Le nuove frontiere biotecnologiche della produzione e del consumo della carne

Le nuove frontiere biotecnologiche della produzione e del consumo della carne
a Università di Parma, Dipartimento di Scienze degli Alimenti
b Università di Parma, Dipartimento di Biochimica e Biologia Molecolare

Oggigiorno non esistono in commercio animali o prodotti (carne e latte) ottenuti da animali geneticamente modificati e così sarà ancora per alcuni anni. Se, in campo biomedico, le tecnologie transgeniche applicate agli animali sono molto diffuse, in campo zootecnico questa metodologia è in fase di sperimentazione. La transgenesi applicata agli animali d’allevamento ha come scopo l’aumento della produzione animale in termini di crescita, qualità dei prodotti e resistenza alle patologie, oltre alla creazione di potenziali donatori di organi per trapianto in uomo (xenotrapianti).

Qualche chiarimento sulle tecnologie

E’ necessario innanzitutto distinguere gli animali generati per clonazione dagli animali transgenici. Gli animali transgenici possiedono, infatti, un patrimonio genetico modificato generalmente mediante inserzione di DNA esogeno e vengono, ad esempio, impiegati per la produzione a basso costo di proteine di interesse farmaceutico. Gli animali clonati non contengono nel loro genoma DNA estraneo ma rappresentano una copia di un animale essenzialmente uguale all’originale.
Le metodologie impiegate per la clonazione animale si sono evolute nel tempo a partire dalla fine dell’800. La tecnica più semplice e antica sfrutta l’evento che naturalmente si verifica durante lo sviluppo di gemelli omozigoti e si basa sulla scissione di un embrione nelle prime fasi del suo sviluppo quando le sue cellule sono ancora indifferenziate e quindi in grado di generare un intero organismo (“embryo splitting”). Si ottengono in genere due embrioni che trasferiti in utero originano due individui geneticamente identici.
La tecnica di clonazione oggi invece maggiormente usata è definita “somatic cell nuclear transfer” (SCNT; in italiano, trasferimento del nucleo di cellule somatiche), e consiste nel sostituire il nucleo di una cellula uovo non fecondata con quello estratto da una cellula differenziata ottenuta da un altro individuo. Il nucleo è l’organello cellulare dove è localizzata la maggior parte del DNA e quindi del patrimonio genetico cellulare; le cellule riceventi risultano quindi, a seguito di SCNT, riprogrammate per produrre un nuovo organismo. Dopo alcuni cicli di moltiplicazione condotti in vitro le cellule vengono trasferite nell’utero di un animale adulto. Nel famoso caso della pecora Dolly, in cellule uovo private di nucleo è stato trasferito il DNA di cellule epiteliali di mammella. Delle 277 cellule inizialmente ottenute solo 29 sono sopravvissute ai cicli di moltiplicazione condotti in vitro, e trasferite nell’utero di 13 pecore adulte.
Una sola pecora è riuscita a portare a termine la gravidanza dando alla luce Dolly. Nonostante le percentuali di successo di queste tecniche siano in continuo miglioramento, risultano oggi ancora molto basse.

