Le carni fresche a denominazione geografica in Europa e in Italia
Nel settore delle carni fresche le denominazioni geografiche, nelle due tipologie della Denominazione di Origine Protetta (DOP) e della Indicazione Geografica Protetta (IGP), sono oggi strumenti utilizzati soltanto da alcuni Paesi, quali la Francia (51 prodotti tutelati), il Portogallo (27), e la Spagna (14). Il panorama delle denominazioni geografiche riguardanti la zootecnia in Italia ad oggi è molto simile invece a Paesi quali il Lussemburgo, l’Irlanda e la Germania: a livello nazionale infatti l’Italia, relativamente alle carni fresche, conta soltanto due denominazioni tutelate ai sensi del reg. UE 510/2006 (Tabella 1).
Tabella 1 - Carni fresche tutelate con DOP, IGP (reg.UE 510/2006) o STG (reg.UE 509/2006)
Fonte: Qualivita 2008
La scarsa diffusione della DOP o della IGP nel settore zootecnico delle carni fresche italiane rispetto ad altri paesi europei dipende in primo luogo dal fatto che nel nostro Paese questi strumenti sono stati intesi principalmente come finalizzati alla valorizzazione di razze autoctone o comunque di razze strettamente legate a particolari contesti produttivi (Gomez Ramoz et al., 2006). Questo aspetto è sicuramente molto importante, anche se non fondamentale, per caratterizzare il legame tra prodotto ed origine geografica che sta alla base della protezione ex Reg. CE 510/2006. Infatti in altri Paesi UE il legame tra prodotto e territorio – in special modo nelle IGP – è stato interpretato in maniera meno rigida, attribuendo maggiore importanza anche alla specificità delle tecniche di allevamento e facendo un maggiore ricorso alla reputazione del prodotto.
A ciò si aggiunga la grande polverizzazione che caratterizza in Italia le strutture di allevamento di razze autoctone,le quali sono spesso dislocate in aree svantaggiate o tali da non permettere un allevamento di tipo intensivo,e che ha rappresentato un ostacolo ancora non del tutto superato alla creazione delle forme aggregative necessarie alla richiesta di tutela comunitaria. La componente più moderna della zootecnia italiana – a differenza di quella, ad esempio, francese – solitamente si appoggia ad allevamenti di razze maggiormente produttive e non provenienti storicamente dal territorio locale.
Ai sopraccitati fattori di ordine strutturale si aggiunge la mancanza di una strategia di valorizzazione della carne a livello nazionale, perseguita invece ad esempio in Francia in particolare sulle carni avicole (32 delle quali tutelate da DOP o IGP – Tabella 2), affiancando il logo europeo al rinomato marchio nazionale “Label Rouge”.
Tabella 2 - Numero di DOP e IGP su Carni fresche per specie
Fonte: Qualivita 2008
Si deve inoltre sottolineare che il legame delle carni fresche con il territorio di allevamento è riconosciuto dal consumatore abitualmente attraverso la razza, che di per sé non può essere oggetto di tutela comunitaria con DOP o IGP e questo vincolo può costituire un ostacolo per la politica di valorizzazione attraverso questi segni. Infine si tratta di un prodotto il cui relativamente basso livello di elaborazione/trasformazione non consente di operare agevolmente delle differenziazioni agli occhi del consumatore per il quale, anche in virtù dei più o meno recenti scandali, la food safety e la tracciabilità appaiono oggi fattori decisivi nell’orientare le scelte (Federici, Rama, 2008).
Ad oggi in Italia soltanto il Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale (IGP) e l’Agnello di Sardegna (IGP) hanno ottenuto la protezione comunitaria. Si tratta di prodotti dalla connotazione di nicchia, che hanno una incidenza sul valore della produzione nazionale dei rispettivi comparti molto ridotta, stimabile per il Vitellone Bianco IGP in alcune frazioni di punto percentuale e per l’Agnello di Sardegna IGP in poco più dell’1% del consumo del valore della produzione nazionale delle carni ovicaprine.
Entrambi i prodotti IGP coprono un areale di produzione molto vasto: il Vitellone IGP si estende dalla provincia di Prato a quella di Avellino, mentre l’Agnello IGP comprende l’intero territorio regionale sardo. L’ampiezza del territorio di produzione assume tuttavia carattere differente per i due prodotti: la denominazione Agnello di Sardegna è fortemente legata ad un’area produttiva che evoca una tradizione di allevamento ovino millenaria e ancora oggi molto attiva; il Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale caratterizza invece il suo legame con l’areale di allevamento mediante la specificazione delle tre razze tutelate dalla IGP – Chianina, Marchigiana e Romagnola – che riportano alla mente più chiaramente il territorio da cui provengono.
