Etica e responsabilità sociale delle imprese della grande distribuzione alimentare

Etica e responsabilità sociale delle imprese della grande distribuzione alimentare
a Università di Sassari, Dipartimento di Economia e Sistemi Arborei

Il consumatore sovrano e le responsabilità della distribuzione alimentare

Il consumatore del terzo millennio non esiste.
Piuttosto, esistono modelli di consumo assai diversificati e spesso incongruenti: basti pensare che, se da un lato i progressi delle tecnologie dell’informazione, del trasporto e della comunicazione hanno consentito l’affermarsi della cosiddetta “società low cost”, è ben vero che, dall’altro, nei paesi occidentali è stata individuata e quantificata una significativa propensione a privilegiare merci e servizi la cui offerta è resa possibile nel rispetto di determinati valori sociali, ambientali ed economici. Le due tendenze appaiono nettamente contrastanti: la prima, infatti, riflette un sistema di valori che, se conferisce rilevanza all’accesso al consumo di determinati prodotti ad ampie fasce della popolazione, allo stesso tempo rivela una matrice prettamente quantitativa e consumistica; la seconda, invece, si configura principalmente lungo una dimensione qualitativa, in quanto privilegia la soddisfazione di specifiche attese del cliente in merito alla salvaguardia ed alla promozione di determinate modalità dell’agire economico che vengono percepite coerenti con principi inderogabili dell’individuo e della collettività con cui esso si identifica. È ben vero, d’altronde, che questa seconda tendenza rimane spesso nel limbo delle buone intenzioni, dal momento che fatica a tradursi in concreti e sistematici comportamenti d’acquisto (Devinney et al., 2006).
L’evoluzione recente dei mercati al consumo non si può certo ridurre a questa marcata dicotomia, che ha puro valore esemplificativo: bisogni e valori quali la sicurezza, il piacere, l’espressione di sé o del proprio status condizionano in misura significativa i comportamenti di consumo, rendendo il quadro estremamente complesso. Resta comunque accertata, in questo contesto, l’affermazione progressiva e perentoria della “sovranità del consumatore”, la cui dotazione di informazioni e di mezzi di persuasione e dissuasione ne ha accresciuto il potere di condizionamento nei confronti delle scelte delle imprese.
È un fatto, inoltre, che tale accresciuta consapevolezza dell’atto di acquisto incida in misura significativa sulle strategie competitive delle imprese. Ciò vale sia nel caso del “consumatore responsabile”, che progetta l’atto del consumo come la fase finale di un articolato processo decisionale, nel quale la rilevazione e l’elaborazione di informazioni presso diverse fonti rappresentano momenti decisivi ai fini dell’esito della scelta conclusiva, sia nell’eventualità in cui ci si trovi di fronte al cosiddetto “consumatore razionalmente ignorante”, per il quale anche la decisione di rinunciare all’uso di una pletora di dati e notizie sulla merce oggetto della transazione sia essa stessa frutto di una valutazione consapevole dei costi e dei benefici conseguenti.
I beni alimentari, per la tipologia di bisogni che soddisfano e per le implicazioni di varia natura legate ai processi di produzione e distribuzione che li riguardano, si prestano – più di altre categorie merceologiche - a simili suggestioni. In tale ambito, la componente distributiva del sistema agro-alimentare, e specialmente i grandi operatori al dettaglio, è chiamata a farsi carico delle maggiori responsabilità. Ciò avviene per un duplice ordine di motivi: innanzitutto la Grande Distribuzione Organizzata (GDO) gestisce ormai l’offerta di gran parte delle derrate acquistate dalle famiglie e detiene, per via delle dimensioni e delle strategie competitive adottate, un potere contrattuale predominante nei confronti dei fornitori; in secondo luogo, la posizione funzionale, collocata al termine della catena di offerta, la diffusione capillare nel territorio e il volume di merci movimentate concorrono a rendere la GDO l’interlocutore privilegiato del consumatore, il quale ripone in essa e, per il suo tramite, nell’intero sistema agro-alimentare rilevanti aspettative in linea con le tendenze in atto sopra citate. Si pensi, fra l’altro, che l’acquisizione di competenze organizzative e gestionali consente di fatto alla GDO di esercitare, non solo nella catena di offerta agro-alimentare ma anche al di fuori di essa, poteri decisionali, di controllo e di indirizzo ampiamente riconosciuti anche dalle Autorità pubbliche.
L’attuale assetto strutturale del segmento distributivo del comparto alimentare è frutto di una lunga serie di acquisizioni e fusioni che lo hanno condotto ad un grado di concentrazione tale da lasciare spazio ad un numero limitato di concorrenti; questi si contendono, da un lato, i mercati al consumo nei paesi più ricchi e, dall’altro, gli approvvigionamenti di derrate e prodotti trasformati nell’intero pianeta. Se ciò ha reso decisamente asimmetriche le relazioni concorrenziali verticali, non ha attenuato affatto l’asprezza del confronto competitivo tra le diverse insegne nei mercati al consumo. In questo contesto, diventa dunque di importanza rilevante venire incontro e soddisfare in maniera efficace le istanze che i consumatori e i cittadini rivolgono agli operatori della GDO. Tra queste, come si è detto, assumono un ruolo di primo piano il rispetto e la tutela dell’ambiente, la garanzia di accettabili condizioni di lavoro e l’assenza di discriminazioni e sfruttamento nei confronti delle fasce più deboli della popolazione, la distribuzione equa del valore prodotto lungo l’intera catena di offerta, la valorizzazione di specificità territoriali di carattere paesaggistico, culturale e sociale. Si tratta, a ben vedere, di aspettative la cui mancata realizzazione viene ordinariamente rimproverata alla generalità delle imprese del moderno sistema capitalistico, di cui le stesse insegne della GDO rappresentano un’espressione rappresentativa.