Le frontiere commerciali e legislative nella clonazione animale

Dal duplice punto di vista della crescita delle applicazioni sperimentali delle moderne biotecnologie all’allevamento (Madan, 2005; Suk e altri, 2007) e della legislazione correlata ci sono, però, parecchie novità. Scopo di questo articolo è fare il punto della situazione e discutere le domande alle quali la ricerca potrebbe essere chiamata a rispondere in tempi non troppo lunghi.
L’argomento risulta particolarmente attuale per la recente pubblicazione della bozza di parere scientifico dell’EFSA in tema di effetti della clonazione animale sulla sicurezza alimentare, sulla salute e sul benessere degli animali. Nel febbraio 2007 la Commissione Europea, attraverso la sua Direzione Generale 24 Salute e Consumatori, ha richiesto all’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) un parere scientifico in merito alle implicazioni della clonazione animale sulla sicurezza alimentare, sulla salute dei cittadini e sul benessere degli animali e dell’ambiente. Allo stesso tempo ha chiesto un parere al Gruppo europeo sull’etica nelle scienze e nelle nuove tecnologie, che si occuperà degli aspetti etici della questione integrando il lavoro dell’EFSA, nel cui mandato non rientrano gli aspetti etici, morali o altrimenti sociali.
L’EFSA, ad oggi, non è ancora pervenuta ad un parere definitivo, ma le conclusioni preliminari, pubblicate il 19 dicembre 2007, suggerivano che sia improbabile che gli alimenti ottenuti da animali clonati o dalla relativa progenie (riferendosi solo alla clonazione di bovini e suini, per i quali esistono sufficienti dati) possano presentare nuovi rischi per la sicurezza alimentare rispetto agli alimenti ottenuti da animali allevati in modo convenzionale. Tuttavia, come l’EFSA stessa precisa, la bozza di parere ammette l’esistenza di elementi di incertezza, in particolare a causa della scarsità di dati, e riconosce l’esistenza di problemi di salute e di benessere per i cloni animali.
Dopo la pubblicazione di questa bozza di parere l’EFSA ha aperto le consultazioni pubbliche tese, in particolare, a raccogliere non solo “opinioni” ma piuttosto dati da considerare per la stesura del parere definitivo. Il 25 febbraio scorso è scaduto il termine per la presentazione delle osservazioni, e a giorni (maggio 2008), si attende la pubblicazione della bozza riveduta del parere. La bozza di parere è scaricabile dal sito istituzionale dell’EFSA accedendo alla pagina delle consultazioni pubbliche concluse o dalla documentazione ([link]). Il processo ad oggi in atto di consultazione tende ad incorporare il parere pubblico nell’analisi del rischio, e a colmare il gap tra percezione del rischio misurato dagli addetti ai lavori e quello realmente percepito dai consumatori e cittadini.
Dolly per cena? Così titola un recente articolo pubblicato nel gennaio 2007 sull’autorevole rivista “Nature Biotechnology” (Suk e altri, 2007). Il dubbio espresso dagli autori, tutti “addetti ai lavori”, è che, considerate le potenzialità commerciali, appena le tecniche di clonazione diventeranno più diffuse e adottate, i prodotti entreranno nella catena alimentare prima che le agenzie pubbliche e il pubblico siano pronti.
Dal punto di vista della sperimentazione della clonazione nell’allevamento da carne, essa viene realizzata sia a livello di istituti di ricerca che da imprese commerciali, in particolare in Stati Uniti, Nuova Zelanda, Australia, Argentina e Cina. Il punto di vista diffuso nel mondo della produzione industriale oltreoceano è che nell’arco di pochi anni, cioè entro il 2015, verranno commercializzati i primi prodotti, latte in primis, poi carne bovina e suina ottenuti da animali clonati. Secondo l’articolo citato, l’impatto economico e sull’ambiente legato alla clonazione animale attraverso l’applicazione della tecnica SCNT appare positivo in quanto tali tecnologie sono atte a ridurre i costi di produzione e il conseguente prezzo al consumatore, l’impatto ambientale complessivo del processo produttivo, grazie a una minor produzione di inquinanti per unità di prodotto, al pari, ricordiamolo, di quanto si diceva con riferimento alle applicazioni delle moderne biotecnologie ai vegetali.
Senza entrare nel dettaglio della complessa legislazione e degli accordi commerciali (definiti in sede WTO o riferiti al Protocollo di Cartagena sulla biodiversità, norme etiche, ecc.) esistenti a livello nazionale, europeo ed internazionale che interessano direttamente il tema della clonazione animale, per la quale rimandiamo alla bibliografia di riferimento (Tallacchini e Terragni, 2004; Suk e altri, 2007), si può ricordare che la sostanziale diversità di approccio tra Unione Europea e Stati Uniti sul tema degli alimenti derivanti da animali clonati potrebbe ricalcare quanto avvenne in tema di alimenti derivati o contenenti organismi geneticamente modificati di origine vegetale. A fronte di un modello statunitense science-based, il modello europeo, basato sul principio di precauzione, si fonda sull’idea di “scienza destinata a finalità pubbliche” (Tallacchini e Terragni, 2004).
La Food & Drug Administration ha pubblicato di recente uno studio complessivo relativo a numerose analisi del rischio, tutte concordi nel dimostrare che “prodotti edibili ottenuti da cloni o loro progenie, normali e sani, non sembrano porre maggiori rischi nel consumo rispetto ad alimenti comparabili ottenuti con animali – bovini e suini – convenzionali” (Suk e altri, 2007). Di fatto, il parere è del tutto analogo a quello espresso dall’EFSA in quanto basato su una letteratura internazionale condivisa da entrambi gli enti.
Per quanto riguarda la commercializzazione, dal 2001 negli Stati Uniti carne e latte ottenuti da animali clonati e loro progenie sono soggetti a una moratoria volontaria imposta dall’USDA. Inoltre, secondo la posizione degli USA, i prodotti derivanti dalla clonazione animale che verranno commercializzati in futuro non dovrebbero essere soggetti a etichettatura obbligatoria.

