La sfida della governance nella politica di sviluppo rurale

La sfida della governance nella politica di sviluppo rurale

Come governare le politiche di sviluppo rurale

Origini ed evoluzione della politica di sviluppo rurale risultano essenziali per comprenderne e interpretare le attuali dinamiche di policy, i caratteri distintivi, i limiti e le potenzialità. Vengono in evidenza fra l’altro le interdipendenze di questo settore (o sotto-settore?) con altre politiche pubbliche – in primis quella agro-industriale in senso stretto, quindi quella di sviluppo territoriale e di coesione, infine quelle ambientale, di manutenzione del territorio, forestale, artigianale, turistica e sociale in senso lato.
La politica di sviluppo rurale nasce infatti da un “innesto” praticato su quella agricola e, per ora, rimane parte integrante di essa, in certa misura subordinata, se non altro perché ne dipende finanziariamente in base al meccanismo della modulazione: ben più scarse risultano ancora le risorse di cui dispone e, nel medio periodo, non è prevedibile che tale situazione cambi. Semmai ci si può attendere che i tagli divengano consistenti per entrambe le voci di spesa del bilancio agricolo comunitario post-2013.
Questo innesto è avvenuto per dare uno sviluppo diverso alla PAC – sottoposta a pressioni esterne ed interne (1) - e per spostare parte del sostegno pubblico dalla politica di mercato a quella strutturale, con l’obiettivo di rendere tale sostegno meno distorsivo e più equo. Le spiegazioni però sono anche altre: fra gli anni ottanta e novanta nuove idee e istanze sono andate affermandosi ai confini della politica agricola, da quella ambientalista, della tutela dei consumatori, a quella della qualità, delle produzioni biologiche, dei prodotti tipici e della sicurezza alimentare. Tali aggiustamenti e innovazioni sono andate emergendo entro un contesto anch’esso in movimento e si sono combinate con dinamiche di livello macro che spingevano verso la liberalizzazione dei mercati – in direzione della globalizzazione – ma contemporaneamente verso l’ancoramento al territorio, il recupero di tradizioni e specificità, il decentramento dei governi – in direzione locale (2).
Inevitabilmente, la politica di sviluppo rurale risente di queste origini composite e, a dieci anni dalla sua istituzione formale, avvenuta nel marzo del 1999 con l’approvazione di Agenda 2000, mantiene le diverse anime: agro-produttivista e modernizzatrice, territorial-ambientalista-conservativa, post-produttivista di promozione della qualità e tipicità; anime che possono anche entrare in contraddizione fra loro, ma che allo stesso tempo - se governate - trovano composizione e possono tradursi in azioni “virtuose” per lo sviluppo rurale.
La sfida appunto sta nelle modalità di governance, ovvero nella scelta di strategie e strumenti adatti a guidare il cambiamento e tenere insieme la complessità (di interessi e di idee, di attori pubblici e privati), senza cadere in scelte “viziose” a favore della continuità e del consensualismo (con giustificazioni del tipo: si è sempre fatto così, non si può non accontentare un po’ tutti).
Dal punto di vista degli obiettivi e dei principi di policy, la rottura con il passato e le novità stanno già nelle comunicazioni, nelle decisioni e nei regolamenti comunitari approvati a partire dal 1999 in attuazione di Agenda 2000. Dal punto di vista degli strumenti e delle strategie, ovvero delle modalità effettive con le quali obiettivi e principi si traducono in azione, esse non possono che presentare le caratteristiche della flessibilità, dell’adattabilità, dell’aggiustamento in corso d’opera in funzione delle specificità locali, ma anche degli input globali. All’ombra della gerarchia ed entro un disegno di policy generale definito in base a logiche di government – regolamenti comunitari e piano nazionale – si tratta di sviluppare modi formali e informali di governance che, sulla base di una logica non gerarchica, di coordinamento orizzontale, favoriscano lo scambio di risorse fra le diverse parti in gioco, rendano stabili le reti di rapporti fra i molteplici attori, regolino le interdipendenze di questo ambito con diversi altri settori di policy.

