Il negoziato agricolo nel WTO e la conferenza ministeriale di Hong Kong di Dicembre

Il negoziato agricolo nel WTO e la conferenza ministeriale di Hong Kong di Dicembre
Verso una nuova Cancun?
a Università della Calabria, Dipartimento Economia, Statistica e Finanza

Cosa sarebbe dovuto succedere, e non è successo, a Luglio

L’accordo siglato a Ginevra il 2 Agosto dello scorso anno - quello che, di fatto, ha consentito al negoziato dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel round in corso di ripartire dopo il clamoroso fallimento della conferenza ministeriale di Cancun nel settembre del 2003 - prevedeva entro il luglio di questo anno la definizione degli elementi più importanti dell’ossatura del nuovo accordo sull’agricoltura, nel linguaggio del negoziato: una “prima approssimazione delle modalities”. Questo avrebbe consentito di definire una bozza delle modalities tra la ripresa di settembre e la conferenza ministeriale di Hong Kong del 13-18 dicembre prossimi, in modo da poterle approvare in quella occasione, risolvendo le questioni sulle quali, eventualmente, a quella data non fosse stato ancora trovato un accordo. La scadenza di luglio non è stata rispettata. Non solo non si è riusciti a trovare un accordo su una “prima approssimazione delle modalities”, così come deciso un anno prima, ma Tim Groser, il presidente del gruppo negoziale sull’agricoltura, si è dovuto arrendere anche rispetto alla possibilità di produrre un documento che facesse il punto sullo stato del negoziato, per facilitarne il riavvio dopo l’interruzione estiva. La sua valutazione è stata che sulla maggior parte delle questioni sul tappeto le posizioni fossero così lontane che evidenziare le differenze sarebbe stato addirittura controproducente… Così alla fine di luglio le delegazioni non hanno potuto fare altro che prendere atto del fatto che il negoziato agricolo è in una fase di stallo.
L’accordo di Ginevra dell’agosto 2004 non aveva fatto molto di più che confermare la legittimità del WTO come istituzione multilaterale - legittimità che era stata messa in discussione dopo il fallimento di Cancun - e indicare la strada per la prosecuzione del negoziato. In sostanza, esso aveva costituito un segnale politico forte della volontà da parte dei paesi membri del WTO di continuare il negoziato. I contenuti di quell’accordo, però, erano molto meno ambiziosi di quelli dell’accordo che si era provato a raggiungere, senza riuscirci, a Cancun. Per l’agricoltura esso si limita a definire alcuni degli elementi generali degli impegni che l’accordo conclusivo dovrà contenere, ma senza provare a definire nessuno degli elementi di dettaglio in grado di determinarne l’effettiva potenza in termini della sua capacità liberalizzatrice degli scambi internazionali di prodotti agro-alimentari.
Il mancato accordo di luglio non deriva certo da un’insufficiente attività negoziale, sia di quella di natura più tecnica, che ha luogo a Ginevra, sia di quella più propriamente politica, al livello al quale vengono effettivamente prese le decisioni. Basti pensare che soltanto nel 2005 ci sono state ben quattro “mini-ministeriali” (cioè riunioni a livello di ministri che, pur non vedendo rappresentati tutti i paesi membri del WTO, coinvolgono paesi considerati rappresentativi delle diverse posizioni negoziali): Davos in gennaio, Mombasa in marzo, Parigi in maggio e Dalian in luglio.
In un solo capitolo della negoziazione sull’agricoltura un accordo potrebbe essere trovato in tempi brevi, quello relativo ai sussidi delle esportazioni, per i quali si è già convenuto di eliminare, entro una data da decidere, parallelamente, (i) i sussidi all’esportazione, (ii) i crediti sussidiati all’esportazione, (iii) i sussidi impliciti nelle operazioni delle agenzie - pubbliche e private - in grado di esercitare potere di mercato sulle esportazioni di un paese (le State Trading Enterprises), e (iv) le forme di aiuto alimentare che distorcono i flussi commerciali.
Un accordo appare lontano in tutti gli altri principali capitoli del negoziato agricolo: riduzione delle tariffe all’importazione; riduzione del sostegno legato alle politiche interne distorsive del commercio internazionale; “trattamento speciale e differenziato” per i paesi in via di sviluppo; iniziativa sul cotone; denominazioni di origine per vini ed alcolici. Per la protezione delle denominazioni relative agli altri prodotti agro-alimentari le posizioni sono ancora lontane persino sull’avvio di un negoziato all’interno del round in corso…

Cosa ci aspetta?

