore, rispetto alla situazione complessiva europea sia a 15 che a 27 (Eea, 2011).
Allo stesso tempo, all’agricoltura è riconosciuta una capacità di assorbimento di CO2, la quale però non viene attribuita direttamente al settore ma inserita nella categoria dei cosiddetti Lulucf (Land use, land use change, forestry) all’interno della quale è inclusa la voce delle “coltivazioni”, distinte in colture annuali, poliennali e arboree. Mentre per le prime si assume un contributo o, per le altre due sotto-categorie è conteggiata la capacità netta di stoccaggio di carbonio, come differenza fra guadagni e perdite nella biomassa vegetale e nel suolo, che viene convertita in termini di emissioni/assorbimenti di CO2. Tale valutazione, con riferimento all’anno 2009, riporta per l’uso del suolo destinato alle coltivazioni una capacità complessiva di assorbimento di CO2 superiore a 12 milioni di tonnellate, derivante per oltre l’85% dalle coltivazioni arboree (Eea, 2011). Da notare che, oltre all’Italia, solo Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda fra i Paesi EU-15 presentano un valore di emissioni negativo per la categoria coltivazioni e, comunque, nessuno paragonabile con quello italiano3.
In definitiva, secondo la metodologia Ipcc, che è quella che guida la valutazione dei Ghg ai fini dell’applicazione del protocollo di Kyoto, all’agricoltura vengono imputate solo le emissioni di CH4 e N2O, mentre le emissioni e gli assorbimenti di CO2 associati ai processi di coltivazione sono computati all’interno di altri settori. Per quanto riguarda le emissioni di CO2, queste sono originate in misura quasi esclusiva dalla meccanizzazione e dall’impiego di mezzi tecnici, principalmente fertilizzanti; le prime sono attribuite al settore “energia”, le seconde sono incluse all’interno del settore “processi industriali”. Gli assorbimenti, come si è visto, sono inclusi nella categoria dei Lulucf con un approccio che, di fatto, “nasconde” la capacità di assorbimento e stoccaggio di Ghg dei sistemi agricoli, fra l’altro riconosciuta nell’articolo 3.4 dello stesso protocollo di Kyoto (Pettenella et al., 2006), all’interno del ruolo largamente preponderante delle foreste. Tale capacità di assorbimento, fra l’altro, non è assolutamente trascurabile, considerando che nel 2009, con 12,3 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, rappresentava oltre il 35% delle emissioni complessivamente attribuite al settore agricoltura, valutate in circa 34,5 milioni di tonnellate di CO2 equivalente (Eea, 2011).
Alla luce di queste considerazioni, appare molto difficile poter trasferire, senza apportare adeguate modifiche, l’attuale approccio Ipcc a una valutazione dell’impatto dell’agricoltura sui Ghg, e più in generale sui cambiamenti climatici, che sia in grado di guidare delle politiche di settore rivolte alla definizione di azioni di mitigazione che possano essere messe in atto dalle singole aziende.
Infatti, se si adottasse questo approccio per indirizzare gli interventi della Pac sui cambiamenti climatici, l’unica opzione di mitigazione possibile sarebbe quella di una limitazione dell’attività agricola rispetto alle voci che concorrono a generare le emissioni, la cui riduzione può essere ottenuta solo adottando azioni di ridimensionamento degli allevamenti, delle fertilizzazioni organiche, della coltivazione del riso e, in generale, del suolo destinato all’attività agricola (Sau).
L’adozione acritica di una tale strategia porterebbe, in particolare riguardo alle coltivazioni, a delle conseguenze paradossali; risulterebbero virtuose, infatti, quelle pratiche che intensificano le produzioni adottando processi ad alto livello di meccanizzazione e di impiego di input chimici su superfici più limitate, mentre verrebbero penalizzate le aziende che coltivano superfici più ampie con tecniche estensive a basso impatto ambientale. Le prime, infatti, vedrebbero il considerevole incremento di emissioni trasferito ad altri settori (energia e industria), mentre l’incremento della superficie utilizzata a fini produttivi andrebbe ad accrescere le emissioni agricole delle seconde.
