L’associazionismo come strumento strategico di governo del mercato agroalimentare

L’associazionismo come strumento strategico di governo del mercato agroalimentare
  Istituto Nazionale di Economia Agraria

Il contesto economico

Il mercato dei prodotti agroalimentari è in forte evoluzione e importanti sono i cambiamenti che, soprattutto negli ultimi anni, lo hanno interessato. A cominciare dalla politica agricola comunitaria (Pac) che ha mutato i propri obiettivi, non più rivolti, come in passato, a sostenere il reddito in agricoltura, ma indirizzati a favorire, piuttosto, azioni di natura diversa, legate agli aspetti ambientali, alla produzione alimentare e all’offerta di servizi in agricoltura. Un percorso, questo, intrapreso dalla Pac già con la riforma del 1999 (Agenda 2000) e che si è sviluppato pervenendo, con l’ultima riforma approvata nel 2008 a conclusione dell’Health check, al completamento del processo di disaccoppiamento del sostegno. Il nuovo indirizzo espresso dalla politica agricola comunitaria è volto, com’è noto, a favorire un riorientamento al mercato dell’attività agricola; in ciò è implicita la richiesta agli agricoltori di porre una maggiore attenzione ai segnali provenienti dal mercato e di modificare, in virtù di tali segnali, le proprie strategie competitive. D’altro canto, in conseguenza del progressivo venir meno del sostegno comunitario, il reddito derivante dall’attività agricola è sempre più legato alla capacità degli agricoltori di “saper vendere” nel modo più conveniente i propri prodotti. È questa una condizione tanto più importante oggi proprio perché le imprese agricole si trovano a dover operare in un mercato globalizzato dove: (a) è aumentata sensibilmente la concorrenza fra Paesi esportatori di materie prime agricole; (b) sono più frequenti e amplificate, rispetto al passato, le oscillazioni dei prezzi dei principali prodotti agricoli, come testimoniano gli andamenti evidenziati soprattutto negli ultimi due anni; (c) è mutata ed è divenuta più complessa la domanda di prodotti agricoli da parte dei consumatori, maggiormente orientati a richiedere un elevato contenuto qualitativo/salutistico e/o di servizio; (d) è aumentato considerevolmente il livello di concentrazione della domanda di prodotti agricoli espressa dall’industria di trasformazione e, soprattutto, dalla grande distribuzione.