Il Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale IGP
I vitelloni certificati con la IGP Vitellone Bianco dell'Appennino Centrale sono soggetti di pura razza Chianina, Romagnola e Marchigiana, nati e allevati nelle aziende sottoposte ai controlli per le verifiche del rispetto del disciplinare di produzione e rientranti nell'areale a Indicazione Geografica. Il disciplinare di produzione dell'IGP Vitellone Bianco dell'Appennino Centrale prevede che i vitelli siano allattati dalle madri fino allo svezzamento che avviene, normalmente, a cinque/sei mesi di età e, successivamente, la base alimentare sia rappresentata da foraggi freschi o conservati provenienti da coltivazioni erbacee tipiche della zona di allevamento. La macellazione è effettuata esclusivamente tra i 12 e 24 mesi di età nei centri autorizzati situati all'interno della zona di produzione (Petrini, 2008).
La richiesta della IGP è stata stimolata dal rinnovato interesse da parte delle imprese distributive più moderne e di maggiori dimensioni (di seguito, “moderna distribuzione”) nei confronti dei bovini maggiormente radicati nel territorio dell’Appennino centrale (le razze chianina, marchigiana e romagnola): l’iniziativa che ha portato alla richiesta e all’ottenimento della IGP nel 1998 è stata promossa dal Consorzio produttori Carne Bovina pregiata delle razze Italiane (CCBI), mentre attualmente la protezione da abusi e contraffazioni della denominazione e le attività di promozione e valorizzazione del prodotto IGP sono svolte dal Consorzio di Tutela del Vitellone Bianco dell'Appennino Centrale, fondato nel 2003 e riconosciuto nel 2004, che supporta l’attività del 3A – Parco Tecnologico Agroalimentare dell’Umbria nello svolgimento dell’attività di controllo.
L’adesione al circuito della IGP per gli allevatori di bovini delle tre razze autoctone ha rappresentato un’opportunità per differenziare agli occhi del consumatore le caratteristiche qualitative del prodotto e sfuggire alla concorrenza basata sul prezzo – sulla quale un allevamento italiano incontra serie difficoltà a competere per la concorrenza esercitata dai bovini provenienti da Paesi dotati di allevamenti di tipo intensivo e con manodopera a basso costo (Ventura e Milone, 2000). Grazie al rispetto di un disciplinare di produzione, inoltre, l’IGP si è dimostrata per gli allevatori di questa razza una condicio sine qua non per adire agli scaffali della moderna distribuzione, interessata ad una carne proveniente dal territorio locale ma garantita da una certificazione e dal rispetto di un disciplinare di produzione, tanto da assorbire oltre il 60% dei capi certificati immessi sul mercato (Belletti et al, 2007). Gli allevatori di bovini di razza chianina, marchigiana e romagnola certificata IGP possono così spuntare sul mercato un prezzo superiore del 20% rispetto a quello di un bovino non autoctono né certificato (Belletti et al., 2007).
Questa opportunità è stata colta da un numero crescente di allevamenti, che sono aumentati di quasi un migliaio di unità nell’arco degli ultimi tre anni, raggiungendo nel 2008 circa 2.850 strutture certificate. La presenza di un numero progressivo di richieste di adesione al circuito IGP ha portato il Consorzio del Vitellone Bianco a richiedere un ampliamento dell’areale produttivo del 3 – 4% della superficie precedente per includere nella IGP allevamenti di altre province (Caserta, Latina, Roma e Pistoia).
A fianco di una crescita del numero di adesioni al circuito IGP si denota anche un progressivo incremento del numero di capi certificati (12.175 nel 2006) – che rappresenta però soltanto il 5% del totale dei capi potenzialmente certificabili all’interno del territorio. Questa crescita è affiancata da un lento sviluppo della dimensione media aziendale, che permane comunque estremamente ridotta (circa 7 o 8 capi per azienda).
