Una Pac per produrre anche beni relazionali

Una Pac per produrre anche beni relazionali
Un commento al documento dei 23 economisti agrari europei

Il dibattito sulle scelte strategiche e di bilancio dell’UE non deve limitarsi agli aspetti finanziari ma riguardare anche i contenuti delle politiche. E’ l’obiettivo di un gruppo di economisti agrari, che ha recentemente diffuso una presa di posizione sul futuro della Pac (Anania e altri, 2009). Smuovendo le acque in un dibattito tutto interno ai circoli agricoli e segnato da un diffuso atteggiamento conservatore, essi propongono di abbandonare il sistema del Pagamento Unico Aziendale (Pua) e di promuovere beni pubblici prodotti dall’agricoltura. Si avrebbe così una Pac più efficace perché punterebbe ad un obiettivo chiaro e verificabile; ma anche più gradita ai cittadini e ai produttori innovativi perché favorirebbe il connubio tra qualità alimentare e valori ambientali. La proposta è condivisibile a patto che, oltre i beni pubblici, si considerino anche i beni relazionali prodotti dall’agricoltura, in modo da orientare gli interventi comunitari all’incentivazione dell’insieme di pratiche agricole capaci di salvaguardare e valorizzare il capitale sociale e le risorse ambientali dei territori rurali come condizione del loro sviluppo.