I termini della competizione

Il confronto con un mercato profondamente mutato e in cui è cambiata la natura stessa della competizione porta le imprese agricole a doversi adattare al nuovo ambiente economico, individuando nuove strategie competitive. Tali strategie non sono più fondate soltanto sulla capacità di produrre beni a prezzi più bassi ma soprattutto su elementi di differenziazione dei prodotti e sulla capacità di rispondere in maniera più adeguata a una domanda sempre più complessa e articolata, mutevole e, al tempo stesso, contraddittoria, espressa dai consumatori, dall’industria alimentare e dalla distribuzione. Si tratta di opzioni strategiche che racchiudono quegli aspetti connessi alla relazione che s’instaura fra un’impresa e il mercato - riguardanti il posizionamento dei prodotti sul mercato, le risorse e le competenze, le caratteristiche organizzative, le preferenze e i bisogni dei consumatori - attraverso i quali va ricercato il vantaggio competitivo.
Proprio nella scelta dell’approccio strategico da adottare per acquisire quei caratteri competitivi che consentono di raggiungere una posizione di vantaggio sui mercati (1) risiede la capacità di “saper vendere”, cui si faceva precedentemente cenno, per cui gli agricoltori si trovano sempre più spesso nella condizione di dover operare delle scelte che, con la riforma Pac del 2003, tendono ad assumere un’importanza fondamentale: “cosa produrre”, in primo luogo, ma anche “quanto” e “come produrre” (Canali, 2006). Tali decisioni riguardanti la sfera della produzione coinvolgono in maniera strettamente connessa anche il mercato negli aspetti che sempre più tendono a caratterizzarlo, ossia le strategie di marketing e le relazioni contrattuali. In un ambiente economico in forte evoluzione, dove la concorrenza è in costante aumento, tali decisioni possono rivelarsi tanto più complesse quanto più ampio è il ventaglio di scelte che è possibile effettuare e quanto più intense sono le relazioni con gli altri soggetti economici. Nell’operare le scelte tra opzioni strategiche alternative – produzione omogenea o differenziata – e in considerazione del fatto che le strategie di differenziazione sono finalizzate ad accrescere il valore economico dei prodotti - la qualità ne costituisce un parametro essenziale – l’imprenditore agricolo deve tener conto del comportamento degli altri agenti economici. La scelta di adottare una strategia di differenziazione dei prodotti implica, infatti, l’individuazione di un modello di organizzazione (2) che sostenga tale strategia e, al tempo stesso, consenta di superare quei problemi di coordinamento (costi di transazione) che sussistono tra i vari attori della filiera agroalimentare, influenzando in senso negativo il valore reputazionale dei prodotti (Raynaud, Valceschini, 2007).
Il superamento di tali problemi può avvenire attraverso modalità di coordinamento, soprattutto quando l’elemento qualitativo di un prodotto debba essere reso riconoscibile al consumatore attraverso un segno distintivo o un marchio, che possono evolvere verso forme di integrazione contrattuale molto spinte. È il caso dell’integrazione verticale totale che “permette l’introduzione di mezzi di controllo e di incentivi più appropriati di quelli previsti dal governo di mercato” (ibidem, 2007).
In ogni modo, le relazioni economiche che scaturiscono dalle strategie competitive che poggiano su elementi di differenziazione si configurano attraverso forme di organizzazione e quindi di governo che vanno a delineare, sino a modificarla, la struttura di mercato, nonché a identificare le modalità di distribuzione del valore che si è generato lungo la filiera.
Anche nel caso di strategie fondate sul prezzo è ormai indispensabile, per una maggiore efficienza della filiera, adottare forme di coordinamento orizzontale e/o verticale (Canali, 2006).
Per il raggiungimento di una qualche forma di coordinamento, un problema chiave è costituito dall’informazione, necessaria per determinare il miglior uso delle risorse: per effettuare delle scelte che siano efficienti è essenziale avere informazioni sulla disponibilità delle risorse, sulle opportunità tecnologiche e sui gusti dei consumatori (Milgrom, Roberts, 2005). Nel caso del mercato agroalimentare è noto come siano soprattutto le imprese fornitrici di input e la grande distribuzione i soggetti che tradizionalmente detengono l’informazione, mentre l’agricoltura si trova in una posizione di forte debolezza.
L’informazione può essere considerata, dunque, l’elemento chiave nel processo di sviluppo di un sistema agroalimentare, non essendo più il prezzo in grado di riassumere quegli elementi che sono necessari per la conoscenza dei prodotti (Nicolas, Valceschini, 1995; Galizzi, Pieri, 1998), e proprio per questo può conferire un vantaggio competitivo a colui che la detiene. Nell’attuale configurazione dei rapporti di mercato, il prezzo tende infatti a rappresentare sempre meno “uno strumento adeguato di coordinamento tra domanda e offerta” (Boccaletti, Canali, 1998). Il suo ruolo all’interno del mercato si è fortemente ridotto, essendo stato sostituito, invece, da un coordinamento fondato soprattutto su un sistema di regole, come quello configurato da un contratto (Raynaud, Valceschini, 2007).