L’impresa distributiva ed i portatori di interessi

L’adozione di comportamenti in linea con le tendenze predominanti nel sistema di valori condiviso dalla comunità non può e non deve costituire una scelta strategica di natura prettamente competitiva, cioè rivolta esclusivamente a differenziare la posizione dell’impresa distributiva nei confronti delle altre o rafforzare la propria posizione nei confronti delle relazioni con i fornitori, tutte motivazioni che rivelano una visione di corto respiro. Essa riflette la necessità di garantire la stessa sopravvivenza nel lungo periodo dell’impresa e, con essa, dell’intero sistema capitalistico di cui costituisce – insieme al mercato – il perno funzionale. Com’è ormai ampiamente riconosciuto, infatti, sull’impresa converge una moltitudine di interessi che non coincidono necessariamente con quelli della proprietà (Freeman, 1984). Se dunque il management, una volta deputato a perseguire la massimizzazione del profitto, oggi è chiamato a garantire il conseguimento del massimo valore per gli azionisti, non è detto che soddisfi interamente i vari stakeholders (clienti, fornitori, lavoratori, investitori, comunità locale, istituzioni pubbliche) che ripongono aspettative nei confronti dell’operato dell’impresa. Questa non può ignorare tali istanze, perché a lungo andare potrebbe subire sanzioni significative da parte di alcuni tra i portatori d’interessi: boicottaggi dei propri prodotti, mancato rinnovo di contratti di fornitura, conflitti sindacali, indisponibilità di risorse nei mercati finanziari, relazioni sociali ed istituzionali compromesse. Ciò perché, nel perseguire obiettivi di massimizzazione del valore per gli azionisti, l’impresa potrebbe produrre diseconomie esterne (di natura ambientale, economica e sociale) di cui potrebbero soffrire alcuni tra gli stakeholders citati (Dematté, 2002).
Queste considerazioni di natura generale trovano piena applicazione nel caso specifico delle imprese della grande distribuzione sulle quali, come si è potuto appurare, convergono attese molteplici e talora contrastanti. A titolo di esempio, si può richiamare il fatto che, mentre, agricoltori e industrie alimentari perseguono, attraverso il canale distributivo, obiettivi di collocazione remunerativa e sistematica e di tangibile visibilità per la merce offerta, i consumatori esigono che la GDO garantisca a prezzi accessibili forniture assortite e sicure per volumi e qualità; allo stesso tempo, le amministrazioni pubbliche ripongono nella GDO aspettative non irrilevanti in materia di occupazione, governo degli spazi urbani (con riferimento ai problemi del traffico, dello smaltimento dei rifiuti, della gestione del verde) e della qualità della vita della popolazione. Anche le istituzioni creditizie, sia in qualità di fornitrici di servizi, sia come partner di attività di finanziamento al consumo interferiscono con le scelte del management della GDO, e l’elenco non si esaurisce certo qui. Disattendere alcune di tali pressioni potrebbe comportare per l’impresa distributiva andare incontro a ritorsioni che potrebbero rivelarsi anche letali ai fini della prosecuzione della sua attività. La molteplicità degli interessi convergenti e dei relativi portatori induce a ritenere improrogabile l’acquisizione della consapevolezza, da parte dei manager distributivi, della necessità di contemperare le pretese legittime della proprietà con azioni che non prevarichino apertamente le istanze degli altri stakeholders, in poche parole con l’accettabilità sociale dell’operato dell’impresa.
Per garantire la propria sopravvivenza, dunque, l’impresa distributiva deve inglobare nelle proprie finalità istituzionali anche obiettivi di carattere sociale. Tuttavia, questo non è sufficiente. Infatti, una simile scelta potrebbe rivelarsi penalizzante per l’impresa nel breve periodo, nel momento in cui dovesse determinare l’insorgenza di costi superiori a quelli sostenuti da concorrenti meno virtuosi. Oltre a ciò, l’impresa che persegue anche obiettivi di natura etica potrebbe subire, al pari degli altri, dei contraccolpi generati sull’intero sistema dalle diseconomie conseguenti all’azione di concorrenti senza scrupoli. Si rende perciò necessario che tutte le imprese, attraverso le loro relazioni reciproche e i loro organi di categoria, condividano regole del gioco che prevengano simili evenienze attraverso la diffusione di una cultura imprenditoriale improntata all’internalizzazione della responsabilità sociale negli obiettivi strategici che concorrono a definire la missione, e quindi la natura stessa dell’impresa.
Questo aspetto è molto importante, in quanto è dimostrato che se non si verifica una sufficiente “massa critica” di adesioni a progetti di Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI), le logiche competitive di taglio speculativo finiscono con il prevalere, a discapito di quelle auspicabili dalla collettività (Beltratti, 2003).