Durante questi ultimi anni si è inoltre assistito ad un processo di specializzazione delle strutture della filiera: alla classica azienda dedicata alla linea vacca – vitello si sta lentamente sostituendo l’allevamento specializzato nelle fattrici, i cui vitelli sono poi destinati a piccoli centri di solo ingrasso (circa 100 – 200 capi per struttura). Un limite ancora non del tutto risolto, dunque, per questo prodotto IGP è rappresentato dalla polverizzazione delle strutture di allevamento e dell’intera filiera sul territorio di produzione (Marescotti, 2005), che incontrano delle difficoltà nell’aggregazione dell’offerta.
Tra le difficoltà lamentate dagli allevatori aderenti alla IGP si annovera anche la scarsa disponibilità di mattatoi sul territorio, rendendo gravoso il trasporto del bestiame vivo da parte di ogni allevatore.
Anche per far fronte a questo problema, in alcune regioni sono state allestite, in collaborazione con le APA locali, delle strutture (cooperative di commercializzazione o piattaforme locali di raccolta) per raccogliere i bovini vivi e trasportarli in un unico luogo di macellazione, in modo da abbattere i costi di trasporto del bestiame che – per le dimensioni spesso ridottissime degli allevamenti – rappresentano una grossa difficoltà. Permane tuttavia il problema delle fasi successive alla macellazione (sezionamento delle carcasse e lavorazione o confezionamento), per lo svolgimento delle quali ancora le strutture di macellazione si rivelano inadeguate e insufficienti.
A fianco dell’attività del Consorzio di tutela è sorta inoltre a fine 2007 una cooperativa di commercializzazione che – grazie al vincolo di conferimento dei capi da parte degli allevatori partecipanti – permette alle imprese di allevamento di rapportarsi con maggior sicurezza e regolarità nella fornitura e con maggior potere contrattuale verso la moderna distribuzione.
L’Agnello di Sardegna IGP
L’area destinata all’allevamento dell’Agnello di Sardegna IGP comprende tutto il territorio della regione Sardegna: questo prodotto è ottenuto esclusivamente da pecore di razza sarda allevate in purezza o mediante incroci di prima generazione con razze da carne (in particolare Île de France e Berrchon du Cher) altamente specializzate e sperimentate per i tipi “leggero” e “da taglio” (Qualivita, 2008).
L’amplissimo territorio sardo è caratterizzato da una notevole polverizzazione della filiera ovina, nella quale operano quasi 16.000 allevamenti con una media di 350 capi ad azienda.
Il disciplinare di produzione dell’Agnello di Sardegna IGP rispecchia le tipologie ed i metodi di allevamento già presenti e radicati nel territorio sardo, dunque l’adesione al circuito certificato da parte degli allevatori non si rivela dispendiosa, neppure nel sostenimento dei costi di certificazione, che non raggiungono gli 80 euro all’anno (anche grazie alla partecipazione pubblica nell’attuale organismo di controllo di questa IGP e ad una normativa regionale che prevede l’abbattimento fino al 100% del primo anno dei costi diretti di certificazione).
La presenza di strutture di macellazione sul territorio è ritenuta adeguata, e queste svolgono spesso anche la funzione di centro di raccolta – grossista, rapportandosi a loro volta con un intermediario che fornisce i capi ovini, raccogliendoli dai singoli allevamenti. All’interno della filiera certificata dunque agiscono numerose figure che la caratterizzano e di molti passaggi acquisto–vendita, dove ogni allevatore tratta singolarmente con l’intermediario: questa struttura di filiera relega l’allevatore in una perenne posizione di svantaggio contrattuale, attualmente non supportata dalla presenza di una Organizzazione dei Produttori.
Il prezzo con cui viene commercializzato l’Agnello IGP nella moderna distribuzione (presso cui è destinato il 62% dei capi certificati) si rivela molto instabile (variabile da 4,40 a 1,90 euro/kg) secondo il periodo: tale instabilità è dovuta anche alla stagionalità della domanda, che mal si raccorda con una produzione e immissione sul mercato difficilmente modificabili dati i tipi di allevamento e di strutture del territorio: grazie al logo europeo tuttavia gli allevatori hanno finora beneficiato di una media di 25 centesimi in più al chilogrammo rispetto al prodotto “convenzionale”, anche se il beneficio di prezzo non si configura come la motivazione principale che spinge gli allevatori all’adesione al circuito IGP.
