Introduzione
Fin dagli ultimi decenni del secolo scorso, a fronte di una continua decrescita in termini di imprese e di numero di addetti nel settore agricolo, la letteratura sociologica internazionale ha cercato di approfondire le implicazioni sociali e culturali del cambiamento nelle campagne mettendo in luce l’insieme di nuovi valori che la campagna esprime in contrapposizione al mondo urbanizzato (Barberis, 2000; Barberis, 2009): in particolare, con i termini neocontadinismo (Marsden, 1995) e neoruralismo contadino (Van Der Ploeg, 2009) si fa riferimento a concetti quali la produzione e riproduzione in autonomia, alla ricerca delle radici territoriali, alla ricostruzione dei legami comunitari e al recupero della centralità della produzione agricola, valorizzandone anche il carattere di pluriattività. In tal senso, inoltre, viene proposta una valorizzazione dei sistemi di conoscenze locali e regionali, attraverso la capacità di creare reti di alleanze tra produttori, consumatori e attori locali riuscendo a determinare anche le condizioni di mercato. Senza entrare nel dettaglio della letteratura di riferimento, Corti (2007) ne mette in luce anche l’aspetto edonistico, per cui il rurale viene inteso nella dimensione estetica ed esperienziale. A quest’approccio si contrappone una visione produttivistica standardizzata e sempre più meccanizzata, che non valorizza la cultura e le identità rurali, dove al contrario prevalgono i saperi esperti nella trasmissione delle conoscenze.
Lo studio di caso1 che verrà illustrato di seguito cerca di cogliere alcuni aspetti legati al neoruralismo contadino nel territorio della provincia di Belluno. I fenomeni osservati nella provincia di Belluno non esulano da quanto precedentemente descritto: infatti, si possono osservare alcune dinamiche che comportano diverse forme di valorizzazione e riscoperta del territorio, pur con le peculiarità e specificità che caratterizzano le diverse zone della provincia. L’obiettivo dell’analisi effettuata è quello di mettere in luce i cambiamenti negli atteggiamenti e nel valore attribuito al lavoro agricolo in un contesto, che vede nella valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti un potenziale di sviluppo economico.
Le riflessioni che vengono qui sviluppate sono frutto di una ricerca esplorativa realizzata sul tema del ritorno alla terra e realizzata sul territorio attraverso una serie di interviste in profondità, che hanno cercato di indagare alcuni punti di vista del fenomeno nel bellunese2. Altre informazioni provengono da fonti statistiche ufficiali, quali Infocamere e i Censimenti nazionali dell’Agricoltura.
Contesto di riferimento ed evoluzione dell’agricoltura in provincia di Belluno
La provincia di Belluno, collocata nella parte settentrionale della regione Veneto, è composta da 69 comuni distribuiti su una superficie di 3.678,02 Kmq. Essa presenta un territorio tipicamente montano, pur caratterizzandosi per due zone ben definite: da un lato una fascia a sud con peculiarità pedemontane (altimetrie relativamente basse, vallate ampie, superfici pianeggianti o collinari abbastanza estese e climi più miti), dall’altra le zone più a nord caratterizzate da strette valli alpine con ripidi pendii.
La provincia di Belluno si è contraddistinta fino a tutti gli anni sessanta per un’economia povera, basata sostanzialmente sull’alpeggio e con una forte vocazione agricola. In seguito, il territorio provinciale diviene protagonista dello sviluppo industriale iniziato a livello nazionale già nell’immediato dopoguerra. Dal punto di vista sociale, ciò ha comportato una drastica diminuzione dell’emigrazione della popolazione locale3, l’aumento del reddito pro-capite e una crescita complessiva dell'occupazione. In particolare, l’industria dell’occhiale e la manifatturiera sono stati i settori trainanti dal punto di vista economico (Marini, Oliva, 2003): tale sviluppo ha permesso sul lungo periodo la tenuta della provincia dal punto di vista socio-demografico, anche se non ha impedito lo spopolamento dei comuni più marginali, l’invecchiamento della popolazione (più alto della media nazionale e regionale) e la mancanza di ricambio generazionale. Certamente questo è un primo aspetto rilevante anche in connessione all’evoluzione delle attività agricole nella provincia di Belluno: infatti, la scarsa redditività garantita dal settore primario ha portato nel tempo all’abbandono progressivo dei campi per le nuove attività industriali, pur permanendo ancor oggi la tradizione dell’orto familiare.