La conferenza ministeriale di Hong Kong è dietro l’angolo. Il tempo a disposizione è poco, soprattutto se si considera il numero, l’importanza e la complessità delle questioni da risolvere. Tre sembrano essere gli scenari possibili per Hong Kong.
Il primo è quello che vede nelle prossime settimane tutti i paesi fare un passo indietro rispetto alle loro posizioni attuali, riuscendo nel poco tempo che li divide dalla conferenza ministeriale di dicembre a trovare una soluzione per la maggior parte delle questioni aperte. Questo lascerebbe alla conferenza il compito di concludere la mediazione su pochissime questioni residue, presumibilmente quelle più delicate, consentendo, così come previsto dall’accordo dello scorso anno, di arrivare ad Hong Kong alla definizione delle modalities, cioè, sostanzialmente, riuscire a definire il nuovo accordo sull’agricoltura.
Il secondo scenario, meno ottimistico, prevede che a Hong Kong non si riesca a trovare una soluzione condivisa su tutti gli elementi del nuovo accordo sull’agricoltura, ma che un accordo venga raggiunto su almeno alcune delle questioni rilevanti. L’elemento più importante che determinerebbe un accordo di questo tipo sarebbe la valutazione da parte di tutti i paesi membri dell’insostenibilità del costo (politico, prima che economico) del mancato raggiungimento di un accordo. L’effettiva portata dell’accordo raggiunto - cioè l’effettiva rilevanza degli elementi dell’accordo finale che verrebbero definiti - potrebbe però anche risultare assai limitata. In altre parole, così come a Ginevra un anno fa, alla fine la scelta potrebbe essere quella di un accordo che consenta di poter dire che un accordo è stato raggiunto, ma, di fatto, esso resterebbe molto lontano da quanto sarebbe necessario per permettere di fare significativi passi in avanti al round, passi di dimensione tale da consentire, con un ulteriore sforzo negoziale, la sua conclusione entro un periodo di tempo relativamente limitato.
Il terzo scenario possibile è quello che vede la ministeriale di Hong Kong chiudersi senza il raggiungimento di un accordo, ma, al contrario, con la presa d’atto esplicita dell’assenza di una convergenza. Così come a Cancun nel 2003, il fallimento sarebbe determinato dalla decisione di alcuni dei paesi membri di rimarcare in maniera forte la loro indisponibilità a sottoscrivere un accordo che non dia risposte adeguate alle loro richieste negoziali.
Il primo scenario è, a mio avviso, di gran lunga il meno probabile. Il terzo è più probabile di quanto molti non siano portati a credere (o, per il ruolo negoziale che ricoprono, possano ammettere…). Il secondo è quello più probabile; in questo caso, però, non ci si dovrà sorprendere se si tratterà di un accordo di portata limitata, che lascerebbe la soluzione di molti dei nodi più difficili al prosieguo del negoziato. In questo caso, quindi, l’accordo raggiunto non sarebbe in grado di portare rapidamente alla chiusura del round.

A cosa guardare per ragionare su cosa potrebbe succedere (o per capire cosa sarà successo) a Hong Kong?

