Introduzione1
I mezzi di informazione hanno definito ciò che è accaduto in un piccolo centro agricolo della Calabria il 7 gennaio 2010 come “La rivolta di Rosarno”. Ma cosa è realmente successo a Rosarno? E, soprattutto, perché? L’obiettivo di questo lavoro è proprio quello di cercare di rispondere a questi quesiti.
Riassumendo schematicamente i fatti, un migliaio circa di cittadini extracomunitari, soprattutto di origine africana, si sono ribellati ad un’ennesima aggressione subita e si sono scontrati con la popolazione locale. Le forze dell’ordine li hanno frettolosamente allontanati da quel luogo con una modalità che a molti è sembrata una vera e propria deportazione, lasciando alla popolazione di Rosarno il marchio di “razzista”, agli extracomunitari la paura e lo sgomento mentre ai pochi, che da anni denunciavano le drammatiche condizioni in cui vivevano gli immigrati africani impiegati nelle aziende agricole della zona, l’amarezza della sconfitta e, a tutti gli italiani, la sorpresa di scoprire quanti immigrati clandestini potessero essere concentrati in un paese così piccolo. Infatti, il vero quesito da porsi è: che ci facevano tutti quegli africani a Rosarno?
Per rispondere a questo quesito bisogna allargare l’orizzonte e inserire Rosarno in un contesto più grande che è quello del mercato del lavoro nel settore agricolo e del ruolo sempre più complementare se non sostitutivo che in esso rivestono i cittadini immigrati.
Dalla fine degli anni ottanta l’INEA svolge un’indagine annuale sull’impiego degli immigrati in agricoltura. Lo studio, oltre all’analisi dei dati ufficiali che registrano le effettive presenze di cittadini stranieri occupati nel settore primario, ha anche l’obiettivo di stimare l’entità complessiva del fenomeno rilevando anche la presenza degli immigrati impiegati in modo irregolare. Nel corso degli ultimi vent’anni, attraverso la succitata indagine si è riscontrato un aumento costante dei cittadini extracomunitari utilizzati nell’agricoltura nazionale con un tasso medio di variazione lineare pari al 9,3% (Tabella 1).
Tabella 1 - Impiego degli immigrati extracomunitari nell'agricoltura italiana - 1989-2007
Fonte: elaborazioni su dati INEA, ISTAT.
Questo incremento è risultato uniforme per tutte le regioni d’Italia e anche la Calabria, nonostante sia caratterizzata da un settore agricolo che possiamo definire sostanzialmente povero e poco sviluppato (basti pensare che la dimensione media di una azienda agricola calabrese è di soli 2,8 ha) o forse proprio per queste sue caratteristiche è stata investita da questo fenomeno del ricorso al lavoro immigrato tanto che nel periodo considerato si è passati da valori inferiori al migliaio di unità del 1989 a più di 9.000 unità registrate nell’ultima rilevazione del 2007, il 95% delle quali impiegate in maniera irregolare (INEA 2009).
L’impiego degli immigrati nelle aziende agricole calabresi è da spiegarsi anche negli orientamenti colturali che caratterizzano il settore primario della regione (ortofrutta e colture arboree). Nel periodo della raccolta (olive ma soprattutto agrumi), infatti, i fabbisogni di lavoro sono concentrati da un punto di vista temporale e il reclutamento della manodopera avviene proprio tra le fila dei tanti immigrati irregolari e a basso costo che si riversano in Calabria nel periodo della raccolta delle arance.
Gli Africani a Rosarno, quindi erano appunto lavoratori irregolari stagionali che, come era già successo negli anni precedenti, erano nella Piana di Gioia Tauro per la raccolta ma quest’anno qualcosa è andato diversamente e la loro presenza da risorsa per il territorio è diventata ingombrante e scomoda. Perché?
Le probabili cause
A partire dagli anni novanta, e fino al 2008, il sostegno comunitario per l’agricoltura meridionale veniva concesso in proporzione alla quantità di agrumi prodotta (il più delle volte “gonfiata” all’inverosimile); questo in pratica assicurava ai proprietari dei delle aziende agrumicole una sorta di rendita fondiaria annua alla quale si associava la protezione previdenziale dell’Inps, per cui ai braccianti locali bastava lavorare cinquantuno giorni (solo 5 in caso di calamità naturali) per avere diritto a un assegno di disoccupazione per tutto l’anno. Da una parte, quindi, c’era interesse a raccogliere le arance per avere il sostegno comunitario e, dall’altra, i locali potevano comunque svolgere altre attività con reddito assicurato dall’Inps dal momento che negli agrumeti bastava la manodopera dei migranti stranieri totalmente flessibile e a basso costo.