I rapporti di forza sul mercato

Questo tipo di relazioni si è andato affermando negli ultimi decenni in conseguenza del processo di concentrazione che ha accompagnato la forte crescita della grande distribuzione, determinandone un rafforzamento del potere contrattuale nei confronti dei fornitori, soprattutto quando questi operano in settori produttivi ove scarso è il grado di concentrazione. Tale evoluzione ha comportato un disequilibrio nei rapporti di forza all’interno del mercato dei prodotti agroalimentari, modificando in maniera significativa le relazioni della grande distribuzione con i produttori agricoli nonché il processo di formazione del valore aggiunto lungo la filiera agroalimentare a scapito del settore agricolo.
Questa situazione pone due questioni, strettamente interrelate fra loro, che assumono una particolare rilevanza per la filiera agroalimentare: la prima concerne l’aumento del potere d’acquisto della grande distribuzione; la seconda le relazioni contrattuali che la grande distribuzione intrattiene con i soggetti a monte, ossia produttori agricoli e industria alimentare. D’altro canto, “un aumento del potere d’acquisto della grande distribuzione si traduce necessariamente anche in un forte potere di negoziazione delle clausole contrattuali con i soggetti fornitori” (Marette, Raynaud, 2003) nonché in un aumento della quota del profitto totale della struttura verticale che la distribuzione stessa può esigere (Allain, Chambolle, 2003).
In questo processo i marchi commerciali (private label) e gli altri segni distintivi della qualità giocano un ruolo importante, essendo la base della strategia concorrenziale delle imprese e un elemento centrale del processo di riorganizzazione dei sistemi produttivi. Questo perché il possesso di marchi, specie se forti e valorizzati, è anche un mezzo per modificare i rapporti di forza tra gli attori di una filiera (Marette, Raynaud, 2003). In particolare, con l’introduzione dei marchi commerciali la grande distribuzione ha consolidato ulteriormente il proprio potere contrattuale nei confronti dei fornitori, pervenendo a forme di “controllo verticale di filiera”. Queste, da un lato, consentono di migliorare l’efficienza complessiva degli scambi all’interno della filiera (attraverso la riduzione dell’asimmetria informativa e dei relativi costi di transazione) e di ottenere il massimo “profitto aggregato”, dall’altro mettono in condizione la grande distribuzione di definire la politica dei prezzi e le caratteristiche del prodotto e di esercitare un controllo sulle stesse operazioni di produzione (Giacomini, Mancini, 2006).
Tali forme di integrazione contrattuale configurano situazioni oligopsonistiche all’interno delle quali i produttori agricoli si pongono in una condizione di forte subordinazione (Aiello, 1998), accentuata proprio dalle profonde modificazioni che hanno subito i rapporti di filiera, e nell’ambito di relazioni di offerta strettamente vincolanti e di maggiore dipendenza, rispetto al passato, da un unico acquirente preferenziale (Oecd, 2005). Rispetto a soggetti come la grande distribuzione che, per la posizione di forza assunta sul mercato, sono in grado di sviluppare strategie di marca, il settore agricolo si trova in una posizione di relativa debolezza, accentuata dallo scarso grado di concentrazione con cui gli agricoltori si affacciano sul mercato e che è alla base del debole potere negoziale con il quale l’agricoltura si relaziona sul mercato con i soggetti a monte e a valle (3). È questa una fragilità che può essere superata soltanto ricorrendo all’associazionismo produttivo.