Il problema di gran lunga maggiore per lo sviluppo del circuito dell’Agnello di Sardegna IGP si configura quindi nella scarsa aggregazione dell’offerta commerciale da parte degli allevatori: per risolvere in parte questo limite il Consorzio di Tutela IGP Agnello di Sardegna – che ha inoltrato e ottenuto la protezione comunitaria definitiva per questo prodotto nel 2001 – cerca di incentivare la stipulazione di accordi con alcune grosse cooperative lattiero-casearie che già si occupano di formaggi locali, per raccogliere le carni certificate e favorirne la commercializzazione.
L’adesione al circuito della IGP da parte degli allevatori di Agnello di Sardegna, quindi, rappresenta non tanto un’opportunità di breve periodo e strettamente legata al prezzo spuntabile sul mercato, quanto una condizione che potrebbe garantire la sopravvivenza stessa della filiera in un futuro prossimo, in un mercato ormai globalizzato e dominato dai bassi prezzi delle carni prodotte da animali provenienti da allevamenti intensivi e di razze caratterizzate da un’alta resa alla macellazione. La costituzione di una massa critica sufficiente a garantire potere contrattuale e stabilità di fornitura e di prezzo agli allevatori rappresenta però per questa filiera una condizione ancora da raggiungere per permettere alla IGP di svolgere appieno la sua funzione di valorizzazione e protezione del prodotto.
Quali funzioni per le denominazioni geografiche?
L’ingresso delle carni nel campo delle denominazioni geografiche ha avuto una importanza simbolica per il comparto, in quanto testimonia che anche questo prodotto, spesso anonimo e difficilmente identificabile, può diventare un prodotto di eccellenza legato ai saper fare degli allevatori che, se riconosciuto da una clientela di conoscitori, può consentire di conservare il patrimonio formato da una razza e dal suo territorio di origine.
Le performance di una denominazione geografica per il settore zootecnico legato alle carni fresche dipendono però in larga parte dalla struttura peculiare della filiera del prodotto tutelato. In generale la qualificazione legata all’origine nel comparto delle carni è ostacolata da fattori inerenti il prodotto in quanto tale, che fanno sì che le qualità organolettiche varino molto anche in dipendenza della natura dei vari tagli e delle modalità di sezionamento e cottura, mentre altri sono legati alla grande complessità della filiera (varietà e complessità dei modi di organizzazione, relazione, apprezzamento dei parametri qualitativi del prodotto) e al debole peso degli allevatori (Béranger et al, 2005).
Nel caso delle carni bovine la subfiliera dell’allevamento più legata alle razze autoctone risente di carenze strutturali (come la frammentazione della struttura di allevamento, la scarsità di mattatoi e di imprese che svolgono servizi differenziati) che si riflettono lungo tutto il processo di valorizzazione del prodotto e che difficilmente possono essere risolte soltanto mediante una denominazione geografica, la quale può però creare alcune condizioni più favorevoli nei confronti delle grandi imprese con cui si rapportano (in particolare con le imprese della moderna distribuzione). Ciò non solo grazie al fatto di rappresentare uno standard di riferimento per gli allevatori e di offrire una garanzia del rispetto del disciplinare che appare particolarmente importante nei canali lunghi, ma anche in quanto può contribuire a creare (come sta accadendo nel caso della IGP del Vitellone bianco) le condizioni per una maggiore aggregazione degli allevatori, finalizzata alla realizzazione di una politica di promozione e allo svolgimento coordinato di funzioni di preparazione alla vendita e di commercializzazione.
Nel comparto ovino si rileva in particolare una carenza di strutture di aggregazione che permettano ai singoli allevatori un confronto “alla pari” con i numerosi interlocutori della filiera; tuttavia va segnalato, nonostante questa posizione di svantaggio, che il prezzo spuntato dall’Agnello IGP risulta comunque maggiore (anche se forse non ancora totalmente soddisfacente per gli allevatori, in parte consistente ancora restii ad aderire al circuito certificato).
La strategia di differenziazione in base all’origine del prodotto che sta alla base di entrambe le Indicazioni Geografiche analizzate diviene comunque una scelta obbligata per poter competere sui mercati attuali, dove la concorrenza in base al prezzo è divenuta ormai estremamente serrata, e dove invece origine, tracciabilità, food safety, certificazioni di qualità sono oggi le leve per competere.
La funzione organizzativa e promozionale svolta dai rispettivi Consorzi di tutela, inoltre, permette di dare ai prodotti stessi una visibilità ed un’immagine unica – nonostante l’ampiezza del territorio a Indicazione Geografica Protetta di entrambi i prodotti - che crea un terreno fertile per le attuali e le future iniziative commerciali collettive.