Nuove idee

Cork 1996, Agenda 2000 e il concetto di multifunzionalità definiscono le origini temporali, strategiche e concettuali della politica di sviluppo rurale. La Conferenza di Cork sullo sviluppo rurale in Europa, promossa dalla Commissione europea, rappresenta una tappa fondamentale nella ridefinizione degli orientamenti delle politiche sia agricola (dopo la MacSharry del 1992) sia strutturali (dopo il Pacchetto Delors 1994-99). La strategia ivi annunciata conteneva tre idee qualificanti: a) il ruolo polifunzionale delle aree rurali, importanti per la funzione produttiva ma anche per il capitale di risorse naturali, per il potenziamento di attività artigianali e delle Pmi; b) lo sviluppo sostenibile come principio qualificante del ruolo polifunzionale e integrato di tali aree rurali, a delineare un diverso modello non settoriale delle politiche agricole e anche strutturali; c) il potenziamento delle risorse finanziarie da utilizzare su base territoriale e integrata che poteva derivare solamente da una riforma della PAC, ovvero dalla riduzione del sostegno dei prezzi, dal disaccoppiamento e quindi dall’innovazione degli strumenti utilizzati. Tali idee e principi vengono ripresi e meglio specificati in Agenda 2000, laddove la prosecuzione della riforma della PAC e la razionalizzazione dei fondi strutturali portano alla istituzione del secondo pilastro dello sviluppo rurale e all’elaborazione del concetto di multifunzionalità. Con questo concetto si intende caratterizzare il “modello di agricoltura europeo” che, accanto ad una riformata politica dei mercati, attribuisce proprio al secondo pilastro il compito di valorizzare le diversità degli ambienti socio-economici territoriali, di promuovere - a seconda delle potenzialità, delle risorse e dei vincoli endogeni - orientamenti locali diversi, di tipo agro-ambientale, agrituristico, agro-artigianale. Laddove poi vi siano le condizioni per la valorizzazione (anche in senso economico e commerciale) della qualità e della tipicità di produzioni agro-alimentari, anch’esse diventano oggetto delle politiche di sviluppo rurale. L’eco-compatibilità o sostenibilità ambientale della politica è un altro elemento costitutivo e può assumere le forme della riforestazione, dei metodi estensivi, delle buone pratiche di coltivazione e della salute animale.
Si tratta si idee innovative, seppure non nuove, visto che almeno in ambito europeo esse circolano dalla metà degli anni ottanta, trovando ripetute finestre di opportunità per tradursi in politiche, grazie al consolidamento della politica ambientale europea, al rafforzamento della politica di coesione e dei fondi strutturali, alla continuazione del percorso di riforma della PAC avviato nel 1992, proseguito nel 1999, approfondito con la Mid term review del 2003 e confermato con l’Health check nel 2008. Ciò che vi è di innovativo sta infatti ora anche nei modi e negli strumenti con cui tali politiche vengono concepite e disegnate: il principio strategico di integrazione, quello generale della sussidiarietà, quelli della trasversalità per ambiente e coesione vanno a ridefinire i confini settoriali delle politiche, rendono molto meno rigide le divisioni di competenze (e poteri) fra livelli di governo e consentono a nuovi attori di avere accesso al processo politico-decisionale.
E’ una rivoluzione copernicana che ha la dimensione territoriale al suo centro e attorno ad essa fa ruotare gli attori, le strategie e le azioni più adeguate ed efficaci a valorizzarla.