La leva strategica dell’associazionismo

Nell’attuale situazione in cui, come si è appena descritto, aumentano le difficoltà e gli squilibri nel funzionamento del mercato, il sistema contrattuale che si è andato affermando con forme di integrazione verticale non solo non è in grado di attenuarne gli effetti distorsivi ma ne accentua l’instabilità, per cui è necessario mutare le “regole del gioco”, ricorrendo a formule organizzative che consentano di ricostituire rapporti di scambio più equilibrati e, a un livello più generale, affidarsi a quelle forme d’intervento che possono essere attuate attraverso un dispositivo di carattere istituzionale, regolatore del mercato, come l’interprofessione. Detto in altri termini, con l’associazionismo produttivo è possibile “restaurare una simmetria nell’organizzazione della transazione, tra una molteplicità di produttori dispersi e una distribuzione fortemente concentrata” (Ménard, 2003).
È questo un importante strumento di governo della produzione agricola che, attraverso funzioni quali l’aggregazione e la concentrazione produttiva nonché la programmazione e la valorizzazione dell’offerta, consente ai produttori di riappropriarsi di quelle leve strategiche (differenziazione e riconoscibilità dei prodotti, informazione, ecc.) che consentono loro di porsi sul mercato in maniera più competitiva e quindi di acquisire una maggiore quota del valore aggiunto che si genera lungo la filiera. L’importanza di queste funzioni è evidente, non soltanto perché rispondono all’esigenza di controbilanciare la forza contrattuale della Gdo (concentrazione dell’offerta), ma consentono anche di governare il mercato contribuendo a svolgere, attraverso la programmazione della produzione, un’efficace azione di prevenzione nei confronti delle crisi di mercato. La programmazione dell’offerta costituisce un “potente strumento di mercato” (Saccomandi, 1991) poiché risponde all’obiettivo di maggiore stabilizzazione dei prezzi e quindi dei redditi dei produttori; obiettivo, questo, importante soprattutto nell’attuale contesto di crescente instabilità dei mercati, cui sono sottoposte le aziende agricole in conseguenza della caduta del sostegno al reddito decretata dalla nuova politica agricola comunitaria.
Allo stesso modo, nella strategia di differenziazione della qualità, l’associazionismo produttivo può assumere un ruolo centrale giacché possono essere gli stessi produttori associati a guidare, invece di subire, il processo decisionale.
L’azione collettiva che scaturisce dall’associazionismo produttivo è ovviamente fonte di vantaggi economici che consentono alle imprese agricole di acquisire, benché indirettamente, un potere di mercato non altrimenti possibile con l’azione individuale. Basti pensare: (a) all’acquisizione di massa critica del prodotto che consente di ottenere importanti economie di scala nonché di gestire il marketing mix della produzione aggregata al fine di qualificare e commercializzare i prodotti nei tempi e nei modi richiesti dalla domanda; (b) all’opportunità di programmare l’offerta per adeguarla alle esigenze della domanda; (c) alla possibilità di utilizzare meglio e a minor costo l’informazione di mercato, essenziale per la stessa programmazione dell’offerta e per ridurre comportamenti opportunistici; (d) al vantaggio di poter ricorrere, a migliori condizioni, all’accesso al credito e all’acquisto collettivo di input; (e) alla possibilità, infine, di effettuare investimenti collettivi, soprattutto nel campo della ricerca grazie alla quale sarebbe possibile internalizzare le innovazioni di prodotto e di processo (Saccomandi, 1991).
Ciò nondimeno, nell’evidenza empirica della realtà agricola italiana il percorso intrapreso per favorire l’associazionismo produttivo - e con esso il raggiungimento degli obiettivi di aggregazione e di concentrazione dell’offerta - si è rivelato tutt’altro che semplice e scontato. I pochi e parziali dati disponibili – l’albo delle Organizzazioni dei produttori istituito presso il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali (Mipaaf) – non consentono un’analisi significativa della componente organizzata della produzione agricola nel nostro Paese, ma fotografano comunque una situazione ben lontana da quella auspicata dalla normativa nazionale sulla regolazione dei mercati. Dopo circa otto anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 228 del 2001 (4), si contano, infatti, al 30 giugno 2009, soltanto 142 Organizzazioni riconosciute, di cui 7 oggetto di revoca, operanti in diversi settori produttivi, con l’unica eccezione rappresentata dall’ortofrutticolo le cui Organizzazioni dei produttori sono, com’è noto, sottoposte alla disciplina comunitaria dell’Organizzazione comune di mercato (Petriccione, 2008).