Questo assetto economico ha retto bene per quasi vent’anni fino a quando è stata scoperta qualche truffa particolarmente evidente sulle quantità di prodotto. L’INPS ha rivisto le liste dei braccianti e l’ha dimezzata. Infine, nel 2008 l’UE, allarmata dalla scoperta delle truffe, ha deciso di cambiare il criterio di erogazione del sostegno facendo riferimento agli ettari e non più alla produzione.
Contemporaneamente, la crisi economica globale ha spinto al Sud un numero ancora più consistente di migranti espulsi dal mercato del lavoro delle industrie del Nord, proprio nel momento in cui nella Piana di Gioia Tauro il fabbisogno di manodopera negli agrumeti era drasticamente diminuito. È probabilmente da questo insieme di fattori che è scaturita la cosiddetta “rivolta di Rosarno”: riduzione drastica dei contributi europei, contrazione della domanda di prodotto e aumento della concentrazione di migranti in cerca di lavoro.
In un articolo a firma di Elisabetta della Corte e Franco Piperno apparso sul “Quotidiano della Calabria” il 24 gennaio scorso si legge: “… già a dicembre scorso, nel giro di poche settimane, l’aria era cambiata. I rosarnesi egemonizzati dai proprietari degli agrumeti hanno cominciato ad avvertire la presenza dei migranti come eccedente e inutile; prima erano braccianti che lavoravano per loro, poi divenuti vagabondi stranieri da rinviare a casa loro, in fretta (…) nella totale incapacità di mediazione politica da parte della regione o della prefettura di Reggio, è venuto così montando un disagio, anzi una sorta di odio di classe...”.
Considerare la triste vicenda di Rosarno come un episodio di razzismo da parte della popolazione locale o di xenofobia o di provocazione ‘ndraghetista è però probabilmente riduttivo. Basti pensare che poco più di un anno prima (il 12 dicembre 2008) quella stessa popolazione era stata solidale con gli immigrati che si erano già ribellati ad un altro episodio di violenza gratuita nei loro confronti proteggendoli e aiutandoli a denunciare e assicurare alla giustizia gli autori (scoperti affiliati alla ‘ndrangheta) di quell’aggressione. “In seguito al ferimento di due lavoratori della Costa d’Avorio, gli africani di Rosarno si ribellano. È il 12 dicembre 2008. Il loro gesto segna il confine tra la rassegnazione e la protesta, tra il consueto e l’inaccettabile. (…) Non sono cittadini italiani a trovare il coraggio della rivolta civile, ma clandestini senza diritti e documenti; immigrati sfruttati, sottopagati e umiliati. (…) l’esempio degli africani che rifiutano il fatalismo fino al momento della partenza, indica a tutti gli italiani una possibile via di salvezza” (Mangano, 2008).
Quest’episodio non aveva avuto risalto sui media e la situazione era rimasta quella già denunciata nel rapporto di Medici senza frontiere (2008). Nella vicenda di Rosarno si è assistito ad un particolare insolito: malgrado il tradizionale presenzialismo della rappresentanza politica meridionale nessuno dei leader politici calabresi si è visto nelle piazze del paese in quei giorni forse perché i migranti non votano o forse perché non avrebbero potuto far finta di essere all’oscuro di quanto da anni si perpetrava negli agrumeti della Piana e questo sarebbe stata un’implicita ammissione di responsabilità.
Quando la tolleranza non basta
Tra gli sconfitti di questa triste storia c’è chi parte ma c’è anche chi rimane.
Non tutti i protagonisti di questa vicenda sono facilmente individuabili; da una parte ci sono gli immigrati, dall’altra la popolazione di Rosarno, ma mancano all’appello gli invisibili, quelli che hanno maggiori responsabilità in tutto questo: coloro che sfruttano la manodopera straniera regolare, irregolare e clandestina, tenendola in pugno proprio a causa della loro condizione, in virtù, e con la giustificazione, di rispondere all’esigenza spasmodica di assecondare i meccanismi perversi delle attuali economie di mercato. Nel frattempo le arance marciscono sugli alberi.
Secondo quanto emerso dal Rapporto INEA: Gli immigrati nell’agricoltura italiana (2009), l’impiego della manodopera straniera in agricoltura è necessario, ed è stato dimostrato come esso sia complementare e non concorrenziale all’assunzione di manodopera italiana locale; cosicché, proprio per questo motivo, tale impiego dovrebbe essere considerato come una risorsa e non come un problema.