Chi definisce veramente le frontiere?

Nel caso degli OGM di origine vegetale il dibattito che ha portato all’attuale legislazione europea è stato lungo e permeato di momenti di difficoltà: il contenzioso in atto con gli USA, l’opposizione espressa da molti movimenti di opinione, le resistenze dei consumatori e degli attori della supply chain, primi tra tutti, delle principali insegne della distribuzione alimentare. In effetti, alcuni lavori sottolineano come sia stata proprio la pressione della grande distribuzione a spingere l’Unione Europea alla pubblicazione dell’attuale regolamentazione sull’etichettatura e che il bando dei prodotti derivanti o contenenti OGM dalle linee a private label (PL), nei vari paesi europei, è risultato essere proporzionale al grado di penetrazione della marca privata nel paese, più che all’avversione del consumatore per tali prodotti. Dall’analisi, in parte condivisibile, condotta da Kalaitzandonakes e Bijman (2003), si evince chiaramente che il bando degli OGM dalle private label delle catene della grande distribuzione e le successive strategie di etichettatura volontarie sono riconducibili in larga parte alla necessità di aumentare i volumi dei prodotti a PL per i quali è elevata la marginalità e il potere contrattuale rispetto all’industria alimentare. I prodotti a PL, inoltre, hanno contribuito a creare fedeltà al punto vendita (store loyalty) e un’eventuale contaminazione da prodotti OGM avrebbe potuto creare danni a tutti i prodotti a PL (effetto “cross brand”). In altre parole, la presenza di prodotti a PL contenenti o derivanti OGM avrebbe potuto generare perdita di immagine per tutti i prodotti a marchio proprio, rischio non sopportabile quando si vuole associare all’insegna un livello qualitativo elevato. Adottare una strategia di bando degli OGM, dunque, significava rinforzare l’immagine di qualità e sicurezza dell’insegna sia rispetto ai competitors (altre insegne) che rispetto all’industria alimentare. Si trattò dunque di una semplice scelta strategica. Così il bando poteva essere legato al recente lancio delle linee per i prodotti da agricoltura biologica ed etici: gli alimenti OGM potevano risultare non compatibili con queste innovazioni. Le strategie di rintracciabilità di filiera, messe in atto volontariamente, inoltre, possono essere risultate utili anche in un’ottica di separazione e di conservazione dell’identità (identity preservation).
Più complessa la posizione delle grandi industrie, in particolare multinazionali con sede oltreoceano; queste senza un’adeguata esplicita richiesta da parte dei consumatori e della distribuzione europea, non avrebbero perseguito il bando degli OGM, per il costo di gestione di linee separate, complesso sotto il duplice punto di vista economico ed organizzativo.
In un recente numero della rivista EU Food Law Weekly (AA.VV., 2008) è riportato il parere di alcuni autorevoli rappresentanti della supply chain alimentare europea in tema di alimenti, carne o latte, derivanti da animali clonati.
Il British Retail Consortium (BRC), che rappresenta una potente lobby di distributori anglosassoni, ha già dichiarato di non voler ricevere carne da animali clonati in quanto non desiderata dai consumatori. Così la CIAA (Confederation of European Food and Drink Industries) ha dichiarato che è molto presto per pronunciarsi e che una posizione ufficiale sarà resa nota nel prossimo futuro. L’organizzazione degli agricoltori Copa-Cogeca è risultata la più aperta a futuri sviluppi di tali tecniche per non precludersi potenzialità future.
Dalla parte dei consumatori, invece, attraverso il BEUC, organizzazione europea delle associazioni consumeristiche nazionali, c’è una netta opposizione ad una introduzione degli alimenti derivanti da cloni senza una adeguata informazione, a garanzia del fondamentale diritto del cittadino a conoscere il contenuto degli alimenti.
E’ noto che, tra le innovazioni applicate all’industria alimentare, le moderne biotecnologie, sia in campo vegetale che animale, sono quelle che suscitano più dubbi sui consumatori, come mostrano chiaramente numerose ricerche, sia a livello nazionale che internazionale (per una recente rassegna si veda Lusk e altri, 2004; Novoselova e altri, 2007; Suk e altri, 2007, Mora e Menozzi, 2007). Le ragioni sono complesse e legate ad un ampio spettro di considerazioni: dagli effetti sulla salute, al benessere di piante ed animali in particolare, al rispetto della biodiversità, al mantenimento delle diversità delle culture e delle tradizioni locali, a considerazioni di carattere etico molto più complesse.
Continuando la disamina sopra iniziata, tra le agenzie nazionali per la sicurezza alimentare istituite a livello europeo, la più cauta appare quella francese che, nonostante la sostanziale uguaglianza (digeribilità, proprietà nutrizionali, tossicità, allergenicità) tra alimenti (carne e latte) derivanti da cloni e derivanti da animali convenzionali, dichiara che servirebbero serie di dati riferiti ad almeno due generazioni di cloni per avere un parere “definitivo”. Anche l’Agenzia inglese si aspetta che, dopo le consultazioni lanciate dall’EFSA, la Commissione ridiscuta l’argomento con i governi nazionali.