Essendo quindi evidente l’impossibilità di trasferire tout court al settore agricolo la metodologia di valutazione dei Ghg adottata dagli enti nazionali e sovranazionali di matrice “ambientale”, si apre la questione di come affrontare correttamente la valutazione delle emissioni e degli assorbimenti dei processi agricoli con una prospettiva coerente con le finalità ambientali delle politiche di settore.
Nella discussione seguente verranno presentate alcune metodologie, attualmente oggetto di approfondimento scientifico, che si pongono questo obiettivo e per le quali si cercherà di fornire una sintetica descrizione evidenziandone i pregi, i limiti e le potenzialità operative. Sulla base di questa rassegna viene proposta un’ipotesi di classificazione (riportata in tabella 1) nella quale vengono individuate tre tipologie di approccio (settore, prodotto, processo) alle quali vengono associate le diverse metodologie per ciascuna delle quali viene evidenziato l’ambito di applicazione e gli elementi oggetto di calcolo.
Tabella 1 - Ipotesi di classificazione su alcune metodologie di valutazione dei Ghg
Il calcolo delle emissioni di gas serra in agricoltura
Approccio a livello di settore (Metodo Intergovernmental Panel on Climate Change - Ipcc)
Il modello Ipcc base, come riportato nell’introduzione, attribuisce al settore agricolo solo le emissioni di CH4 e di N2O prodotte da alcune attività specifiche. Un tale approccio potrebbe essere applicabile anche alle singole aziende ma, per quanto si è detto, darebbe delle indicazioni parziali rispetto all’effettivo impatto ambientale della loro gestione e sarebbe addirittura fuorviante in una logica di adozione di azioni di mitigazione.
Un primo miglioramento di questo approccio, indicato nel prospetto con Ipcc (mod.1), consiste nell’attribuire all’agricoltura, sia a livello di azienda che di settore, anche le emissioni di CO2 che nella versione base del modello di calcolo sono incluse nei settori energia e industria. Tali emissioni, considerando che verrebbero calcolate sulla base di coefficienti standard non riferiti alle tecniche produttive aziendali, rappresenterebbero una stima sicuramente soddisfacente per il settore, ma scarsamente affidabile a livello di singola unità produttiva.
Ulteriore passaggio per migliorare le possibilità di applicazione all’agricoltura del modello Ipcc è quello indicato nel prospetto con (mod.2). A differenza del caso precedente, del quale mantiene un identico procedimento di valutazione delle emissioni determinate dai fattori produttivi (carburanti, fertilizzanti, ecc.), questo metodo utilizza la conversione in CO2 equivalente delle emissioni di CH4 e di N2O e, inoltre, tiene conto anche della quota di emissione/assorbimento di CO2 determinata dalla variazione netta di carbonio nella biomassa vegetale delle coltivazioni arboree e poliennali e nel suolo destinato a tali colture. Nel caso dell’agricoltura italiana, infatti, come si è accennato nell’introduzione, questi rappresentano due “serbatoi” che possiedono un’apprezzabile capacità di assorbimento di CO2 e, pertanto, tale potenzialità non dovrebbe essere ignorata nel momento in cui ci si rivolge al livello aziendale per mettere in atto strategie di mitigazione delle emissioni dei Ghg.
Questo metodo, pur non entrando nel dettaglio delle tecniche produttive, si presta comunque per eseguire una valutazione che assume l’azienda agricola come unità d’indagine. Chiaramente, considerando il riferimento a coefficienti standard di emissione e assorbimento, è un approccio che sembra più adatto a monitorare l’impatto di tipologie aziendali che rispondono, per caratteristiche strutturali, ordinamenti produttivi, impieghi di input e rese produttive, alle condizioni in cui tali coefficienti sono stati valutati, piuttosto che a singole aziende, le quali potrebbero discostarsi anche in maniera significativa da tali condizioni.
Approccio a livello di prodotto (Metodo Life Cycle Assessment)
Il modello Life Cycle Assessment (Lca) è uno strumento per quantificare l’impatto ambientale dei prodotti (Curran, 1996). Il modello Lca valuta in modo sistematico gli impatti ambientali per tutto il ciclo di vita di un prodotto dall’acquisizione delle materie prime, attraverso la fase di produzione, fino allo smaltimento finale. L’analisi si estende “dalla culla alla tomba”, incorporando nel calcolo anche le emissioni e gli impatti delle materie prime utilizzate e di tutti i processi di post-produzione (distribuzione, vendita, utilizzo, riciclo).