Responsabilità Sociale d’Impresa e distribuzione agroalimentare

Una spinta considerevole nella direzione di una consistente e significativa considerazione delle istanze sociali nelle scelte della GDO alimentare deriva dalle forze della concorrenza, che inducono le imprese a differenziare e qualificare la propria offerta anche attraverso la certificazione della responsabilità sociale. La Commissione Europea definisce la RSI come «… l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali, ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate» (Commissione delle Comunità Europee, 2001). Si può allora dire che, come si era peraltro già intuito dalle argomentazioni precedenti, tra gli obiettivi della RSI rientra proprio la minimizzazione dei conflitti con gli stakeholders. Le grandi imprese multinazionali, tra cui le stesse grandi catene della GDO alimentare, sono state tra le prime ad adottare una politica di responsabilità sociale, ormai diffusa anche presso numerose piccole e medie imprese. Tale scelta è infatti in grado di apportare benefici considerevoli di varia natura: miglioramento d’immagine e reputazione, efficace gestione delle risorse umane, impiego efficiente delle risorse ambientali e naturali, migliore gestione del rischio d’impresa e delle relazioni con le istituzioni finanziarie, con conseguente maggiore attrattività dell’impresa nel mercato finanziario (Perrini, 2006).
Nel caso specifico delle imprese agroalimentari, e di quelle distributive in particolare, i vantaggi legati all’adozione di politiche di RSI possono configurarsi nelle seguenti tipologie (Unioncamere, 2007):

  • consentono un migliore radicamento nel territorio; nel caso dell’impresa distributiva ciò avviene in particolare per quel che riguarda la condivisione dei valori portanti nei quali si identificano le comunità locali;
  • assecondano e supportano il ruolo multifunzionale assegnato dalla collettività al settore agricolo ed alle attività connesse;
  • rinsaldano il rapporto di fiducia con i consumatori, incrinatosi a seguito dei recenti scandali alimentari;
  • garantiscono un più equo meccanismo di ripartizione dei guadagni tra gli operatori lungo la filiera;
  • attivano meccanismi di controllo sulla catena di fornitura;
  • rafforzano l’immagine dell’impresa, contribuendo a promuovere la fidelizzazione del cliente.