Per quanto riguarda nello specifico le attività agricole, analogamente a quanto accaduto a livello nazionale, il territorio ha visto nel corso degli anni una forte contrazione sia della superficie agricola utilizzata, sia delle imprese. Tali tendenze di lungo periodo sono chiaramente visibili confrontando, ad esempio, i diversi Censimenti dell’agricoltura: tra il 1982 e il 2010 la superficie agricola totale diminuisce del 50,3%, mentre le imprese agricole perdono l’83,7% della consistenza iniziale. È significativo evidenziare come tali dati siano più negativi sia rispetto all’andamento dell’intera regione Veneto, sia rispetto alle limitrofe province montane di Trento e Bolzano (Tabella 1 e Tabella 2). In particolare si è assistito ad un abbandono quasi completo delle attività agricole nelle zone altimetriche più alte (sopra gli 800 metri di quota). Si sottolinea, inoltre, come anche la superficie agricola utilizzata (Tabella 3) sia diminuita, a causa del costante avanzare dei boschi, che comporta un aumento del costo pubblico per il mantenimento del territorio.
Tabella 1 - Numero di aziende agricole nelle Province autonome di Trento e Bolzano, in Veneto e in Provincia di Belluno
Fonte: Istat. Censimenti generali dell’Agricoltura
Tabella 2 - Superficie agricola totale (Sat) nelle Province autonome di Trento e Bolzano, in Veneto e in Provincia di Belluno
Fonte: Istat. Censimenti generali dell’Agricoltura
Tabella 3 - Superficie agricola utilizzata (Sau) nelle Province autonome di Trento e Bolzano, in Veneto e in Provincia di Belluno
Fonte: Istat. Censimenti generali dell’Agricoltura
Al contempo, diminuiscono gli attivi in agricoltura, che passano dal 54% del 1951 al 2,1% del 2011, le tipologie d’impresa, i tipi di allevamento e le colture praticate (Cason, 2011). L’allontanamento dall’agricoltura, conseguenza dell’attrazione esercitata dal settore manifatturiero e dello spopolamento, ha comportato inoltre l’accentuarsi del fenomeno del frazionamento delle proprietà. In particolare, la frammentazione dei terreni suddivisi tra molteplici proprietari rende complesso ed economicamente oneroso l’acquisizione o l’affitto degli stessi da parte di chi è interessato alla loro lavorazione. Inoltre, la conformazione orografica di molti terreni –specie nella parte alta della provincia- non facilita la meccanizzazione, favorendo al contempo l’abbandono della coltivazione.