La metodologia Lca, seppure definita da norme standard (Iso 14040 e 14044), non vincola la scelta di un’unità funzionale di analisi delimitata nello spazio e nel tempo, ma solo la definizione del prodotto oggetto di analisi. Ciò consente di procedere al calcolo dell’impatto ambientale di un prodotto scegliendo arbitrariamente, purché siano chiaramente definiti, i confini dell’analisi. Questa caratteristica permette grandissima flessibilità nell’applicazione del metodo ma, allo stesso tempo, rappresenta una forte limitazione alla confrontabilità dei risultati.
Per poter operare una comparazione tra diverse analisi Lca è necessario che il prodotto, i confini, il livello di dettaglio e gli obiettivi siano gli stessi. Per questa ragione la comunità scientifica, con lo scopo di costruire un background comune, si prodiga da tempo nella definizione di database analitici per ottenere una matrice comune degli impatti dei processi e dei prodotti.
Fra l’altro, va considerato che un’analisi Lca può fornire diverse tipologie di risultati. Tra queste, una delle più utili nel quadro della valutazione degli impatti ambientali delle attività agricole è senza dubbio il Gwp (Global Warming Potential), il quale esprime in chilogrammi di CO2 equivalenti l’insieme delle emissioni di Ghg che scaturiscono dagli utilizzi di materia ed energia nelle fasi di produzione, trasformazione, distribuzione, consumo e smaltimento di un prodotto. Questa misura è oggi accettata come un indicatore sintetico di performance ambientale di prodotto e per questa ragione rappresenta un riferimento per l’impostazione delle strategie commerciali delle imprese, in particolare quelle che operano nel settore agroalimentare.
In definitiva, la metodologia Lca ha il suo punto di forza nella possibilità di eseguire valutazioni analitiche sull’impatto ambientale di singoli prodotti, come evidenziano alcuni studi recenti che hanno avuto come oggetto diversi prodotti e in particolare il vino (Bosco et al., 2010). Tuttavia, tale approccio mostra diversi limiti rispetto alla sua eventuale trasposizione a livello aziendale. Tali limiti, che appaiono difficili da superare anche con opportune integrazioni della metodologia, riguardano essenzialmente tre aspetti. Il primo, cui si è già accennato, è la difficoltà di applicazione del metodo Lca ai prodotti agricoli, data la soggettività che caratterizza i confini e il livello di dettaglio dell’analisi; potrebbe così accadere che prodotti realizzati con processi simili in aziende diverse forniscano una misura delle emissioni significativamente differente (Zhang Yu, 1999; Ardente et al., 2004). Un secondo problema, che presenta implicazioni sia di tipo teorico che applicativo, è legato alla possibilità di pervenire alla determinazione dell’impatto ambientale a livello aziendale come sommatoria dell’impatto ambientale dei suoi diversi prodotti. Il terzo limite, che appare il più difficile da superare, riguarda la finalità stessa del metodo Lca, legata alla sua origine di matrice prettamente industriale che, ad esempio nel caso della CO2, guarda al processo di produzione solo in un’ottica di capacità di limitazione delle emissioni e non per le sue eventuali capacità di assorbimento (Iso 1440:2006).
Proprio considerando i limiti a cui si è fatto cenno, sembra abbastanza difficile poter adottare, almeno nel breve periodo, delle metodologie di tipo Lca per indirizzare le politiche agricole di mitigazione delle emissioni a livello aziendale e per valutare in modo corretto la loro efficacia.
Approccio a livello di processo
Una terza categoria di metodi che puntano alla determinazione dell’impatto delle pratiche agricole sui Ghg è quella che basa la valutazione su un calcolo analitico a livello di processo produttivo. Con questo approccio, differentemente da quanto accade per le metodologie basate sui modelli Ipcc e Lca, è possibile giungere alla determinazione del contributo delle attività svolte all’interno delle aziende alle emissioni e agli assorbimenti di CO2 e, attraverso la loro aggregazione, ad un computo dell’impatto in termini di Ghg dei sistemi produttivi agricoli.