In generale, l’associazionismo produttivo in Italia riveste un peso tuttora poco significativo e debolmente incisivo rispetto agli aspetti che lo caratterizzano e che richiamano i vantaggi economici appena illustrati. La mancanza di incentivi finanziari a fronte di onerosi adempimenti finanziari, da un lato, e una perdurante confusione di ruoli nella gestione delle filiere agroalimentari, dall’altro, cui si aggiunge una non sempre sollecita attuazione da parte del Mipaaf degli strumenti previsti dalla normativa, rendendoli effettivamente operativi (Giacomini, 2009), hanno contribuito a rendere difficoltoso il processo di organizzazione dell’offerta.
Esistono, ovviamente, dei casi di eccellenza, ampiamente illustrati in letteratura, che confermano la validità del modello associativo ma che hanno come matrice comune, nella gran parte, l’appartenenza a un territorio, l’Italia nord-orientale, che vanta, pur con innegabili contraddizioni, una lunga e consolidata esperienza sul fronte cooperativo. Un esempio per tutti può essere costituito dal comparto del pomodoro da industria dove un’importante esperienza imprenditoriale (il consorzio CIO di Parma) rappresenta la più rilevante realtà associativa a livello europeo.
Grazie a una forte azione di coordinamento realizzata attraverso la centralizzazione di una serie di servizi per i propri associati (approvvigionamento collettivo dei mezzi tecnici, assistenza tecnica, commercializzazione del prodotto, ecc.), il CIO è divenuto un punto di riferimento riconosciuto in ambito nazionale e internazionale, soprattutto sul piano contrattuale dove riveste un ruolo determinante per la fissazione del prezzo del pomodoro, contribuendo, in tal modo, a conferire una maggiore stabilità al sistema produttivo e industriale di questo prodotto. Quello del coordinamento è, d’altro canto, uno dei principali problemi che può nascondere un’azione svolta a livello collettivo: i produttori agricoli associati possono esprimere, com’è ovvio, interessi e obiettivi diversi, con il risultato di rendere più complesse le negoziazioni e di rallentare la comprensione dei cambiamenti in atto nel mercato. Il successo dell’azione collettiva dipende essenzialmente dalla struttura organizzativa e dalla sua capacità di gestire con competenza ed efficienza l’eterogeneità dei soggetti che vi sono coinvolti (Raynaud, Valceschini, 2007). Ciò significa, come dimostra l’esperienza imprenditoriale cui si è fatto riferimento, realizzare un associazionismo produttivo efficace e in grado di “proporsi come partner credibile e attivo” nelle relazioni contrattuali (Mariani, 1999). È questa una condizione tanto più importante oggi per le prospettive future del settore agricolo che si trova a dover operare, con evidenti difficoltà e in posizione di forte debolezza, nel contesto di un processo di riorganizzazione dei mercati che, come si è visto, è fondato sulla concentrazione delle strutture e su forme di coordinamento verticale, nonché di una politica agraria comunitaria orientata alla qualità dei prodotti, alla tracciabilità e alla eco-condizionalità. Queste azioni richiedono un forte coordinamento e una collaborazione fra i soggetti che operano lungo la filiera e che, attraverso un rafforzamento del processo di organizzazione e di concentrazione dell’offerta, possono acquisire il potere contrattuale necessario per sfruttare al meglio le opportunità offerte dal coordinamento verticale e intervenire nella definizione di rapporti alla base dei quali vi sia un’equa distribuzione dei rischi ma anche dei vantaggi che scaturiscono dall’azione di coordinamento (Sodano, 1994).
Un ulteriore potenziamento dell’azione di coordinamento e di collaborazione tra le diverse fasi della filiera può avvenire con lo strumento dell’interprofessione (organizzazione e accordi), grazie al quale è possibile contrastare e ridurre i comportamenti opportunistici per favorire invece quelli cooperativi. L’interprofessione, definita dall’Oecd (1997) un “importante vettore istituzionale del coordinamento verticale”, può svolgere un’azione fondamentale affinché l’associazionismo produttivo possa acquisire realmente un ruolo attivo sul mercato e affinché, attraverso lo strumento dell’erga omnes, possa raggiungere un effettivo livello di concentrazione e di controllo dell’offerta.