Una stagione all’inferno è il titolo del Rapporto di Medici senza frontiere (2008) che descrive con la massima chiarezza e crudezza, le condizioni disumane in cui vivono gli immigrati nel nostro paese, soprattutto se clandestini o irregolari. Ma le stagioni sono quattro e con esse i braccianti stranieri seguono i tempi e i ritmi della raccolta: a settembre in Sicilia, nei pressi di Marsala, per lavorare nelle vigne; a novembre in Puglia per la raccolta delle olive; a primavera negli orti della Campania. Ma sempre e ovunque in condizioni di massima precarietà e sfruttamento, fino a raggiungere forme di schiavitù vera e propria.
L’indagine INEA fornisce da sempre informazioni che, in accordo con quanto rilevato da Medici senza frontiere, mostrano il quadro devastante in cui vivono gli immigrati clandestini e irregolari che lavorano nel settore agricolo, soprattutto al Sud, dove sono le organizzazioni malavitose che gestiscono i reclutamenti della manodopera straniera, lasciando che gli immigrati, in prevalenza africani (Sudan, Ghana, Maghreb), trovino alloggio in edifici fatiscenti, pericolanti, senza acqua e senza servizi igienici. Promiscuità dovuta al sovrapopolamento degli spazi, assenza di igiene con conseguenti problemi sanitari generano anche conflitti sociali fra gli stessi immigrati, fra gli immigrati di diverse etnie e fra gli immigrati e la popolazione locale.
Due indagini effettuate da Medici senza frontiere, nel 2004 e nel 2007, hanno potuto constatare come in tre anni le vergognose condizioni di vita e le precarie condizioni di salute degli immigrati al Sud non fossero cambiate per nulla. Sfruttati, mal pagati, essi vengono spesso esposti ad atti di violenza e di intolleranza. Un’indagine svolta in varie località del Sud, fra cui la piana di Gioia Tauro, ha dimostrato come su 643 immigrati intervistati quasi nessuno avesse un contratto di lavoro, mentre il 72% non aveva il permesso di soggiorno. Ma anche chi fra questi aveva un regolare permesso di soggiorno, lavorava in nero. Anche le misure di prevenzione e di sicurezza sul lavoro vengono puntualmente disattese (Marras, 2009; Medici senza frontiere, 2005, 2008).
La marginalità in cui vivono gli immigrati stagionali toglie loro ogni possibilità per una legittima integrazione con la popolazione locale. Del resto l’emarginazione e l’isolamento non possono che generare situazioni esponenzialmente peggiori; la clandestinità e l’irregolarità inoltre impongono una dipendenza per tutto, per gli alloggi, per gli spostamenti. Un clandestino non avendo i documenti in regola non può comprarsi una macchina e tanto meno affittare una casa e lo sfruttamento cui sono soggetti, che li obbliga a lavorare anche 10 ore al giorno, contribuisce a limitare ulteriormente la loro possibilità di socializzare. E’ così che si vengono a creare delle pericolosissime sacche esplosive, delle situazioni border line pronte ad esplodere come è successo a Rosarno e chissà quante altre “Rosarno” ci sono nel territorio nazionale, dove il nuovo schiavismo che imperversa nelle nostre campagne del Sud, e non solo, genera inevitabili razzismi, spesso accompagnati da atteggiamenti xenofobi.
Allora qual è l’atteggiamento maggiormente razzista: un falso buonismo verso gli immigrati, o un sano e discutibile dubbio su pregi, vantaggi e difficoltà di una società multiculturale? Difficile a dirsi quando il confine fra le due alternative è molto labile.
La normativa regionale
La discrasia esistente fra l’aumento del numero dei residenti stranieri in Calabria, che dai 18.000 stranieri rilevati dall’ISTAT nel 2001 è arrivato agli attuali 50.871 al 1° gennaio 2008 (+282%), e il panorama legislativo regionale è avvilente e si comprende come, a volte, l’indifferenza accumulata negli anni possa generare situazioni difficili da risolvere come quella di Rosarno.
Fatta salva la L.R. 17/90 “Interventi regionali nel settore dell’emigrazione e dell’immigrazione”, nel 2003, in base all’Accordo di Programma con il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, la Regione Calabria ha emanato due bandi aventi i criteri e le modalità di assegnazione delle risorse per l’inserimento lavorativo; l’accoglienza e la formazione e mediazione degli immigrati. Il 30 maggio 2008 la Regione Calabria è in prima fila per la realizzazione del progetto “City to City” al fine di creare un Centro europeo di monitoraggio delle politiche locali sull’immigrazione per il “riconoscimento delle competenze professionali e dei titoli degli immigrati e l’elaborazione dei percorsi che favoriscono l’inclusione e l’accesso ai servizi pubblici”.