Anche in questo caso possono essere adottate differenti metodologie che si distinguono sia per l’oggetto della valutazione che per le fonti di emissione e assorbimento che prendono in considerazione.
Un primo livello di analisi può essere quello del calcolo dell’impronta carbonica (Carbon footprint) associata all’insieme delle attività svolte all’interno dell’azienda. In termini generali questo approccio può essere considerato una sorta di specifica applicazione del Lca, tuttavia, a differenza di questa, definisce a priori i confini dell’analisi, limitandoli ai cancelli dell’azienda, e, inoltre, tiene conto solo delle emissioni associate all’utilizzazione dei mezzi tecnici senza incorporare nel calcolo quelle attribuibili alla loro fase di produzione. Secondo questo procedimento, il risultato, espresso in termini di emissioni di CO2 equivalente, è rappresentato dalla aggregazione fra le emissioni di CO2 generate dalla conduzione dei processi di coltivazione, valutate attraverso l’applicazione di opportuni coefficienti agli effettivi impieghi di input tecnici, e le emissioni di CH4 e N2O, convertite in CO2 equivalente, attribuibili al suolo agricolo e alle eventuali attività di allevamento e di gestione delle relative deiezioni.
Questo metodo, pur rappresentando un significativo passo in avanti rispetto alla possibilità di portare il calcolo dell’impatto dell’agricoltura sui Ghg a livello aziendale, presenta due limiti, il primo di ordine tecnico e il secondo di carattere più concettuale. Il problema tecnico è legato alla difficoltà di condurre il calcolo delle emissioni a livello di processo, in quanto l’impiego di mezzi tecnici è valutato a livello aziendale senza distinguere l’utilizzo nelle singole attività di produzione. Ciò impedisce di avere un riscontro a livello di processo delle emissioni, sia in termini assoluti che rispetto alla resa produttiva. Il secondo limite è quello, già segnalato, della mancata considerazione degli assorbimenti di CO2 da parte della biomassa vegetale che rappresenta l’effetto stesso delle coltivazioni agricole.
Per cercare di superare questi limiti, l’unica via appare quella di pervenire a un “bilancio carbonico di processo” che, da un lato, computi le emissioni prodotte come effetto della specifica tecnica colturale e, dall’altro, tenga conto degli effettivi assorbimenti da parte delle biomasse vegetali cui il processo stesso ha dato origine. Si tratta di una valutazione complessa che sta impegnando numerosi studiosi, sia sul fronte delle emissioni (Lal, 2004) che su quello degli assorbimenti (Sofo et al., 2005), ma che potrebbe portare a risultati di grande utilità in una prospettiva operativa. Ovviamente, trattandosi di un metodo che agisce a livello di processo, in particolare di tipo colturale, non può tenere conto delle altre eventuali fonti di emissione e di assorbimento di Ghg presenti in azienda e, per questa ragione, non può essere direttamente applicato a livello aziendale.
Per sfruttare le potenzialità di entrambe le metodologie appena citate e operarne una sintesi che potrebbe trovare applicazione a livello delle politiche agricole, l’unica strada praticabile sembra quella di fare riferimento ad uno strumento di valutazione che, pur mantenendo una connotazione analitica, consenta di effettuare il bilancio di Ghg a livello aziendale.
L’adozione di una tale metodologia (Ghg farm balance) consentirebbe di integrare la possibilità di valutare emissioni e assorbimenti di CO2 dei singoli processi colturali con le altre voci di emissione/assorbimento degli altri gas serra non riconducibili alla conduzione delle attività colturali, opportunamente convertite in termini di CO2 equivalente, per giungere a un effettivo bilancio aziendale dei Ghg.
Un simile strumento rappresenterebbe un importante riferimento per indirizzare le politiche agroambientali, per individuare gli strumenti di mitigazione più efficaci e per verificarne l’effetto a livello aziendale. Inoltre, il riconoscimento di una metodologia condivisa per la quantificazione del bilancio di emissioni e assorbimenti a livello aziendale potrebbe avere delle applicazioni in termini certificativi, consentendo, ad esempio, alle aziende che raggiungono un livello netto di emissioni negativo di dotarsi di un riconoscimento da valorizzare a livello commerciale.