All'inizio di agosto il presidente del gruppo negoziale sull’agricoltura, Tim Groser - che, avendo deciso di candidarsi al parlamento della Nuova Zelanda con l’opposizione, è stato rimosso dal governo neozelandese dal ruolo di ambasciatore di quel paese al WTO - è stato sostituito dal connazionale Crawford Falconer. Groser è stato un eccellente presidente ed il cambio della guardia, per forza di cose, visto anche il limitato tempo a disposizione, non aiuterà certo a determinare un rapido riavvicinamento delle posizioni.
Tutti i paesi si troveranno davanti un’ipotesi di accordo di mediazione che non piacerà a nessuno e dovranno dare risposta alla stessa domanda: cosa è preferibile? acconsentire a far fare passi in avanti al negoziato verso un accordo relativamente lontano dalle aspettative - o dalle aspirazioni - della vigilia? o non sottoscrivere, per ora almeno, alcun accordo?
Non è detto che tutti i paesi membri diano la stessa risposta, nel qual caso non si avrebbe alcun accordo (nel WTO un accordo si ha solo se esso viene sottoscritto da tutti i paesi membri, nessuno escluso).
La dichiarazione conclusiva della conferenza ministeriale di Doha del novembre del 2001 che, di fatto, ha dato via al round, ha posto molta enfasi sul fatto che questo turno negoziale pone al centro le esigenze di sviluppo dei paesi più poveri. Se si tratti della “solita” retorica dei paesi sviluppati, o di parte di essi, o, piuttosto, di una genuina presa di coscienza dell’esigenza di prestare maggiore attenzione e di dimostrare una maggiore disponibilità concreta alle legittime aspirazioni di crescita dei paesi più poveri (all’epoca erano passati solo due mesi dall’11 settembre…), si potrebbe discutere a lungo. Quale che sia la risposta a questo interrogativo, i paesi in via di sviluppo hanno, giustamente, deciso di prendere sul serio il testo della dichiarazione di Doha, pretendendo da questo round un accordo che dia risposte efficaci alle loro richieste di forte riduzione del sostegno ed apertura dei mercati agro-alimentari dei paesi sviluppati.
I paesi in via di sviluppo più forti hanno già mostrato a Cancun di non avere timori reverenziali a bloccare un accordo, se necessario. Contrariamente alle previsioni di molti, il G-20 - un gruppo di paesi in via di sviluppo che comprende, tra gli altri, la Cina, l’India, il Brasile, l’Argentina ed il Sud Africa - nonostante la sua relativa disomogeneità, ha dimostrato di essere capace di rimanere coeso. Non solo, si è dimostrato in grado anche di assumere un ruolo di leadership, producendo ragionevoli proposte di mediazione. Ma appunto perché questo gruppo di paesi ha acquisito reputazione e peso negoziale, non è detto che sia disposto a “svendere” entrambi questi successi, sottoscrivendo un accordo “debole”, non in grado di determinare quella riduzione nelle distorsioni dei mercati agro-alimentari, dovute alle politiche dei paesi sviluppati, cui aspira.
Tra i paesi in via di sviluppo non sono però solo i paesi più forti quelli a cui bisogna guardare. A Cancun, per esempio, quattro tra i paesi in assoluto più poveri - Burkina Faso, Benin, Chad e Mali - hanno posto con forza la richiesta di eliminare tutte le politiche dei paesi sviluppati che distorcono il commercio internazionale del cotone. Il cotone è così oggi oggetto di un negoziato specifico all’interno del negoziato agricolo. Firmeranno questi paesi un accordo che non risponda in maniera soddisfacente ai loro desiderata?
Un problema analogo a quello dei paesi in via di sviluppo si trovano dinanzi i paesi sviluppati che oggi sostengono in maniera consistente i loro produttori agricoli - Unione Europea, Stati Uniti e Giappone in testa, in compagnia di paesi più piccoli, quali la Norvegia e la Svizzera, ma con livelli di sostegno anche più elevati in termini relativi. In questo caso la domanda cui devono dare risposta diventa: cosa è preferibile? acconsentire a far fare passi in avanti al negoziato verso un accordo in grado di determinare una significativa riduzione del sostegno goduto dai propri produttori agricoli (o una modifica degli strumenti utilizzati, con un conseguente aumento della spesa di bilancio)? o nessun accordo?
Nel rispondere a questa domanda un ruolo non di poco conto hanno le pressioni per una rapida conclusione del round esercitate in questi paesi dagli interessi extra-agricoli che beneficerebbero dall’applicazione degli accordi in materia di “servizi” e di riduzione della protezione dei mercati per i prodotti non agricoli.
Se i paesi più ricchi decidessero di accettare di modificare le loro politiche a sostegno delle loro agricolture, certamente essi non sarebbero disponibili a cambiarle dopo il raggiungimento di un accordo (“costretti” dall’accordo…), ma vorrebbero prima modificare le loro politiche e poi sottoscrivere un accordo che ratificherebbe le decisioni già prese. Questo vuol dire che un accordo che determinasse effettivamente una riduzione delle distorsioni dei mercati internazionali agro-alimentari ha bisogno di tempo per potere concretizzarsi; il che, naturalmente, spingerebbe in là nel tempo la chiusura del negoziato. Da questo punto di vista è forse utile ricordare che il nuovo Farm Bill degli Stati Uniti sarà definito soltanto nel 2007 e che la Politica Agricola Comunitaria, lungi dall’aver trovato un assetto definitivo con la riforma Fischler del 2003, ha davanti a sé ulteriori passaggi riformatori: la riforma delle politiche per lo zucchero; quella delle politiche per i prodotti orto-frutticoli e per il vino; gli aggiustamenti che potrebbero diventare necessari a seguito dell’allargamento dell’Unione Europea a Bulgaria e Romania; gli sviluppi del dibattito sul bilancio dell’Unione Europea e sul peso all’interno di questo della spesa per l’agricoltura.
La strada per Hong Kong appare tutta in salita. Oltretutto sul tavolo negoziale c’è molto di più di un passaggio intermedio verso un nuovo accordo WTO sull’agricoltura: ciò che è in discussione in questo round è il nuovo assetto della distribuzione del potere nelle relazioni internazionali, il che non contribuisce certo a rendere le cose più semplici!

Note

Informazioni utili per tenersi aggiornati sull’andamento del negoziato agricolo nel Doha Development Agenda round del Wto sono disponibili sul sito: http://www.ecostat.unical.it/anania/Negoziato_agricolo_WTO.htm

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