Riformulare gli obiettivi della Pac

Nella presa di posizione sono messi in discussione gran parte degli attuali obiettivi della Pac. Si afferma, infatti, che la sicurezza alimentare dell’UE non sarebbe oggi in discussione perché ci troviamo in un’area del mondo che ha il potere d’acquisto necessario ad approvvigionarsi sui mercati mondiali, anche quando i prezzi mondiali sono alti. E il modo migliore per aiutare le famiglie povere, quando sono colpite durante periodi di prezzi alti, è il ricorso alle politiche di welfare e non alle sovvenzioni all’agricoltura.
Questa tesi appare del tutto condivisibile. Del resto, è dagli anni Settanta che i cittadini europei sono mediamente in grado di approvvigionarsi sui mercati mondiali, anche nel caso di prezzi crescenti. Ed è proprio questa condizione che ha permesso all’Europa di ridurre progressivamente la protezione dei mercati e il sostegno dei prezzi per concorrere ad attenuare le distorsioni dei mercati mondiali. Da questo punto di vista la situazione non si è modificata nell’ultimo periodo e, dunque, non si giustifica il mantenimento ulteriore di aiuti distribuiti a pioggia agli agricoltori al fine di garantire agli europei un livello elevato di autoapprovvigionamento alimentare. Sono, invece, aumentati e sempre più aumenteranno gli shock di prezzo; e l’Unione europea non potrà, dunque, ignorare i problemi reali che una prolungata situazione di prezzi bassi determina. Occorrerebbe non solo promuovere nuovi strumenti di gestione del rischio, ma prevedere anche reti di sicurezza contro la contrazione dei redditi degli agricoltori, per fronteggiare cadute dei prezzi mondiali di natura eccezionale. Ritenere, tuttavia, che questa esigenza si possa soddisfare conservando il Pua è come voler curare il mal di denti, che si verifica saltuariamente, con dosi quotidiane di analgesico da assumere a vita con effetti collaterali perniciosi per sé e dispendiosi per la collettività. Si tratta, dunque, di individuare strumenti efficaci per fronteggiare le cadute dei prezzi, che si verificano in via eccezionale; ma occorre farlo nel quadro di moderni sistemi assicurativi. E’ stato osservato che la condizione di sicurezza alimentare manca nei Paesi poveri e, in futuro, potrebbe essere a rischio anche in Europa (Pesonen, 2009). Questa considerazione è vera ma non giustifica l’immediata necessità di aumentare le produzioni agricole in Europa. Per contribuire a debellare la fame nei paesi poveri, andrebbero assicurati aiuti allo sviluppo, da parte dei paesi avanzati, nell’ambito di progetti che salvaguardino le risorse naturali. E per prevenire una eventuale condizione di insicurezza alimentare in Europa di portata tale da costringerci ad aumentare le produzioni, appare necessaria una politica di governo del territorio europeo, con regole efficaci volte a preservare le aree agricole da usi dilapidatori e con incentivi a comportamenti responsabili, finalizzati a conservarne la fertilità e a renderle fruibili per scopi sociali.
Per quanto riguarda l’obiettivo dell’efficienza economica e della competitività del settore agricolo, nella presa di posizione si sostiene che esso andrebbe conseguito non già attraverso l’intervento pubblico ma mediante mercati ben funzionanti. In merito all’obiettivo di una più equa distribuzione dei redditi agricoli, il gruppo degli economisti agrari valuta che lo strumento più idoneo per affrontare il problema delle disparità ancora esistenti in diverse regioni rurali non sarebbero i sussidi all’agricoltura ma forme dirette di intervento sociale. Anche questa tesi è condivisibile. In effetti, se gli aiuti restano legati alla produzione agricola o al possesso della terra, com’è attualmente, agricoltori non poveri raccoglieranno gran parte dei sussidi, mentre i poveri saranno penalizzati. Gli aiuti pubblici derivanti da altre politiche dovrebbero, invece, essere mirati verso le famiglie con un reddito basso, indipendentemente dal settore in cui i loro membri lavorano.
I due obiettivi dell’efficienza economica e della competitività delle imprese, per un verso, e della redistribuzione del reddito tra gli agricoltori e i territori, per l’altro, non si dovrebbero perseguire più in una logica settoriale ma nell’ambito di politiche di sviluppo e coesione, a partire da organiche politiche di ricerca e sviluppo rivolte ai sistemi agroindustriali e agroalimentari, che affrontino orizzontalmente tali problemi nei diversi territori. Del resto, l’esperienza della Pac come politica di welfare in senso redistributivo è stata del tutto deludente in questi decenni. Le sperequazioni tra le aziende di diverse dimensioni e tra i territori di montagna e le altre aree rurali sono cresciute e non diminuite. Pertanto, lo sviluppo rurale non dovrebbe più essere una politica per l’agricoltura ma andrebbe integrato effettivamente nelle altre politiche territoriali unificando i relativi fondi, che interverrebbero così per accrescere la competitività di tutte le strutture produttive comprese quelle agricole, e rafforzando la parte relativa agli interventi sociali e socio-sanitari - non solo le azioni per il reimpiego (welfare to work), che attualmente assorbono quasi totalmente le risorse del Fondo Sociale Europeo (FSE), ma anche la rete dei servizi territoriali (welfare community) - da dirottare verso tutti i territori, compresi quelli rurali. E’ nell’insieme di queste politiche che si dovrebbero garantire priorità e maggiori risorse per i giovani e per le aree più svantaggiate dell’Unione.
D’altronde, l’esperienza di questi anni in Italia dimostra che le politiche di sviluppo e coesione richiedono apparati burocratico-amministrativi disponibili ad assolvere ruoli proattivi, e non solo di controllo, e che l’aver tenuto insieme le competenze nelle materie agricoltura e sviluppo rurale non solo non ha affatto garantito un approccio più proattivo da parte delle strutture pubbliche, ma ha contribuito anche alla separatezza degli specialismi e dei settori (Franco, 2009). Denuncia a chiare lettere tale situazione anche l’OCSE quando rileva che l’“approccio dell’Italia allo sviluppo rurale sembra trascurare i pressanti problemi sociali nelle aree rurali in favore di un approccio fortemente settoriale verso l’agricoltura” (OCSE, 2009). Tali carenze non riguardano ovviamente solo il nostro Paese ma un po’ ovunque in Europa si registrano limiti profondi nelle politiche rurali in riferimento alle relazioni tra i diversi livelli istituzionali, al coordinamento verticale e orizzontale e all’integrazione degli strumenti d’intervento per il perseguimento di obiettivi strategici comuni alle diverse politiche. Ciò è vero non solo nei Paesi con modelli istituzionali decentrati come l’Italia e la Germania, ma anche in quelli con sistemi fortemente centralizzati, che hanno minori livelli e gradi di governance. Queste carenze, in sostanza, continuano a produrre politiche con un’impostazione fortemente settoriale e caratterizzata dalla separatezza di strumenti, risorse e istituzioni (Mantino, 2008).