Conclusioni

Da quanto sopra esposto discendono due considerazioni. La prima è che le nuove frontiere biotecnologiche della produzione e del consumo della carne bovina richiedono modelli di analisi degli effetti percepiti negativi (preoccupazioni) e dei benefici attesi a livello sociale (comprendendo gli effetti sull’ambiente, sulla salute ed etici) con procedure di consultazione pubblica, in corso, a cura dell’EFSA.
Al pari di quanto avvenuto per le biotecnologie vegetali utilizzate in campo alimentare (Barling e altri, 1999), sarà necessario esplorare gli aspetti sociali connessi all’accettazione di animali transgenici e di alimenti derivanti da essi da parte del consumatore. Come un’ampia letteratura insegna, inoltre, il confronto dovrà essere esteso dal livello nazionale a quello europeo e internazionale, comprendendo gli aspetti che caratterizzano i processi di scelta dei consumatori quali fiducia, scelta, bisogni, attenzione per una società sostenibile e rispetto della biodiversità. In particolare andrà garantito il diritto del consumatore a scegliere e il ruolo del pubblico nelle decisioni politiche. Gli strumenti metodologici utili a questi scopi dovranno essere caratterizzati da un approccio multidisciplinare e contenere esplicitamente un’analisi del rischio e dell’impatto sociale.
I metodi da utilizzare potranno essere di tipo quantitativo e qualitativo, tesi ad analizzare il livello di conoscenza che i cittadini hanno di queste tecnologie, la percezione dei benefici e rischi attesi dalla loro applicazione, la richiesta di etichettatura degli alimenti derivanti, la richiesta di regolamentazione della immissione in commercio, la permanenza di catene alimentari “non OGM”, il livello di fiducia del controllo pubblico, la stima degli effetti sull’ambiente e sulla salute pubblica, gli effetti sullo sviluppo socio-economico dei paesi in via di sviluppo (tra i lavori in questo senso ricordiamo Madan, 2005), nonché sulle tradizioni culturali (Xue e Tisdell, 2000).
La seconda è che lo sviluppo (o meno) di nuove frontiere biotecnologiche della produzione e del consumo della carne bovina (o in generale di pesce, latte, ecc.) dipende dalle opinioni e dai comportamenti di tutti gli attori della catena alimentare, dai produttori di input (selezione genetica, mangimi ed integratori, prodotti per la salute e il benessere animale), agli agricoltori e allevatori, ai trasformatori industriali (macellatori e sezionatori), alla distribuzione, fino ad integrare i consumatori (Novoselova e altri, 2007).
Dunque, vanno affrontati a livello di catena l’analisi della distribuzione dei costi e dei benefici legati all’adozione della tecnologia, la qualità e quantità di informazioni condivise e offerte ai consumatori, il rischio di asimmetria informativa tra gli stadi della filiera, ad esempio tra allevatore e trasformatore. Sempre a livello di filiera, inoltre, dovrà essere analizzata la distribuzione dei costi per l’etichettatura e la rintracciabilità che garantiscono, in sintesi, il diritto dei consumatori a scegliere, nell’ipotesi che l’Unione Europea adotti questa posizione, anche se in contrasto con la posizione degli USA.