Conclusioni
L’acceso dibattito sulle tematiche ambientali, l’individuazione di obiettivi e strumenti strategici per la diffusione della green economy e la riforma dell’impianto della Pac in direzione di un efficace contributo alla sostenibilità da parte del settore primario richiedono maggiore attenzione nella descrizione e nella valutazione del ruolo dell’agricoltura rispetto ai cambiamenti climatici.
Gli attuali impegni in ambito di Bcaa (buone condizioni agronomiche ed ambientali) e Cgo (criteri di gestione obbligatori), quali bruciatura delle stoppie, benessere animale e gestione dei nitrati, e le future sfide introdotte dalle proposte in ambito greening vanno sicuramente nella direzione di una riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera in un’ottica coerente con il rispetto degli impegni del protocollo di Kyoto, il quale guarda al settore agricolo più in una logica industriale – quindi di uso di risorse a fini produttivi – che non in chiave biologica. Tale lettura determina la mancata attribuzione al settore delle emissioni non riconducibili all’impiego di fattori “agricoli”, quali gli input di tipo energetico e industriale, e degli assorbimenti di gas serra da parte delle coltivazioni agrarie che, in qualità di “serbatoi” di carbonio (carbon sink), vengono di fatto assimilate al settore del suolo e delle foreste. La valutazione dell’impatto dell’agricoltura sui Ghg condotta secondo questa logica non sembra compatibile con l’adozione di misure che mirino in modo efficace a promuovere la mitigazione dei cambiamenti climatici, che rappresenta, insieme a energie rinnovabili, gestione delle risorse idriche e biodiversità, uno degli obiettivi principali che ispireranno la costruzione delle future politiche di sviluppo rurale. Secondo tale prospettiva, infatti, l’attenzione si sposta dal settore alla singola azienda e ciò cui guardare non è la sola riduzione delle emissioni ma piuttosto l’adozione di tecniche che migliorino la sostenibilità complessiva, in termini di Ghg, del sistema produttivo aziendale. Tale evidenza, fra l’altro, comincia ad affermarsi anche in documenti ufficiali non provenienti da ambiti strettamente legati alla definizione della Pac, come conferma la recente proposta di regolamento e attuazione delle metodologie di contabilità delle emissioni del settore Lulucf nella quale si afferma con chiarezza che le connessioni tra attività agricola e potenzialità mitigative devono essere valutate, contabilizzate ed attribuite ai soggetti che effettivamente ne garantiscono l’esistenza (European Commission, 2012).
Partendo dalla constatazione di questo diverso approccio al ruolo dell’agricoltura rispetto ai cambiamenti climatici, nella nota sono state descritte in modo sintetico diverse metodologie di calcolo delle emissioni di Ghg, cercando di valutare la loro adattabilità rispetto alla valutazione di azioni di mitigazione coerenti con le finalità della Pac.
Come si è avuto modo di precisare, tali metodologie sono attualmente oggetto di approfondimento e di verifica da parte degli studiosi e il percorso per giungere a un approccio condiviso capace di coniugare la correttezza scientifica con l’applicabilità a livello aziendale non è privo di difficoltà. Affinché tale percorso possa portare a un esito positivo, è necessario che si accetti l’evidenza, che non sempre appare tale, che gli obiettivi e le logiche delle istituzioni che guardano alle questioni ambientali non sono gli stessi rispetto alle istituzioni agricole; ciò comporta che, almeno nel prossimo futuro, le politiche agricole facciano riferimento a nuove metodologie di calcolo dell’impatto sui cambiamenti climatici che possano essere applicate alle aziende coniugando la loro finalità economico-produttiva con la capacità di contribuire alla riduzione dell’impatto delle attività umane sull’ambiente.
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- 1. Rispetto all’agricoltura la metodologia adottata individua come fattori di emissioni dell’agricoltura i suoli agricoli, la fermetazione enterica, la gestione delle deiezioni, le risaie e la combustione delle stoppie.
- 2. Questi dati devono essere letti in funzione del fatto che, all’interno del comparto energia, rientrano tutti i consumi di combustibili fossili che non vengono conteggiati in nessun altro settore.
- 3. Per la Spagna il dato di assorbimento di CO2 delle coltivazioni è di poco superiore ai 3 milioni di tonnellate e per nessuno degli altri Paesi supera il milione di tonnellate.