Da un punto di vista storico, l’agricoltura del territorio tipicamente montana e di sussistenza si caratterizzava fino all’immediato dopoguerra per la produzione di svariati prodotti tra i quali si citano diverse qualità di patate, fave, fagiolo, mais, lino, canapa, orzo, avena e segale; nella fascia pedemontana, inoltre, si trovava una buona produzione di frutteti e, in misura minore, di vigneti (vite americana). Per quanto riguarda l’allevamento, vi era una prevalenza di bovini (in particolare di grigie alpine nella parte bassa della provincia e brune alpine nella parte alta), ma anche una discreta produzione di ovini, di caprini e suini. Nel corso del secondo dopoguerra, le necessità di incrementare le quantità delle produzioni per rispondere alle esigenze del mercato, nonché l’adeguamento a nuovi standard normativi e di qualità hanno contribuito allo sviluppo anche nei territori montani di produzioni maggiormente intensive, pur non raggiungendo le quantità della pianura veneta. Da un lato si è assistito al già citato abbandono delle imprese agricole nelle zone con maggiori altimetrie, dall’altra nei territori più bassi la varietà colturale è stata in gran parte sostituita da produzioni legate alla filiera lattiero casearia (prevalentemente mais e foraggio), che diviene preminente sia in termini di fatturato sia in termini di numero e rilevanza delle imprese. Ciò è dovuto alla sempre maggiore rilevanza assunta dalle latterie cooperative. Queste hanno una lunga tradizione nel territorio: infatti, la prima latteria cooperativa “turnaria” d’Italia fu fondata a Canale d’Agordo –comune della provincia di Belluno- nel 1872. La latteria turnaria presente anticamente in molti paesi, era una sorta di consorzio del latte presso cui gli allevatori conferivano quotidianamente il latte affinché venisse lavorato “a turno” in un’unica struttura, ottenendo in questo modo una riduzione dei costi di produzione ed un maggior guadagno (Boni C., 1927). Con lo sviluppo economico, alcune di queste realtà estesero la base sociale della cooperativa raggiungendo anche in un caso, pur mantenendo la forma cooperativa, dimensioni industriali e fungendo da traino per l’intero settore agricolo provinciale. Ciò nonostante, il numero di bovini è dimezzato (da fonte Unioncamere e dati Ccia, 52.600 bovini allevati - di cui vacche 29.800- nel 1965 a 25.304 - di cui vacche 10.396 - nel 2006) (Provincia di Belluno, 2007). Diverso invece è l’andamento di suini e ovi-caprini, che dopo una riduzione durata fino agli anni novanta, a partire dal 2000 denotano una certa vivacità (nel 2006 si contavano 10.898 ovini, 3.073 caprini e 21.110 suini), anche a seguito della promozione di specificità locali quali l’Agnello dell’Alpago o la pecora di Lamon (Provincia di Belluno, 2007).
Le diverse vie del ritorno alla terra in Provincia di Belluno
Se fino ad ora sono state descritte dinamiche prevalentemente negative, per quanto concerne l’attività agricola nella provincia di Belluno, oggi si assiste ad un lento ma significativo ritorno alla terra da molteplici punti di vista: si nota, infatti, un ringiovanimento degli imprenditori agricoli sia per il passaggio generazionale nell’ambito di aziende già insediate nel territorio, sia per la ricerca di attività alternative al lavoro in fabbrica, oppure di neo-rurali provenienti dalla pianura, che aspirano ad una vita in un ambiente ancora largamente intatto con caratteristiche di salubrità elevate, nonché infine di persone che sempre maggiormente si dedicano alla coltivazione di orti famigliari (anche nella formula degli orti condivisi).
In particolare, osservando le dinamiche relative agli ultimi anni si evidenzia una certa vivacità per quanto riguarda il numero di imprese agricole: infatti, secondo Coldiretti, tra il 2008 al 2012, si sono insediati nel bellunese 175 nuovi agricoltori. Inoltre, se paragonata con le altre provincie venete e con il resto d’Italia, l’incidenza delle imprese giovanili in agricoltura è rilevante: secondo i dati Infocamere il numero di imprese giovanili del settore è intorno all’11% sia nel 2011 sia nel 2012, mentre nella regione Veneto si assesta al 4% e in Italia al 7% (Tabella 4). Sempre secondo i dati Infocamere, esse costituiscono, inoltre, il 15,7% tra tutte le imprese giovanili della provincia (1.469). Infine, anche le domande presentate tra il 2008 e il 2011 sulla misura 112 del Piano di Sviluppo Rurale del Veneto finalizzata al ricambio generazionale e a valorizzare le capacità imprenditoriali dei giovani agricoltori testimoniano una certa vitalità: sono state, infatti, 129, il 37,1% di tutte le istanze presentate per i territori montani, così come definiti nel Piano di Sviluppo Rurale della Regione Veneto.
