Il nuovo scenario competitivo
La recente riforma della PAC approvata nel 2003, che il nostro Paese ha iniziato ad applicare a partire dal 1 gennaio 2005 per quanto concerne il Pagamento Unico Aziendale (PUA), principale elemento innovativo, rappresenta una grande sfida e al tempo stesso un’opportunità per l’agro-alimentare nazionale. Essa è destinata a determinare, di fatto, cambiamenti profondi di contesto competitivo che inevitabilmente imporranno necessarie modificazioni, talvolta anche drastiche, nelle strategie delle aziende agricole, delle filiere, degli stessi territori. L’ineludibilità di queste modificazioni, tuttavia, non dipende dalla natura “coercitiva” degli strumenti di politica introdotti, quanto piuttosto dalla prevedibile evoluzione aziendale e produttiva di riferimento: in altre parole, chi non sarà in grado di adeguarsi, e rapidamente, a questo nuovo contesto competitivo, sarà condannato dal mercato stesso a soccombere, con una rapidità e una intensità che potrebbero essere relativamente “nuove” per questo settore, in passato assai più protetto rispetto a questi eventi.
Il disaccoppiamento dell’aiuto unico aziendale avrà diversi effetti importanti e tra questi: 1) renderà gli agricoltori molto più attenti ai segnali di mercato; 2) porterà presumibilmente ad un’ulteriore accentuazione dell’instabilità (maggiore variabilità) dei prezzi dei prodotti agricoli, con spostamenti relativamente più importanti in entrambe le direzioni; 3) renderà quindi gli imprenditori agricoli più attenti a tutte le possibilità di incremento dei prezzi di vendita dei loro prodotti, anche mediante la risposta a una domanda di qualità sempre più multiforme e complessa.
Ma i cambiamenti della PAC non saranno gli unici ad influenzare le dinamiche del settore: sia pure a fatica, il cosiddetto Doha Development Round, cioè il lungo round negoziale in corso in ambito Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o WTO), appare destinato a portare, prima o poi, ad un nuovo accordo sul commercio internazionale che avrà importanti effetti sull’agricoltura e sull’alimentare. E tra questi effetti si dovrà certamente includere un incremento ulteriore della competizione, specie di prezzo, da parte dei produttori extra-UE anche sul mercato interno dell’UE stessa. In particolare non saranno privi di effetti, specie sui comparti attualmente più protetti da questo punto di vista, le “necessarie” riduzioni (fino all’eliminazione?) delle restituzioni (cioè dei sussidi) all’esportazione, come pure la riduzione delle tariffe sulle importazioni.
Dopo questo eventuale accordo apparirebbe ancor più chiaro di quanto già non sia, come la concorrenza sulle materie prime di origine agricola sia ormai un fatto sicuramente e sempre più intensamente globale.
La centralità dell’impresa
Uno degli aspetti forse meno chiari, almeno per le prevedibili dimensioni del fenomeno, è quello delle “inevitabili” conseguenze sul tessuto produttivo, aziendale e imprenditoriale dell’agricoltura nazionale.
Anzitutto l’introduzione del PUA, misura assai più disaccoppiata di quanto non fosse l’aiuto compensativo per ettaro o per capo a seconda dei casi in vigore fino al 2004, scinde in modo molto più radicale il sostegno dei redditi dall’attività produttiva e imprenditoriale in senso proprio. Fino al 2004, infatti, era pur sempre necessario, per percepire gli aiuti compensativi sui cereali (o sulle altre colture COP), ad esempio, avere a disposizione dei terreni e seminare (quantomeno) alcune specifiche colture. Anche se l’aiuto non era per a collegato al quantitativo effettivamente prodotto di un determinato bene, vi era pur sempre la necessità di svolgere una particolare attività agricola per ottenere il pagamento.