Infine, è stato firmato a dicembre il Protocollo di Intesa n. 1026/08 fra la Regione Calabria – Dipartimento Sanità – e Medici senza frontiere per la “realizzazione di un intervento di emergenza umanitaria volto a migliorare le condizioni igienico-sanitarie degli insediamenti di immigrati impiegati nell’agricoltura stagionale nella provincia di Reggio Calabria (Paciola, 2009). Un atto quasi dovuto in seguito alle denunce di Medici senza frontiere emerse dal Rapporto “Una stagione all’inferno” in cui la tragedia era già stata annunciata, descrivendo le condizioni in cui si trovavano a vivere, o meglio a sopravvivere, gli immigrati stagionali impiegati per la raccolta delle arance nei Comuni di Gioia Tauro: “…tutti sanno e tutti tacciono”. Così recita il secondo Rapporto di Medici senza frontiere (2008) “… si registra un atteggiamento ambiguo e ipocrita del sistema istituzionale italiano nei confronti della immigrazione irregolare. Da una parte si registrano misure di contenimento del fenomeno migratorio con politiche dal pugno di ferro tese a combattere la clandestinità a difesa della legalità. Dall’altra le stesse istituzioni nazionali e locali si tappano occhi, orecchie e bocche dinanzi al massiccio sfruttamento di stranieri nelle produzioni agricole del Meridione perché necessari al sostentamento delle economie locali. L’utilizzo di forza lavoro a basso costo, il reclutamento in nero, la negazione di condizioni di vita decenti, il mancato accesso alle cure mediche sono aspetti ben noti e tollerati. I sindaci, le forze di Stato, gli ispettorati del lavoro, le associazioni di categoria e di tutela, i ministeri: tutti sanno e tutti tacciono”.
A queste rivelazioni ha fatto seguito la costituzione dell’Osservatorio Migranti nel Comune di Rosarno. Strano a dirsi, ma la costituzione di questo Osservatorio è la dimostrazione che quell’atteggiamento ambiguo e ipocrita del sistema istituzionale italiano descritto da Medici senza frontiere, accompagnato dalla cecità delle amministrazioni locali, purtroppo corrisponde alla verità e che, al di là dei buoni propositi ufficiali e di facciata, non si vuole cambiare nulla, eccetto che sulla carta.
Conclusioni
Alla luce di quanto esposto possiamo affermare che per la maggior parte dei lavoratori stranieri impiegati in agricoltura è difficile pensare ad una integrazione nel tessuto sociale ed economico della realtà locale in cui vivono, principalmente a causa del carattere stagionale che contraddistingue il settore agricolo e che rappresenta il vincolo più grande per un reale inserimento. Per di più, le loro pessime condizioni di vita, igieniche e sanitarie fanno sì che il loro isolamento da una normale vita sociale sia sempre più radicato.
Tuttavia, l’aumento degli immigrati impiegati in agricoltura in Italia, ci fa pensare quanto sia scarsa l’attrattiva che il settore agricolo è andato esercitando negli anni sui potenziali lavoratori autoctoni. Secondo le stime INEA (2009), infatti, dal 1989 al 2007 l’impiego degli immigrati in agricoltura è passato dalle 23.000 unità alle 172.000, compresi i neo-comunitari (Tabella 1), con punte di irregolarità che, come già detto, solo in Calabria, arrivano al 95%.
Fino ad oggi la normativa nazionale, di pari passo con l’evoluzione e l’aumento dei flussi migratori e con l’intensificarsi delle tensioni sociali venutesi a creare nei territori ospitanti, ha messo in atto politiche di regolarizzazione degli ingressi per gli stranieri, di contrasto all’immigrazione clandestina, ma molto resta ancora da fare per favorire l’inserimento e l’integrazione degli immigrati nel tessuto sociale. Certo, la stagionalità non favorisce l’integrazione dell’immigrato, tuttavia è bene ricordare che vi sono delle aree nel nostro paese in cui, molto lentamente e quasi allo stato embrionale, si sta assistendo ad un processo di stabilizzazione e consolidamento di alcune piccole comunità omogenee dal punto di vista etnico. Ma tutto dipende dagli imprenditori che, quando sono non soltanto onesti, ma anche lungimiranti, impiegano stranieri della stessa etnia nella propria azienda per ridurre al minimo le conflittualità, favorendo una discreta integrazione e consentendo una buona specializzazione agli stranieri impiegati. Ad esempio, possiamo trovare gli indiani sikh nel distretto lombardo del latte, o i Nord-africani impiegati nelle serre del siracusano. Le piccole dimensioni di queste comunità consentono agli stranieri che vi lavorano e vi abitano di normalizzare il proprio vissuto favorendo, ad esempio, i ricongiungimenti familiari, e inserendosi in una rete di relazioni stabili (Marras, 2009).