Tabella 4 - Incidenza imprese giovanili nel settore economico Agricoltura e servizi connessi
Fonte: elaborazione Infocamere
Nell’ambito di questo quadro, i giovani agricoltori intervistati hanno una provenienza mista: sono sia locali sia originari della pianura, avendo però un qualche legame pregresso con il territorio derivato da origini familiari - che talvolta comportano la presenza di proprietà a disposizione e non utilizzate - o da contatti e conoscenze precedentemente acquisite rispetto alle potenzialità di alcune specifiche zone. Al di là di questi elementi di obiettiva vicinanza alla terra, tuttavia, si evidenzia una forte motivazione personale. Nella maggioranza dei casi la formazione non è specifica, ma al contrario alquanto variegata. Tra i titoli studio ci sono il diploma di geometra, ragioniere e perfino di un ingegnere idraulico: in tutti questi casi le conoscenze acquisite sono state riconvertite. Inoltre, tutti gli intervistati, pur avendo una forte passione nella cura degli animali e nell’attività con la terra, precedentemente avevano svolto altre attività che tuttavia non risultavano gratificanti. Oltre a ciò, al lavoro agricolo spesso associano uno stile di vita più sano, a contatto con l’ambiente naturale: “le mie entrate sono diminuite drasticamente, ma la mia vita è cambiata in meglio. Rispetto a prima quando lavoravo in fabbrica ho grosse soddisfazioni, faccio e produco qualcosa di mio … produrre cibo è bellissimo” (Agricoltrice biologica da 7 anni, 40 anni). Molto forte, infatti, è il desiderio di impegnarsi in un lavoro che contribuisca al mantenimento del territorio e alla sua rivitalizzazione: “ho iniziato per gioco, perché ho ereditato la terra, ma in fondo sono stato mosso comunque da una grande passione per l’agricoltura, e dal desiderio di percorrere un altro cammino nella vita, un’altra strada più vicina all’ambiente” (Agricoltore biologico da 9 anni, 40 anni) “Oggi l’agricoltore è il custode dell’ambiente, viene rispettato per la scelta coraggiosa e perché mantiene il territorio. Prova di questo è il fatto che spesso agricoltura si unisce a turismo, didattica, vendita diretta (agriturismo, fattoria didattica, spaccio in azienda)…come per mostrare quello che si fa per il territorio, il legame tra agricoltura e turismo e commercio serve per valorizzare il territorio” (Agricoltrice da 5 anni, 41 anni). In quest’ultima citazione, inoltre, emerge un altro aspetto che viene evidenziato sia dagli imprenditori agricoli intervistati sia dai rappresentanti degli attori locali, ovvero la necessità di muoversi verso una diversificazione delle attività aziendali per il mantenimento dell’agricoltura nei territori montani, che vengono spesso interpretate come l’offerta di un prodotto che costituisce un’esperienza complessa con molte valenze simboliche quali la genuinità, il presidio del territorio, l’aspetto educativo. Un secondo elemento che viene messo in luce dagli agricoltori intervistati è la necessità di fare rete per ridurre i costi, migliorare la gestione delle attività e lo scambio di informazioni sia tecniche sia di tipo amministrativo, sulla scorta di quanto avviene per alcune cooperative di produttori agricoli in altri contesti italiani. Infatti, a parte il caso delle latterie turnarie, sul territorio bellunese non vi sono esempi in tal senso, anche se recentemente si è costituita un’associazione di produttori biologici che si spinge in questa direzione. La necessità di cooperare è dovuta certamente anche alla dimensione unipersonale delle aziende prese in considerazione, anche se nella realtà alle spalle spesso vi sono famiglie che sostengono attivamente la scelta di vita effettuata, specie nel caso in cui l’imprenditore agricolo è di genere femminile. Solo in alcuni casi per sopperire al bisogno di manodopera vi è il ricorso ad alcuni lavoranti stagionali. La famiglia quindi non solo contribuisce attivamente al lavoro agricolo, ma in alcuni casi essa completa il ciclo distributivo delle produzioni: infatti, in due casi la nuova impresa agricola viene sostenuta da preesistenti attività nel campo della distribuzione (ortofrutta e negozio biologico).