Con l’ultima riforma, invece, è assolutamente chiaro che il PUA è un diritto che, una volta acquisito, può essere esercitato anche solo avendo a disposizione una determinata quantità di terreni, sui quali potrebbe anche non essere esercitata nessuna attività produttiva, fatto salvo il rispetto dei requisiti richiesti obbligatoriamente dalle misure della cosiddetta condizionalità ambientale. In altri termini la “non coltivazione” è ora un’opzione come le altre, assolutamente ammissibile, dal punto di vista formale.
Ciò cambia in modo evidente e significativo le convenienze per gli agricoltori e di conseguenza anche le loro scelte: se in un dato contesto produttivo (appezzamento, azienda, comune, zona altimetrica, regione, ecc. ) non vi sono alternative produttive in grado di portare ad un risultato economico positivo a prescindere dal PUA, d’ora in poi vi potrà essere la risposta della “non-coltivazione”. Solo un margine economico positivo può infatti modificare la convenienza a livello prima di singola azienda e poi, forse, anche di ampi territori.
Questa nuova condizione, unita al probabile andamento assai variabile e tendenzialmente decrescente dei prezzi UE delle principali commodities, potrebbe portare un numero non trascurabile di aziende ad una scelta di sostanziale uscita, di fatto, dall’attività produttiva intesa in senso proprio, e di conseguente disattivazione, almeno parziale, dell’intero sistema agroalimentare: il PUA rappresenterebbe, in questo contesto, una specie di “buona uscita”, per modo di dire, dal settore.
E’ solo se si ragiona in termini di sistema, quindi, che si possono comprendere chiaramente le possibili gravi ricadute negative di queste misure di politica agraria su diversi territori, e non solo su quelli meno produttivi.
E’ pure evidente che un altro fattore potrà giocare in misura non trascurabile su questa dinamica: l’età media dei conduttori delle aziende agricole, la dimensione delle stesse, il grado di formazione degli stessi e la presenza o meno di un successore “giovane” tra i famigliari del conduttore.
Se lo scenario descritto dovesse realizzarsi, la selezione tra le diverse aziende agricole porterebbe ad una chiara identificazione e distinzione di quelle che sono “vere” imprese agricole, e/o che aspirano concretamente ad essere o a diventare tali, da quelle aziende che, per quanto incluse talvolta in rilevazioni di natura statistica, di fatto non svolgono praticamente nessun ruolo significativo né nel sistema produttivo agro-alimentare inteso in senso stretto, né in termini di contributo alla gestione delle risorse naturali e ambientali.
Con la riforma, quindi, la distinzione tra vere e proprie imprese agricole e “altre aziende agricole”, appare destinata ad approfondirsi fortemente e a diventare quanto mai veramente decisiva.
Le strategie competitive e l’impresa
Una delle implicazioni che necessariamente conseguono al rinnovato ruolo e alla rinnovata centralità dell’impresa, anche nel settore agricolo, sarà quella della chiara identificazione delle più utili strategie competitive.
Non basta certamente più, infatti, limitarsi a prestare la pur necessaria attenzione ai processi produttivi nell’intento di raggiungere la maggiore efficienza possibile, ma è anzitutto necessario interrogarsi nuovamente, ed in modo radicale, sulle scelte di fondo dell’attività imprenditoriale: “cosa” produrre, prima ancora di “quanto” produrre e “come” produrre.
E la risposta a questa domanda fondamentale deve essere data solo dopo una attenta e spietata analisi di quelli che, a livello di azienda, di contesto ambientale o di territorio inteso in senso lato, possono essere i veri punti di forza per la specifica produzione, sia che si tratti di beni, che di servizi.
Proprio nelle fasi di grande trasformazione come quella che il nostro sistema agro-alimentare sta attraversando, infatti, è veramente necessario in qualche modo “rifondare” le imprese, rispondere in modo nuovo e attento al nuovo contesto, alle domande radicali sulla direzione dello sviluppo e quindi sia sulle ragioni di crisi di determinati comparti come sulle nuove opportunità per altri comparti.
Per questa analisi può essere particolarmente utile l’approccio sviluppato da Porter relativo alle strategie competitive: un’impresa può competere seguendo una strategia di “leadership dei costi”, o una strategia del tutto diversa centrata sulla differenziazione dei propri prodotti, o, in alternativa, sviluppare una delle due strategie di cui sopra ma rispetto ad un solo segmento di mercato piuttosto che per tutto il mercato.