Promuovere la produzione di beni pubblici e di beni relazionali

Nel documento si sostiene, in definitiva, che per una Pac più efficace si potrebbe prendere in considerazione solo l’obiettivo di accrescere la capacità degli agricoltori di produrre beni pubblici. Questa impostazione, in effetti, appare la più praticabile per ottenere una riforma rispondente alle necessità dell’Europa a condizione, come già si è detto sopra, che si prenda in considerazione non solo l’approccio ai beni pubblici ma anche l’approccio ai beni relazionali. In tal modo si potranno promuovere tutti quei beni e servizi che si legano non solo alle nuove sfide ambientali ma anche al bisogno di preservare le risorse umane, il capitale sociale e il senso di comunità dell’agricoltura come valori indispensabili per umanizzare la società di oggi.
L’economia contemporanea distingue i beni essenzialmente in pubblici e privati. I beni privati sono beni perfettamente escludibili (nei confronti di altri consumatori) e rivali nel consumo (se qualcuno consuma quello stesso bene, la mia utilità diminuisce). I beni pubblici, invece, sono beni che non possiedono queste due caratteristiche: non sono tendenzialmente né escludibili né, soprattutto, rivali nel consumo. Per comprendere invece la peculiarità dei beni relazionali bisogna uscire dal binomio “bene pubblico-bene privato” e assumere un paradigma diverso (Bruni, 2006). A differenza dei normali beni di mercato, siano essi privati o pubblici, dove la produzione è tecnicamente e logicamente distinta dal consumo, i beni relazionali (come molti servizi alla persona) si producono e si consumano simultaneamente; il bene viene co-prodotto e co-consumato al tempo stesso dai soggetti coinvolti. Si tratta, inoltre, di beni che non possono essere né prodotti né consumati da un solo individuo, perché dipendono dalle modalità delle interazioni con altre persone e possono essere goduti solo se condivisi nella reciprocità. Sono, infine, beni diversi dalle merci perché il loro valore consiste nel soddisfare un bisogno attraverso il dono (Nussbaum, 2004).
Nelle aree rurali la produzione di beni relazionali è indispensabile per favorire lo sviluppo locale perché tali beni caratterizzano le specificità e i valori della ruralità ed evitano il loro appiattimento sui valori e sugli stili di vita diffusi nelle aree urbane. Del resto, gli abitanti delle città cercano nelle aree rurali ciò che sentono di aver perduto e che invece ritengono essere ancora presente nel modo di vivere delle campagne.
L’agricoltura può proporsi di produrre beni relazionali se abbandona l’approccio tradizionale posto a base del paradigma della modernizzazione, che fondava i rapporti esterni alle aziende esclusivamente sui legami con il mondo agroindustriale attraverso la produzione di materie prime, e amplia la propria ottica verso una riconnessione delle attività produttive alla località, creando nuovi reticoli intorno alla fornitura di prodotti di qualità, servizi agrituristici, servizi alle persone, attività culturali, iniziative di accoglienza e integrazione di immigrati e favorendo un miglioramento della qualità della vita nelle aree rurali (Ventura e altri, 2008). Le reti orientate all’ambito locale, mediante la produzione di beni quali la reciprocità, il mutuo aiuto e il dono, non sono alternative ai mercati internazionali dei prodotti agricoli, ma permettono di rafforzare e allargare quel capitale sociale che può dare autenticità ai valori che sottendono la ruralità, scongiurando il rischio di una loro banalizzazione e di una sostanziale perdita di attrattività dei territori rurali (Caggiano e altri, 2009). Si può sostenere, in definitiva, che l’agricoltura multifunzionale, producendo in modo congiunto beni alimentari, beni pubblici e beni relazionali, contribuisce in maniera determinante allo sviluppo economico e sociale dei territori rurali perché consente di accrescere la capacità dei territori stessi di organizzarsi con strumenti associativi idonei a conquistare nuovi mercati internazionali, sia per quanto riguarda i prodotti tipici che i servizi legati alle attività agricole.
La presa di posizione degli economisti agrari include tra i beni pubblici richiesti dai cittadini e forniti dagli agricoltori la lotta contro il cambiamento climatico, la conservazione della biodiversità, la protezione della fertilità dei suoli, la gestione delle risorse idriche, la conservazione del paesaggio, la salubrità degli alimenti e la salute degli animali e delle piante. Tali beni sono essenziali ma insufficienti a favorire lo sviluppo economico e sociale e una migliore qualità della vita. Per conseguire tali obiettivi vanno considerati fondamentali anche i beni relazionali che derivano dagli output multipli dei processi agro-zootecnici legati ad una diversa visione dei percorsi di creazione di benessere collettivo come quelli riscontrabili nell’agricoltura sociale (Di Iacovo, 2008). In casi siffatti, si è in presenza di originali modelli produttivi, in cui la produzione di un bene alimentare e la produzione di un servizio sociale sono congiunte – l’una cosa non si realizza senza l’altra – né più né meno di quanto avviene quando una pratica produttiva agricola produce conservazione di biodiversità. Si è nell’ambito di costruzioni sociali in cui si sperimenta l’idea di legare la produzione di ricchezza economica e la produzione di ricchezza sociale, rompendo gli steccati tra specialismi e settori e rimescolando la separazione che caratterizza gli Stati moderni tra produzione privata della ricchezza economica e redistribuzione pubblica.
Vi è bisogno di approfondire le conoscenze intorno al capitale sociale alimentato dalle forme nuove di agricoltura multifunzionale che si vanno espandendo e agli effetti che esso produce sullo sviluppo. Detto capitale sociale è denominato anche “capitale civile locale” perché le organizzazioni che lo producono generano relazioni che evidenziano quegli elementi di gratuità e solidarietà, reciprocità non strumentale, fiducia generalizzata e apertura al diverso, insieme a responsabilità individuale e capacità decisionale, che appartengono alla naturale predisposizione dell’uomo e della convivenza sociale (Di Ciaccio, 2004). Le cooperative sociali che includono persone svantaggiate in attività agricole e le imprese agricole che adottano percorsi di responsabilità sociale producono relazioni interpersonali con siffatte caratteristiche qualitative (Senni, 2007). Tali relazioni sono parte costitutiva del benessere e dello sviluppo, di ogni crescita economica e sociale; e come tali andrebbero incentivate. Si tratta, dunque, di concepire i beni promossi da un’attività produttiva in un’ottica molto più ampia di quella in cui solitamente essi vengono tematizzati nel dibattito di politica economica, considerando sia i beni pubblici e privati che i beni relazionali. Solo in un’accezione siffatta del concetto di bene si potrà prendere in considerazione il complesso dei valori sociali e ambientali prodotti dall’agricoltura.