Attori e interessi vecchi e nuovi: comporre e ridefinire governando

Quindi non più solo gli agricoltori, né quelli ancora in attività in aree rurali né quelli giovani in entrata, sono i soli attori rilevanti delle politiche di sviluppo rurale: lo sono infatti e allo stesso titolo gli ambientalisti che, specie a livello locale, hanno la forza per limitare lo sfruttamento delle risorse naturali e per bloccare attività che provochino esternalità negative sul paesaggio.
Lo sono i consumatori che – seppure privi di forti associazioni in Italia – hanno trovato il modo di far sentire la propria voce spostando domanda e scelta d’acquisto su prodotti tradizionali, di qualità, certificati, sicuri; i consumatori lo sono anche, soprattutto dopo la vicenda della Bse, perché hanno come risorsa la minaccia o il rischio di un tracollo dei consumi nell’arco di pochi giorni. Lo sono i turisti e gli operatori dell’agriturismo perché scelgono (chiedono e offrono) luoghi, residenze e attività legate alle risorse del territorio. Lo sono le Pmi e gli altri operatori economici delle zone rurali che nella promozione del territorio e delle loro produzioni di piccola scala trovano garanzia di lavoro e di reddito. Lo sono le comunità locali che hanno poche risorse, ma sufficienti se ben utilizzate, per protestare e bloccare infrastrutture, opere e insediamenti che ai loro occhi sono dannosi. Lo sono ancora le autorità locali, i funzionari pubblici e lo sono ovviamente gli agricoltori medi o piccoli che operano in queste zone e che si trovano nel corso del tempo a dover condividere risorse finanziarie, servizi e aiuti pubblici che tradizionalmente erano destinati soltanto a loro. Le loro resistenze sono facilmente immaginabili, poiché si tratta non solo di dividerli con altri, ma anche di ridefinire la propria identità e i propri ruoli in relazione ad un diverso modo di concepire e promuovere lo sviluppo.
Non è quindi sorprendente che il riorientamento delle risorse verso la politica di sviluppo rurale incontri molte resistenze da parte di alcuni Stati membri, così come di policy maker a livelllo nazionale e locale, di gruppi d’interesse agricoli: continuare con l’impostazione e le pratiche del passato è ovviamente più semplice, come ormai tanta letteratura sulla path dependency e sulla policy legacy ha dimostrato (3); risulta indubbiamente più difficile gestire gli aiuti sulle misure innovative, sui servizi, sulla formazione, piuttosto che su sull’ampliamento di una stalla; la complessità dei controlli spesso si traduce in eccessi burocratici e costi aggiuntivi (Bureau, Mahé 2008). Rimane ancora più facile, seppure in tempi di risorse scarse, accontentare un poco tutti, non essere selettivi sulle iniziative da finanziare, anziché privilegiare la formazione e gli incentivi ai giovani se questi sono numerosi sul territorio e non hanno occupazione.
Per avere delle priorità infatti servono delle ipotesi forti di policy ed è necessario costruire delle coalizioni di attori che le condividano e le sostengano (4). Non è un caso che, nella distribuzione delle risorse fra gli assi e nel conteggio degli impieghi già realizzati, anche per il periodo 2007-2013 prevalgano nettamente le politiche facili, i trasferimenti e i progetti meno innovativi (Dax 2005; Sotte, Camaioni 2008); così come in precedenza si sono maggiormente diffuse le misure ambientali e di rimboschimento, i cui costi amministrativi sono limitati mentre elevati sono i benefici finanziari per gli agricoltori (De Filippis, Storti 2001).
Obiettivi, assi e strategie (programmazione, partnership, valutazione, ecc.) sono frutto di scelte assunte da altri livelli di governo secondo logiche di government e fissano priorità e linee d’azione per i governi regionali e locali (De Filippis, Sotte 2006). La loro traduzione operativa non può che seguire però una logica di governance: il successo e l’insuccesso di queste politiche si misura sulla capacità di coordinamento orizzontale, di scelte negoziate, di priorità condivise, di strumenti di implementazione e controllo efficaci e adeguati alla situazione, differenziati in base ai diversi obiettivi produttivisti e post-produttivisti. Solo un insieme di reti e raccordi formali e informali può tenere insieme una molteplicità di attori che non appartengono al mondo agricolo, ma sono legati a quello che dovrebbe diventare un nuovo domain, quello dello sviluppo rurale.

Quale governance per quale sviluppo rurale?