Tra gli strumenti operativi attraverso i quali le politiche di responsabilità sociale vengono implementate nelle imprese si riscontrano diversi standard, ciascuno dei quali fa riferimento ad alcuni specifici aspetti della RSI, in attesa, per la metà del 2010, dell’approvazione definitiva della norma ISO 26000, che dovrebbe fornire linee guida armonizzate e globali, in ossequio a quanto sancito dalle dichiarazioni e convenzioni delle Nazioni Unite e dell’International Labour Office.
Tra gli standard più frequentemente impiegati come riferimento si citano le norme ISO 9001 e 14001, incentrate rispettivamente sulla soddisfazione del cliente e sulle ricadute dell’attività aziendale sull’ambiente, nonché la norma BS OHSAS 18001, che si riferisce alla sicurezza dei lavoratori. Lo schema SA 8000 supporta l’adozione di politiche di RSI improntate al rispetto delle principali convenzioni internazionali relative ai diritti umani ed alle libertà fondamentali. Ciò che caratterizza questa norma, rispetto alle altre attualmente diffuse, è che questa esige il rispetto degli standard dichiarati non solo da parte dell’impresa che decide di adottarli, ma anche da parte dei suoi fornitori. La certificazione SA 8000, per via della sua flessibilità, trova modo di essere praticata in tutto il mondo, ma trova in Italia – con oltre 800 impianti accreditati, soprattutto nella regione Toscana - il luogo in cui appare maggiormente diffusa, seguita a notevole distanza da India, Cina e Brasile (Tabella 1). Nel nostro paese la SA 8000 è adottata in particolare nei settori delle pulizie, dell’agro-alimentare e del commercio.

Tabella 1 – Stato della certificazione SA 8000 al 30 settembre 2009

Fonte: Social Accountability Accreditation Services, 2009

Altri strumenti di implementazione di politiche di responsabilità sociale riguardano l’adozione di un Codice Etico, nel quale sono definite le attribuzioni morali di ciascuna figura che contribuisce all’azione dell’impresa; la redazione di un Bilancio Sociale, che dà conto delle relazioni con i gruppi di riferimento rappresentativi della collettività; la compilazione di un Bilancio Ambientale, in cui sono valutate le ricadute dell’attività imprenditoriale sull’ambiente.
Una recente indagine (Lorien Consulting srl, 2007) ha rivelato il forte impatto di simili iniziative sull’immagine delle insegne della GDO in Italia, oltre che la rilevanza di azioni di marketing dedicate a comunicarne l’esistenza ai clienti, nel differenziare in misura notevole i posizionamenti di ciascuna catena rispetto ai concorrenti (Tabella 2).

Tabella 2 – Percezione delle politiche di RSI da parte dei consumatori (campione: 1.000 intervistati)