Considerazioni conclusive

Come è stato brevemente illustrato in questo contributo, le nuove strategie competitive richiedono l’adozione di un modello di organizzazione che, nell’attuale configurazione dei mercati agroalimentari, tende ad evolvere verso forme di integrazione sempre più stringenti alla base delle quali vi è il forte potere contrattuale esercitato dalla grande distribuzione. Ne consegue una modifica dei rapporti di forza sul mercato con l’agricoltura in posizione di evidente debolezza, determinata dal fatto che alla crescente concentrazione operata dalla distribuzione si contrappone la persistente frammentazione della produzione agricola. Il che pone al centro delle questioni organizzative il grande problema del coordinamento delle relazioni all’interno della filiera. Rispetto a questa situazione l’associazionismo dei produttori agricoli può costituire un valido e opportuno contrappeso assumendo un ruolo strategico di riequilibrio dei rapporti sul mercato sotto il profilo del potere contrattuale e della ripartizione del valore aggiunto, contribuendo a trasformare forme di dominio economico in modelli di comportamento cooperativo.
L’evidenza empirica mostra, tuttavia, come solo in alcune realtà territoriali o produttive l’associazionismo agricolo sia riuscito, pur con molte difficoltà, ad assumere quel ruolo richiesto dal mercato. Se pensiamo all’agricoltura italiana, la situazione si presenta assai complessa e contraddittoria, frutto di un percorso di crescita molto differenziato, alla base del quale vi è la sollecitazione della politica agricola comunitaria che con i suoi interventi si è sempre dimostrata attenta in materia di organizzazione e concentrazione dell’offerta agricola (5). Basti pensare all’ultima riforma dell’organizzazione comune di mercato dei prodotti ortofrutticoli, dove la concentrazione della produzione viene definita come una “necessità economica” per consolidare la posizione degli agricoltori sul mercato e aiutarli ad affrontare le sfide future sulle quali la stessa politica agricola comunitaria ha scommesso.

Note

(1) Nell’approccio porteriano il vantaggio competitivo può essere ricercato attraverso tre strategie di base: leadership di costi; differenziazione dei prodotti; focalizzazione, ossia, alternativamente, una delle due strategie precedenti, sviluppate però in riferimento a uno specifico segmento del mercato (Porter, 2004).
(2) Alle diverse strategie di differenziazione possono corrispondere differenti modelli di organizzazione, che raggiungono il coordinamento in modi diversi e con risultati diversi (Raynaud, Valceschini, 2007).
(3) La riorganizzazione delle filiere in termini sia di evoluzione delle strutture di mercato sia di relazioni contrattuali tra le parti coinvolte è da tempo oggetto di studio per i suoi effetti sulla concorrenza. Per un approfondimento sul tema della regolazione della concorrenza si rimanda a un’interessante raccolta di contributi pubblicata di recente (AA.VV., 2003).
(4) Si tratta della cosiddetta “legge di orientamento” che ha avviato il processo di riordino dell’associazionismo agricolo, portato a termine dal decreto legislativo n. 102 del 2005. Per un approfondimento si rimanda a Pampanini, Martino (2005).
(5) La politica comunitaria ha da sempre mostrato una grande attenzione nei confronti dell’associazionismo produttivo, tant’è che a partire dagli anni Sessanta ha disciplinato, sulla scorta delle esperienze positive maturate in alcuni Paesi europei (i Groupements de producteurs in Francia e i Veilingen in Olanda), i primi interventi di carattere settoriale volti a favorire la creazione di forme associative di produttori agricoli.

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