In sintesi, quindi, le imprese agricole che siano, o aspirino a diventare, veramente tali devono anzitutto reinterpretare la loro attività alla luce del nuovo contesto, alla ricerca della possibilità di perseguire con successo, nel medio e lungo termine, soprattutto nel caso di produzione di materie prime agricole o prodotti scarsamente differenziabili, una strategia di leadership nei costi. Bisogna chiedersi, cioè, se le imprese che operano in questi comparti o settori possano competere sulla base dei costi di produzione (e/o di trasformazioni, quando è il caso), dei loro prodotti, con una concorrenza sempre più globale rispetto alla quale essi sono tendenzialmente sempre meno protetti e difesi.
In alternativa, sia che ci si riferisca a particolari segmenti di mercato che al mercato nella sua ampiezza, si tratta di verificare attentamente se sia possibile definire e percorrere in modo coerente, una strategia competitiva basata sulla differenziazione dei propri prodotti che possa portare al successo commerciale.
Per ragioni diverse, tuttavia, se si escludono casi anche frequenti e significativi ma tendenzialmente limitati come impatto territoriale, tutte le strategie comportano, nel settore agricolo, la necessità, anche se per ragioni diverse, di giungere rapidamente a forme efficaci ed efficienti di coordinamento orizzontale e/o verticale.
Il ruolo delle forme di coordinamento
Per la ragioni appena illustrate, quindi, oggi più che in passato si rivelano quasi sempre indispensabili, ormai, forme di coordinamento orizzontali e/o verticali efficaci ed efficienti. Se la strategia competitiva centrale per l’impresa agricola fa leva sulla leadership dei costi, sarà assolutamente necessario, ad esempio, sviluppare tutte le sinergie possibili con le altre imprese del comparto e del territorio, in particolare, sia dal lato degli acquisti che dal alto dei servizi di commercializzazione, per ridurre i costi, a partire certamente dal contenimento dei prezzi dei prodotti e servizi acquistati, per giungere alla massima efficienza nell’attività di collocazione dei prodotti sul mercato. Non vi sono dubbi circa la necessità, in genere, di raggiungere dimensioni tali, soprattutto mediante forme di coordinamento (e/o efficiente cooperazione) tali da raggiungere dimensioni di scala idonee a contenere il più possibile i prezzi dei fattori di produzione, e a cogliere tutte le opportunità offerte da mercati con soggetti di dimensioni sempre maggiori dal lato della vendita dei prodotti, intesa sia come servizi di commercializzazione, che come logistica.
L’efficienza, non solo aziendale ma a livello di filiera, è una assoluta necessità se si deve competere essenzialmente in base al prezzo, e la cooperazione o le forme contrattuali di coordinamento devono essere chiaramente preordinate al raggiungimento di questa finalità. Senza efficienza e senza dimensioni di scala idonee, la competizione di questo tipo, certamente difficile, è destinata ad essere impossibile.
Certo non bisogna sottovalutare, da questo punto di vista, il ruolo esercitato, nel nostro particolare contesto economico, dal valore d’uso dei terreni agricoli, peraltro assai diverso nei vari territori, nonché l’impatto delle scelte in tema di infrastrutture, investimenti e immobilizzazioni.
Anche una adeguata strategia competitiva basata sulla differenziazione, tuttavia, richiede forti capacità di coordinamento e di cooperazione, sia orizzontale che verticale. Una strategia di questo tipo richiede necessariamente lo sviluppo di adeguate forme di identificazione del prodotto che possono andare dal marchio del produttore al marchio collettivo (si pensi alle DOP e alle IGP) o al marchio della distribuzione, ovvero la private label.