E’ evidente che non possiamo attenderci l’evoluzione di una politica di sviluppo rurale del tutto omogenea in giro per l’Europa. Diversamente da quanto avvenuto in passato con la PAC e in linea con la definizione di policy affermatasi nell’ultimo decennio da Cork alla Mid term review, in diversi contesti e in presenza di diversi assetti istituzionali, la combinazione di nuovi e vecchi obiettivi, la composizione di strategie e strumenti, il numero. il tipo di attori e di network risulteranno evidentemente differenti nei diversi paesi europei e forse anche nelle diverse regioni. Ovviamente, questo pone un problema di governance a livello comunitario, specie se dovessero aumentare le risorse destinate allo sviluppo rurale: come legittimare l’impegno di risorse comuni crescenti per una politica territorialmente connotata non solo nelle soluzioni, ma anche nelle dinamiche istituzionali e di policy, dove il mix fra pubblico e privato potrebbe spostarsi a favore del secondo, dove il peso del settore agricolo potrebbe nel tempo ridursi a favore del turismo o dell’artigianato?
Per quanto riguarda invece le differenti soluzioni di governance nei contesti nazionali e regionali, possiamo usare una metafora già nota e sottolineare che la governance non deve essere intesa come una ricetta buona per tutti i menù e tutte le stagioni: essa è l’indicazione di un insieme di ingredienti e dei modi di cucinarli per ottenere buone pietanze. Fuori di metafora, i sistemi di governance dello sviluppo rurale dovranno avere connotazioni specifiche, differenziate per aree territoriali, per obiettivi prioritari, per numero e tipo di attori, mentre alcuni tratti comuni dovrebbero essere e rimanere legati alle disposizioni comunitarie. Questo porrà un problema di governance a livello nazionale specie per i paesi come l’Italia, la Spagna e la Germania.
Coordinamento orizzontale, integrazione settoriale e multifunzionalità sono infatti principi generali che vanno già assumendo forma e sostanza in base alle idee e ai ruoli tradizionali che il settore primario ha nell’economia, in base anche ai livelli di governo coinvolti (essenzialmente quello nazionale in paesi come Francia, Olanda e Grecia, quelli regionali e locali in Italia, Germania e Spagna) e agli altri settori economici interessati (artigianato e turismo, ambiente, forestazione). Alcune esperienze in atto ci possono fornire un’idea concreta dei differenti esiti dal punto di vista del modelli di governance. Quello britannico è forse il più significativo dal punto di vista del superamento della settorialità della vecchia politica agricola e del coordinamento orizzontale perseguito a livello nazionale con la ricomposizione nel Department of Environment, Food and Rural Affaires (Defra), mentre la programmazione ad esempio si sviluppa entro quattro macro-regioni (Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda del Nord); in buona parte dei paesi europei, invece, il livello di programmazione resta quello nazionale e continua a far capo al ministero dell’agricoltura (seppure variamente denominato), con l’eccezione di Spagna, Germania, Belgio e Finlandia dove è previsto il coordinamento fra Stato e regioni; in Italia, il totale decentramento delle competenze in materia agricola e rurale a favore delle regioni ha comportato lo spostamento della programmazione a questo livello e la produzione di ben 35 differenti documenti di programmazione (De Filippis e Storti, 2001)5; tali documenti sono comunque nella grande maggioranza dei casi elaborati dagli assessorati per l’agricoltura, quindi mantenendo l’imprinting settoriale delle vecchie politiche agricole; anche il Piano strategico nazionale per lo sviluppo rurale 2007-2013 è stato elaborato dal Ministero per le politiche agricole agro-alimentari e forestali (Mipaaf) ed è sufficiente scorrere l’indice per constatare che anch’esso mantiene pienamente quell’impostazione.
Ovviamente non si vuole affermare che sia sufficiente riorganizzare i ministeri agricoli o attribuire a più assessorati regionali il compito della programmazione per ottenere politiche di sviluppo rurale territorialmente mirate; ma forse sarebbe un primo passo.
Come infatti emerge dalle indagini empiriche sulle scelte privilegiate in termini di assi e di risorse destinate ai diversi tipi d’intervento, prevalgono nettamente, in Italia e in Europa, quelle settoriali, mentre quelle per il territorio e per i settori diversi da agricoltura e agro-industria non superano il 10%; un peso più che rilevante continuano ad avere le misure per l’ambiente, l’imboschimento e le misure di accompagnamento, proprio perché altro non sono che un premio per gli agricoltori (e non certo perché essi siano diventati tutti ambientalisti) (De Filippis e Storti 2001; Mantino 2003; Dax 2005).
L’ampliamento dei confini della politica di sviluppo rurale oltre quelli agricoli, delle questioni oggetto di attenzione, del numero di attori che vi partecipano è un processo in atto; le impalcature di governance che andranno a svilupparsi nei diversi casi saranno determinanti per i suoi esiti.