Riferimenti bibliografici

  • AA.VV. (2008), EU Food Law Weekly, January 11, 2008, AGRA Informa Ltd.
  • Barling D., de Vriend H., Cornelese J.A., Ekstrand B., Hecker E.F.F, Howlett J., Jensen J.H., Lang T., Mayer S., Staer K.B., Top R. (1999), “The social aspects of food biotechnology: a European view”, Environmental Toxicology and Pharmacology, n. 7, pp.85-93.
  • European Food Safety Authority EFSA, [pdf]
  • FAO/WHO (1995), Consultation on Risk Analysis: Report, FAO, Geneva.
  • Lusk J.L., House L.O., Valli C., Jaeger S.R., Moore M., Morrow J.L., Traill W.B. (2004), “Effect of information about benefits of biotechnology on consumer acceptance of genetically modified food: evidence from experimental auctions in the United States, England and France”, European Review of Agricultural Economics, Vol 31(2), pp. 179-204.
  • Kalaitzandonakes N., Bijman J. (2003), “Who is driving biotechnology acceptance?”, Nature biotechnology, vol. 21, pp. 366-369.
  • Madan M.L. (2005), “Animal biotechnology: applications and economic implications in developing countries”, Scientific and Technical Review Office International des Epizooties, vol. 24 (1), pp. 127-139.
  • Mora C., Menozzi D. (2008), “Conoscenza e atteggiamento dei consumatori verso gli alimenti derivanti o contenenti organismi geneticamente modificati”, Rivista di Diritto Alimentare, Anno II, n. 1, pp. 23-27.
  • Novoselova T.A., Meuwissen M.P.M., Huirne R.B.M. (2007), “Adoption of technology in livestock production chains: an integrating framework”, Trends in Food Science e Technology, n.18, pp. 175-188.
  • Suk J., Bruce A., Gertz R., Warkup C., Whitelaw C.B.A., Braun A., Oram C., Rodríguez-Cerezo E., Papatryfon I. (2007), “Dolly for dinner? Assessing commercial and regulatory trends in cloned livestock”, Nature Biotechnology, vol. 25, pp. 47 – 53.
  • Tallacchini M., Terragni F. (2004), Le biotecnologie. Aspetti etici, sociali e ambientali, Bruno Mondadori.
  • Xue D., Tisdell C. (2000), “Safety and socio-economic issues raised by modern biotechnology”. International Journal of Social Economics, v. 27, n.7-8-9-10, pp.699-708.
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Comments

Un aggiornamento.
Secondo un articolo del ''Guardian'' gli alimenti (latte e carne) ottenuti da animali clonati (e dalla loro progenie) sono già commercializzati (al meno) negli Stati Uniti. I numeri parlano, al momento, di poche migliaia di capi, suini e bovini, allevati (6.000 secondo questo articolo). La maggiore resistenza all'applicazione su larga scala di queste tecniche rimane l'accettazione del consumatore, mosso da motivazioni etiche, religiose e morali; in più i costi legati a questa tecnica sono ancora molto elevati (15.000 $ per una bovina; 4.000 $ per una scrofa).
 
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Commento originariamente inviato da 'Davide Menozzi' in data 19/11/2009.