Etica, economia e responsabilità sociale

L’analisi svolta mette in guardia dalle implicazioni di un uso strumentale delle leve della RSI ai fini della gestione delle relazioni competitive orizzontali da parte delle insegne commerciali. Se infatti, come si è detto in precedenza, le forze della concorrenza possono agire nella direzione auspicabile della promozione di una diffusa cultura della responsabilità sociale, è anche vero che la RSI può agire anche come uno strumento utile ai fini dello spiazzamento dei rivali nell’arena competitiva e dell’accrescimento di rendite monopolistiche (Zamagni, 2004).
La minaccia è concreta, anche perché simili politiche richiedono spesso, come si è visto, una dotazione di risorse ed investimenti dedicati che possono rendersi disponibili con maggiore facilità e minori oneri nelle imprese più grandi e meglio strutturate. A tale rilievo si obietta con l’argomentazione che pone al centro della pianificazione strategica dell’impresa l’obiettivo dell’accumulazione progressiva e della valorizzazione di quel patrimonio intangibile denominato “reputazione”, che uno scandalo o un incidente potrebbe compromettere in maniera irrimediabile (Jackson, 2004). È altrettanto vero che, per dirla con Sacconi (2004), il meccanismo reputazionale soffre di grave fragilità cognitiva, essendo spesso condizionato da componenti emotive, scarsa memoria e difficoltà di accesso alle informazioni, piuttosto che dall’impiego razionale e sistematico di informazioni oggettive e di facile acquisizione. Ciò induce Zamagni (2004) ad argomentare che «… se, date le condizioni di contesto, vi è una qualche probabilità di trasgredire le norme senza costo, vale a dire senza intaccare la reputazione, ciò sarà fatto».
Queste obiezioni consolidano, da un lato, la centralità del ruolo di strumenti, quali la certificazione o i Bilanci Sociale ed Ambientale, atti ad attenuare le condizioni di asimmetria informativa tra management d’impresa e stakeholders, ma allo stesso tempo ne rivelano drammaticamente l’inefficacia nel garantire in maniera assoluta l’assenza di qualunque tentazione all’adozione di comportamenti opportunistici. Occorre, però a questo punto fare chiarezza su alcune contraddizioni che insorgono a proposito della questione.
Nel sito internet del Centro Studi Accademici sulla Reputazione (CeSAR, www.reputazione.it) la reputazione è definita come “il giudizio complessivo su un’organizzazione, dato da coloro che in modo diretto o indiretto ne influenzano l’operato (portatori di interesse)". Ciò implica che la natura e la missione stessa dell’impresa, così come definiti in precedenza e determinati dal coacervo dei valori che animano le azioni degli stakeholders, non dovrebbero ammettere deroghe. In altri termini, dal momento che la reputazione riflette la cultura e l’identità dell’impresa, la sua fragilità cognitiva rappresenta, alla fine dei conti, un falso problema. Occorre riconoscere che nell’affermare ciò si presuppone una diffusa e condivisa “etica delle virtù”, come la definisce Smith (1759), che dovrebbe permeare la vita della comunità sociale e la funzionalità del sistema economico. Un’etica che dovrebbe entrare quale argomento della funzione obiettivo degli agenti e che, attraverso questi, dovrebbe consentire al mercato di ricompensare la cultura civile d’impresa (Zamagni, 2004). Queste condizioni si costruiscono nel tempo con l’azione delle istituzioni educative, con l’esempio di opere eclatanti, quali possono essere – tra gli altri - atti di solidarietà di grande impatto presso l’opinione pubblica, e con la propagazione nella società di valori virtuosi da parte dei mezzi di comunicazione. Si tratta di responsabilità che esulano dall’agire economico, il quale a sua volta dovrebbe riflettere e supportare, a sua volta, la diffusione di tali valori.
Come si può facilmente comprendere, ed è doveroso riconoscere, la cronaca quotidiana rivela che simili condizioni sono ben lontane dal verificarsi e che la strada per l’affermazione dell’”etica delle virtù” è ancora molto lunga e, purtroppo, lastricata di buone intenzioni.
In questo contesto, la GDO alimentare non costituisce certo un’eccezione nel panorama del moderno capitalismo: basti pensare alle azioni di boicottaggio e di protesta a cui è continuamente sottoposta Wal-Mart ed il modello gestionale che essa rappresenta (Lichtenstein, 2006). È d’altra parte innegabile che, da quando la GDO ha acquisito il controllo del sistema agro-alimentare, nel pianeta i problemi della fame e della povertà, della salubrità degli alimenti, del degrado dell’ambiente e del clima, nonché della marginalizzazione di numerosi sistemi agricoli territoriali non solo non si sono risolti, ma anzi hanno accentuato notevolmente la loro portata. Pur non potendo ascrivere interamente la responsabilità di ciò alla sola GDO, è lecito comunque ritenere che, al fine di garantire la loro stessa sopravvivenza, anche le multinazionali della distribuzione alimentare debbano maturare la coscienza della necessità di far proprie le istanze sociali, economiche ed ambientali della collettività.

Riferimenti bibliografici

  • Beltratti A. (2003), Socially Responsible Investment in General Equilibrium, Fond. E. Mattei WP, Ottobre, Milano
  • Commissione delle Comunità Europee (2001), Libro Verde. Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, COM(2001)366 def., Bruxelles
  • Dematté C. (2002), “L’impresa schiacciata fra la pressione dei mercati e la responsabilità sociale”, Economia & Management, n. 4, pp. 5-19
  • Devinney T.M., Auger P., Eckhardt G., Birtchnell T. (2006), “The Other CSR”, Stanford Social Innovation Review, Fall 2006, Available at SSRN: [link]
  • Freeman R.E. (1984), Strategic Management: A Stakeholder Approach, Pitman, London
  • Jackson K.T. (2004), Building Reputational Capital. Strategies for Integrity and Fair Play that Improve the Bottom Line, UP, Oxford
  • Lichtenstein N. (ed.) (2006), Wal-Mart. The Face of Twenty-First-Century Capitalism, London, The New Press
  • Lorien Consuting srl (2007), Osservatorio sui consumi responsabili. Sezione GDO, [link]
  • Perrini F. (2006), “Corporate social responsibility: l’Europa e lo sviluppo di imprese competitive e sostenibili”, Economia & Management, n. 3, pp. 11-17
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  • Smith A. (1759), The Theory of Moral Sentiments, A. Millar, London
  • Unioncamere (2007), Studio sulla qualità etico-sociale nel settore agro-alimentare, Cons. Dintec, [link]
  • Zamagni S. (2004), L’ancoraggio etico della responsabilità sociale d’impresa e la critica alla RSI, AICCON Working Paper n.1, [link]
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