E’ in ogni modo evidente che, anche in questi casi, forme di cooperazione o forte collaborazione sia orizzontale che verticale sono necessarie. Se i marchi sono dei trasformatori o dei distributori, il coordinamento verticale, quantomeno attraverso una adeguata struttura contrattuale, deve essere attentamente sviluppato e valorizzato. In questa attività, inoltre, sia per raggiungere anche in questo caso le dimensioni di scala talvolta necessarie, che per tentare di contrastare il potere contrattuale delle controparti, forme adeguate, magari leggere ma efficaci di coordinamento orizzontale tra produttori sarebbero particolarmente utili.
Nel caso delle produzioni che si avvalgono di marchi collettivi quali le DOP o le IGP, a maggior ragione, forme di collaborazione stretta come pure di coordinamento, ma si direbbe addirittura di stretta cooperazione, sono sempre indispensabili soprattutto per impostare e gestire con successo le fasi a valle della produzione e/o della trasformazione, cioè quelle della commercializzazione. E’ proprio a questo punto, infatti, che ancora oggi troppo spesso si registrano le più gravi carenze strutturali ed operative. Anche in questo caso, la dimensione delle pur importanti imprese di trasformazione, non è quasi mai sufficiente perché l’impresa disponga di risorse sufficienti a gestire con successo e continuità una adeguata politica di confezionamento e vendita, specie sui mercati esteri.
Ancora una volta, sia pure per ragioni e finalità in parte diverse, le dimensioni delle imprese tendono a rappresentare da un lato un punto di forza per il controllo attento della qualità delle produzioni, ma al tempo stesso un punto di debolezza dal punto di vista dello svolgimento della fase a valle che tende a diventare sempre più centrale nella determinazione del successo dell’intera filiera.
Quali politiche a sostegno dell’impresa e del coordinamento
Per le ragioni appena accennate, quindi, appare anzitutto necessario decidere, dal punto di vista politico, quali siano i soggetti economici sui quali si devono concentrare le risorse disponibili per le azioni di politica agraria ancora possibili.
Il rischio di disattivazione dell’attività economica che ruota attorno all’agricoltura potrebbe essere, in assenza di politiche adeguate, particolarmente forte: senza imprese agricole vere non vi sarebbero vere “filiere” produttive, potrebbe essere in sofferenza sia parte dell’industria alimentare che dei fattori di produzione, ma potrebbero anche venir meno sia produzioni di qualità, che attività di servizio, anche di natura ambientale, che solo imprese “vere” e vitali potrebbero essere attrezzate e capaci di dare, se adeguatamente incentivate.
E’ cioè chiaro che senza imprese agricole vere e dinamiche, non solo vi sarebbe drasticamente meno agricoltura, ma anche meno industria alimentare, meno industria dei fattori di produzione, servizi, dinamiche di sviluppo rurale, protezione e valorizzazione dell’ambiente, ecc.
Anche per queste ragioni appare di importanza decisiva lo sfruttamento degli strumenti che la riforma ha messo a disposizione degli Stati membri e delle Regioni, nell’ambito della nuova politica di sviluppo rurale. Questa è l’unica area della PAC, infatti, che consente la necessaria discrezionalità e flessibilità per permettere lo sviluppo di strategie di cooperazione, coordinamento, integrazione a livello delle singole e diverse filiere, con le modalità più idonee, di volta in volta, ad affrontare le criticità proprie dello specifico comparto e/o territorio. La sfida, quindi, si sposta anche a livello di efficacia ed efficienza delle oliiche.
Riferimenti bibliografici
- Canali G. (2004), “Qualità come strategia”, in L’informatore agrario, n. 51, p.7, Verona.
- Fischler F. (2005), “Considerazioni sul futuro della politica agraria europea”, Politica agricola Internazionale, Verona, pp. 7-14.
- Gay G. (project leader) (2004), Riforma della PAC e impatto sul sistema agricolo lombardo, Regione Lombardia, settore agricoltura e IRER Lombardia, Milano.
- Porter M. E. (1993), Il vantaggio competitivo, Edizioni di Comunità, Milano.
- Sotte F., (2006), “Imprese e non-imprese nell’agricoltura italiana”, Politica agricola internazionale, n.1.