Una politica agricola per costruire un’Europa delle persone e delle comunità

La Pac del futuro si potrebbe allora impiantare davvero - come asserito nella dichiarazione del gruppo di economisti agrari - su di un unico pilastro, eliminando, da una parte, il Pua ( che attualmente rappresenta la gran parte del primo pilastro) e trasferendo, dall’altra, gli interventi di sviluppo rurale (quegli aspetti dell’attuale secondo pilastro non riconducibili alla promozione di beni pubblici e di beni relazionali prodotti mediante i processi agro-zootecnici) nelle altre politiche di sviluppo e coesione. Si tratta, in sostanza, di delineare meccanismi snelli ed efficaci volti ad incentivare attività agricole che producono beni e servizi nell’ambito sia della qualità alimentare che degli aspetti sociali e ambientali, salvaguardando il pluralismo dei soggetti agricoli e delle tipologie produttive, e di prevedere interventi che promuovano la gestione del rischio e proteggano gli agricoltori quando si verifichino cadute dei prezzi.
Una riforma siffatta assicurerebbe alla Pac un consenso molto ampio dei cittadini europei e potrebbe più facilmente contribuire a sventare il rischio del ricorso ad una sua parziale rinazionalizzazione per spostare risorse finanziarie su altre politiche. Una prospettiva quest’ultima che potrebbe produrre distorsioni non lievi qualora si creasse una sperequazione nell’intensità di intervento tra Paese e Paese. Anche prevedendo intense forme di controllo e regolamentazione delle politiche nazionali, il rischio di penalizzare gruppi di produttori rispetto ad altri difficilmente potrebbe essere scongiurato (De Castro, 2009).
In presenza di una Pac che individui correttamente e promuova beni e servizi sociali, ambientali e riferiti alla qualità alimentare, richiesti dai cittadini europei e prodotti dall’agricoltura, è del tutto ragionevole che l’incentivazione della loro produzione sia assicurata totalmente dal bilancio dell’Unione. Sarebbe paradossale che le istituzioni europee rinunciassero ad una politica che promuova beni per tutti e soprattutto contribuisca alla costruzione di un’Europa che abbia al centro le persone e le comunità.

Riferimenti bibliografici

  • Anania G. e altri (2009), Una Politica Agricola Comune per la produzione di beni pubblici europei, Agriregionieuropa, n. 19, dicembre 2009 [link]
  • Bruni L. (2006), Reciprocità. Dinamiche di cooperazione, economia e società civile, Bruno Mondadori, Milano
  • Caggiano M., Giarè F., Vignali F. (2009), Vite contadine. Storie del mondo agricolo e rurale, Inea, Roma
  • De Castro P. (2009), Costruire una politica agricola all’altezza delle nuove sfide globali, Agriregionieuropa, n. 19, dicembre 2009 [link]
  • Di Ciaccio S. (2004), Il fattore “relazioni interpersonali”. Fondamento e risorsa per lo sviluppo economico, Città Nuova, Roma
  • Di Iacovo F. (2008), Agricoltura sociale: quando le campagne coltivano valori, Franco Angeli, Milano
  • Franco D. (2009), La progettazione integrata territoriale nella Regione Lazio, Agriregionieuropa, n. 18, settembre 2009 [link]
  • Mantino F. (2008), Lo sviluppo rurale in Europa, Edagricole, Milano.
  • Nussbaum M. C. (2004), La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna
  • OCSE (2009), Rural Policy Reviews Italy, Pubblicazioni OCSE,. Parigi
  • Pesonen P. (2009), Una Politica Agricola Comune per la produzione di beni pubblici europei. La risposta del Copa-Cogeca, Agriregionieuropa, n. 19, dicembre 2009 [link]
  • Senni S. (2007), Competitività dell’impresa agricola e legame con il territorio: il caso dell’agricoltura sociale, Agriregionieuropa, n. 8, marzo 2007 [link]
  • Ventura F. e altri (2008), La vita fuori della città, AMP Edizioni, Perugia
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