Fino ad ora si è accennato alle motivazioni personali che hanno portato le persone intervistate all’impegno in un’impresa agricola: tuttavia, accanto a queste, vi sono anche alcune motivazioni di contesto rilevanti. In particolare, come precedentemente evidenziato nel territorio bellunese nel corso del secondo dopoguerra le attività e la superficie agricola utilizzata sono drasticamente dimunite causando l’abbandono di molti terreni. Secondariamente, i terreni agricoli hanno mantenuto dei prezzi contenuti specie se confrontati con quelli delle limitrofe province di Treviso e di Trento. Ciò ha reso più facile l’accesso alla terra o l’ampliamento delle superfici agricole aziendali, attraverso l’acquisto della proprietà o l’affitto. Tuttavia, l’estrema frammentazione dei terreni crea non poche problematiche in tal senso. Una delle dinamiche più interessanti evidenziate da questo punto di vista è collegata con una seconda via di ritorno alla terra evidenziata sul territorio. Proprio i terreni liberi e i prezzi più bassi rendono il territorio bellunese (e in particolare per la sua parte pedemontana) attrattivo anche per investitori provenienti da fuori provincia: infatti, si sono recentemente insediati alcuni produttori di mele e viticoltori provenienti delle limitrofe province di Treviso e di Trento, in cui il valore dei terreni è molto elevato in virtù della forte vocazione alla produzione vitivinicola e dei meleti. In particolare, per quanto riguarda i primi, attualmente il bellunese rientra tra le provincie di produzione del prosecco Doc (è, infatti, del 2012 la prima produzione di uva di varietà Glera in un comune della Valbelluna da parte di un’azienda agricola trevigiana), che attualmente può essere prodotto solo da produttori trevigiani che sono in possesso dei diritti di impianto. Nel secondo caso, si registra la presenza di diversi meleti, impiantati da imprenditori provenienti dal Trentino Alto Adige. Se da un lato queste produzioni contribuiscono a diversificare i prodotti agricoli del territorio, fungendo anche da stimolo per gli agricoltori locali, dall’altro si caratterizzano per una produzione abbastanza intensiva. Inoltre, le maggiori risorse economiche a disposizione di questi imprenditori permettono di acquistare i terreni migliori e più appetibili, in quanto meno frammentati e con condizioni climatiche e geomorfologiche migliori, spiazzando i locali che non sempre hanno le risorse per competere. Una dinamica analoga si osserva nella parte alta della montagna per quanto concerne lo sfalcio dei prati e viene ben esemplificata da un intervistato: “Vengono a sfalciare dalla Pusteria, sono quelli che hanno grosse stalle, o gente che fa lo sfalcio di mestiere. Per fortuna ci sono loro, se no nessuno lo fa. Secondo me a Belluno nessuno arriverebbe a segare tutto quello che sega la Pusteria. Non ci sono allevamenti così grandi e interessati al fieno in alta montagna” (Agricoltore da 7 anni, 31 anni).
Un ultimo aspetto che vale la pena evidenziare è come in molti casi i nuovi agricoltori intervistati non mirino solo alla produzione di colture tradizionali (mais, prati da fieno, pascoli), ma anche all’introduzione di prodotti riscoperti (orzo, piccoli frutti, piante officinali, caprini). Inoltre, sempre più viene prestata attenzione a processi innovativi o di qualità, quali quelli legati ai marchi di certificazione e garanzia (consorzi di tutela certificazioni locali, produzioni biologiche). Accanto a ciò, sono cresciute le iniziative che valorizzano l’aspetto sociale dell’agricoltura, che vedono le aziende agricole, ma anche gli orti, come luoghi di coesione sociale, di attività didattiche e di attrazione turistica. In particolare è significativa l’attività di informazione e condivisione di buone pratiche del gruppo informale Coltivare Condividendo nel Feltrino, che propone tra le sue finalità la riscoperta e lo scambio degli antichi semi con una finalità divulgativa, richiamando nei propri momenti informativi diverse migliaia di persone di diversa provenienza interessate sia per la produzione all’interno del proprio orto famigliare sia per l’introduzione di nuovi prodotti nella propria azienda agricola.