In termini generali tuttavia, le denominazioni geografiche per conseguire risultati soddisfacenti necessitano di un’organizzazione collettiva e strutturata non soltanto a livello promozionale, ma orientata anche all’aggregazione dell’offerta e alla contrattazione collettiva: questa necessità si rivela impellente soprattutto nel caso in cui si tratti di filiere estremamente polverizzate come quella delle carni fresche in Italia.
Sarebbe interessante valutare le possibilità di sviluppo di DOP e IGP in contesti produttivi più moderni, come quelli della zootecnia bovina in alcune aree del nord-est, scollegando (almeno in parte) questi strumenti dalla valorizzazione delle razze autoctone di maggior pregio, e utilizzandole per la qualificazione del prodotto sulla base di specifiche tecniche di allevamento e di alimentazione per godere così della reputazione di cui alcune aree produttive possono godere presso i consumatori. In questi contesti si può ipotizzare che fino ad oggi la scarsa presenza di efficaci forme di organizzazione economica degli allevatori, le strategie dei grandi gruppi integrati a monte e a valle della fase di allevamento (mangimistica e macellazione-sezionamento), la grande diffusione del ristallo di capi e le strategie delle grandi imprese distributive interessate a promuovere propri standard qualitativi siano tra le determinanti del mancato utilizzo delle denominazioni geografiche, unitamente a una filosofia di fondo che ha orientato le decisioni delle autorità preposte all’iter di riconoscimento delle DOP e IGP e alla maggiore accessibilità dei marchi collettivi.
Una più incisiva azione organizzativa, unitamente al supporto dell’operatore pubblico, potrebbe consentire una estensione dello strumento delle denominazioni geografiche anche nel nostro Paese. Allo stesso tempo andrebbe attentamente valutato il rischio di cannibalizzazione sulle DOP e IGP legate alle razze autoctone fortemente legate al proprio territorio di origine che si verrebbe a determinare in caso di impiego di questi strumenti per prodotti meno legati alle specificità territoriali e al patrimonio zootecnico locale. L’utilizzo dello strumento della DOP per il primo tipo e quello della IGP per il secondo tipo potrebbe essere una risposta a questo rischio di confusione.
Riferimenti bibliografici
- Belletti G., Burgassi T., Marescotti A., Scaramuzzi S. (2007), “The effects of certification costs on the success of a PDO/PGI”, in: Theuvsen L., Spiller A., Peupert M., Jahn G. (Eds), “Quality Management in Food Chains”, Wageningen Academic Publishers, Wageningen, pp. 107-123. ISBN-13: 978-90-76998-90-9 (paper presentato al 92nd EAAE Seminar, Quality Management and Quality Assurance in Food Chains, University of Göttingen - Germany, 2-4 march, 2005).
- Belletti G., Marescotti A. (2007), “Costi e benefici delle denominazioni geografiche (DOP e IGP)”, Agriregionieuropa, anno 3, numero 8, marzo.
- Béranger C., Casabianca F., de Fontguyon G., Micol D., Trift N. (2005), “L’élaboration des viandes bovines d’origine et de leurs filières” Colloque international INRA-INAO de restitution des travaux de recherche sur les Indications Géographiques Produits d’origine: enjeux et acquis scientifiques 17 et 18 Novembre, Paris.
- Federici C., Rama D. (A cura di) (2008), “Il mercato della carne bovina. Rapporto 2007”, ISMEA-Osservatorio Latte. Franco Angeli, Milano.
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- Marescotti A. (2005), “La filiera della zootecnia bovina”, in: IRPET, “Analisi del 5° Censimento Generale dell'Agricoltura del 2000. Tra ambiente e mercato: aziende agricole, persone e territorio”, Regione Toscana, Settore Statistica, Speciale Censimenti, n.5, pp.132-157.
- Petrini A. (2008), “L'unico Igp per le carni bovine”, Agricoltura Italiana On Line, 3 Aprile 2008 [link].
- Qualivita (2008) “Atlante Qualivita. I prodotti agroalimentare italiani DOP IGP STG”, Protagon Editore, Siena.
- Ventura F., Milone P. (2000), “Theory and practice of Multi-product farms: farm butcheries in Umbria”, Sociologia Ruralis, 40(4), October pp.453-465.