Sviluppare delle politiche di integrazione efficaci è necessario e significa valorizzare una risorsa strategica per il nostro settore agricolo, considerando, congiuntamente con quelli che sono i problemi di ordine sociale, anche l’impatto che il fenomeno migratorio può avere non soltanto sulle dinamiche economiche ma anche, e soprattutto, sui processi di sviluppo delle aree rurali. Non dimentichiamo che in queste aree, attraverso una buona integrazione di comunità straniere, sarebbe possibile dare luogo ad un rinnovamento del capitale umano in agricoltura (Ghelfi, 2009; Tarangioli, 2009).
Occorre che i decisori politici, oltre ad una regolamentazione dei flussi, prestino una maggiore attenzione al monitoraggio del lavoro irregolare in agricoltura, così come al fenomeno del caporalato che, in alcune aree del Sud è molto spiccato e determinante.
Si deve poter trovare una via di uscita, investendo su nuove forme di convivenza che vadano oltre gli attuali modelli di immigrazione proposti dalla propaganda politica. Dobbiamo tenere presente che tutto cambia e che il nostro futuro, e quello degli immigrati, può e deve essere diverso da quando si leggeva da una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano quanto segue: “Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano anche perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.
Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro.
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare fra coloro che entrano nel nostro Paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali…”.
Parlavano di noi. Degli italiani che emigravano negli Stati Uniti. Era il 1912.
Neanche un secolo fa.
Riferimenti bibliografici
- Della Corte E. Piperino F. Rosarno l’alibi del razzismo e della Ndrangheta, Opinioni e commenti in Il Quotidiano, 24 gennaio 2010
- Ghelfi R. (2009): Conclusioni in M. Cicerchia, P. Pallara ( a cura di) Gli immigrati nell’agricoltura italiana, INEA, Roma
- INEA: Annuario dell’Agricoltura Italiana, Napoli ESI (annate varie).
- INEA, (2009): Gli immigrati nell’agricoltura italiana, INEA, Roma.
- INEA: L’impiego degli immigrati in agricoltura in Italia, indagini annuali – regione Calabria (annate varie).
- Mangano A. (2009), Gli Africani salveranno Rosarno. E probabilmente anche l’Italia, Terrelibere.org editore
- Marras F. (2009): Aspetti sociali dell’immigrazione in agricoltura, in M. Cicerchia, P. Pallara (a cura di): Gli immigrati nell’agricoltura italiana, INEA, Roma
- Medici senza frontiera: I frutti dell’ipocrisia. Storie di chi l’agricoltura la fa. Di nascosto, 2005.
- Medici senza frontiera: (2008): Una stagione all’inferno. Rapporto sulle condizioni degli immigrati impiegati in agricoltura nelle regioni del Sud Italia www.medicisenzafrontiere.it
- Olper A. (2010): Il protezionismo incoraggia l’immigrazione, L’Informatore agrario – Editoriale – n. 3.
- Paciola G. (2009): Alcune peculiarità regionali del lavoro extracomunitario in agricoltura. Il caso della Calabria, in M. Cicerchia, P. Pallara (a cura di): Gli immigrati nell’agricoltura italiana, INEA, Roma
- Pugliese E. (2009): Il fenomeno dell’immigrazione all’alba del terzo millennio: il contesto internazionale e il caso italiano, in Atti del convegno realizzato nell’ambito del progetto Ellis Island. Italiani d’America: Migrazioni di ieri e di oggi, 19 gennaio 2009, Casa della Memoria e della Storia di Roma, a cura del Dipartimento Cultura del Comune di Roma e dell’Irsifar – Istituto romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza.
- Tarangioli S. (2009): Le dinamiche demografiche delle aree rurali, in M. Cicerchia, P. Pallara (a cura di): Gli immigrati nell’agricoltura italiana, INEA, Roma.
- 1. Manuela Cicerchia ha curato la stesura dei paragrafi 3, 4 e 5, Giuliana Paciola ha curato la stesura dei paragrafi 1 e 2.