Note

(1) Facciamo riferimento alle pressioni internazionali dei negoziati Gatt avviati nel 1985 e ai vincoli interni rappresentati dal bilancio comunitario, dai costi delle eccedenze, dai primi scandali alimentari e ambientali.
(2) I riferimenti sono all’avvio dell’Uruguay Round nel 1985, all’approvazione dell’Atto Unico Europeo e ai nuovi titoli V e VII su coesione e ambiente, al Pacchetto Delors I, alle misure di accompagnamento della MacSharry del 1992 e ai regolamenti del 1988 e del 1992 su biologico e denominazioni.
(3) Path dependency e concetto che spiega come le scelte del presente siano condizionate dalle scelte del passato e tendano a seguire un percorso già tracciato o a modificarlo di poco (Pierson 2004), mentre con policy legacy si intendono gli elementi costitutivi di una politica che i decisori ereditano dal passato e che gli interessi sedimentati tenderanno a difendere a spada tratta (Rose, Davies 1994).
(4) Nel corso di questa riflessione abbiamo utilizzato concetti – come finestra di opportunità per policy window, policy domain, coalizioni di attori per advocacy coalition – che fanno parte del linguaggio e dell’approccio degli studi di policy. Per eventuali approfondimenti si rimanda a Capano e Giuliani (1996).
(5) De Filippis e Storti (2001, 22) prendono in considerazione i seguenti programmi: sette Por e rispettivi complementi di programmazione nelle regioni obiettivo 1; sette Psr in obiettivo 1; quattordici Psr fuori obiettivo 1. A questi andrebbero aggiunti, in realtà, i ventuno Piani Leader Regionali e, qualora tutte le regioni optassero per il programma operativo piuttosto che per la sovvenzione globale, altrettanti complementi di programmazione.

Riferimenti bibliografici

  • Bureau J.C. e Mahé L.P. (2008), PAC: encore un effort?, European Review of Agricultural Economics, vol. 32, n. 3, pp. 421-440
  • Capano G. e Giuliani M. (a cura) (1996), Dizionario di politiche pubbliche, Roma NIS
  • Dax T., 2005, The On-going Cap Reform – Incentive for a Shift towards Rural Development Activities?, paper presentato all’EAAE- European Association of Agricultural Economists, Copenhagen, Denmark, August 23-27
  • De Filippis F. e Storti D., 2001, Le politiche di sviluppo rurale nell’Unione Europea: un secondo pilastro tutto da inventare, Working Paper 13/01, dicembre, Roma, Inea
  • De Filippis F., Sotte F. (2006), Realizzare la nuova politica di sviluppo rurale-Linee guida per una buona gestione da qui al 2013, Working paper n. 1, novembre, Forum Internazionale dell’agricoltura e dell’alimentazione. Kasimis C., Stathakis G. (a cura di) (2003), The Reform of the Cap and Rural Development in Southern Europe, London, Ashgate
  • Rose R. e Davies P.L. (1994), Inheritance and Public Policy, London, Yale University Press.
  • Pierson P. (2004), Politics in Time: History, Institutions, and Social Analysis, Princeton, Princeton University Press.
  • Sotte F., Camaioni B. (2008), I temi nell’agenda della politica di sviluppo rurale, intervento a Convegno su La politica di sviluppo rurale. A che punto siamo? - Ancona 21 novembre 2008
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