Considerazioni conclusive
Il quadro fino ad ora descritto presenta alcuni aspetti positivi di ritorno all’agricoltura e di una maggiore attenzione al lavoro agricolo nella provincia di Belluno. Si tratta di elementi qualitativi, che non invertono certamente una tendenza all’abbandono più che decennale. Le realtà analizzate hanno, inoltre, una dimensione micro, molto vicina all’autoproduzione; tuttavia contribuiscono al mantenimento e alla valorizzazione del territorio partendo dalle specificità locali, inserendo la produzione agricola anche nella filiera turistica. In quest’operazione giocano un ruolo rilevante anche attori istituzionali quali l’Istituto Agrario presente in provincia, l’Ente Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi e il Museo Etnografico di Serravella, che promuovono progetti per valorizzare la “biodiversità coltivata”. Si tratta quindi di una produzione agricola collocata in una dimensione comunitaria attraverso l’acquisto diretto dal produttore e “l’intreccio con gli operatori degli altri settori economici (servizi, artigianato, turismo), con le istituzioni culturali e le amministrazioni locali nel quadro delle attività di promozione territoriale in cui l’immagine e la funzione di volano del paesaggio, delle produzioni di eccellenza, delle razze autoctone assumono un ruolo di centralità” (Corti, 2007, pag. 181).
Riferimenti bibliografici
-
Barberis C. (2000), Sociologia Rurale, ed. Agricole, Inea, Roma
-
Barberis C., a cura, (2010), La rivincita delle campagne: Ruritalia, Donzelli, Roma
-
Boni C. (1927), Agordo e il suo burro, Cattedra ambulante di Agricoltura per la Provincia di Belluno, Premiate Officine Grafiche C. Ferrarini, Venezia (Riedizione anastatica 2010, stampata da Castaldi-Agordo)
-
Cason D. (2011), Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità, in Atti del 47° Corso, Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali, Pubblicazione del Corso di Cultura in Ecologia, Università degli Studi di Padova, Dipartimento Territorio e Sistemi Agroforestali Provincia di Belluno (2007), Distretto Rurale della Provincia di Belluno. Programma operativo [pdf]
-
Corti M. (2007), Quale neoruralismo?, in L'EcologistItaliano: per custodire la terra, Libreria editrice Fiorentina, n.7 - Agricoltura è disegnare il cielo
-
Marini D., Oliva S., a cura di, (2003), Belluno 2003. Sfide e opportunità per la società e l’economia, in Quaderni Fne - Collana Ricerche, n. 14, Fondazione Nord Est www.fondazionenordest.net
-
Marsden T. (1995), Beyond Agriculture? Regulating the New Rural Spaces, in Journal of Rural Studies, vol. 11 n.3, pp.285-296
-
Van Der Ploeg J. D. (2009), I nuovi contadini: le campagne e le risposte alla globalizzazione, Donzelli, Roma
- 1. Il presente articolo è frutto di un’attività di indagine realizzata da Alice Ben, laureata in Sociologia delle reti territoriali e organizzative presso l’Università degli Studi di Trieste, Valentina De Marchi, antropologa collaboratrice presso la Fondazione Angelini di Belluno, e Chiara Zanetti dottoranda presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Trieste.
- 2. La fase di indagine empirica si è svolta seguendo due percorsi paralleli. Da un lato, sono state realizzate sei interviste a testimoni privilegiati, quali funzionari dell’Avepa, rappresentati dei Gal, delle associazioni di categoria degli agricoltori e un portavoce di un movimento per la valorizzazione delle produzioni agricole locali. Dall’altro lato, sono state ascoltate le storie di vita di una decina di giovani agricoltori (fino ai 40 anni), insediati da meno di dieci anni in imprese prevalentemente unipersonali, su tutto il territorio provinciale.
- 3. Alcuni studi mettono in evidenza come la quota di emigranti sia passata da circa 30.000 partenze nel 1961 a 11.000 nel 1971 (Oliva, Marini, 2003).