Il World Development Report 2008
Il 21 maggio scorso (2008), promosso dall’Associazione Rossi-Doria e dall’Università degli Studi Roma Tre, si è tenuto a Roma un incontro sul World Development Report 2008 (WDR) (The World Bank, 2007). In tale occasione, Alain de Janvry, che insieme a Derek Byerlee ha coordinato il team di ricercatori che ha redatto il rapporto, ne ha presentato diffusamente struttura, finalità e contenuti. Il WDR ha come titolo “Agriculture for Development” ed è interamente dedicato al tema del cruciale contributo che il settore agricolo fornisce allo sviluppo economico, in particolare nei suoi stadi iniziali e soprattutto a favore delle fasce più povere della popolazione.
Quasi in contemporanea alla pubblicazione del WDR, nel 2007, è stato anche pubblicato un rapporto dell’IFPRI (1) (Diao et al., 2007), uno dei più autorevoli centri di ricerca a livello mondiale su questi temi, dal titolo “The role of agriculture in development”. Sebbene il WDR abbia avuto certamente maggiore risonanza anche in virtù di una maggiore ampiezza della trattazione, è certamente interessante notare che questi due autorevoli rapporti, pur non citandosi reciprocamente, sembrano condividere analisi e conclusioni. Sinteticamente, e grossolanamente, si può sostenere che il fondamentale punto di condivisione è la constatazione che il contributo dell’agricoltura nei paesi in via di sviluppo (PVS), o a sviluppo tardivo o sottosviluppati, è stato troppo a lungo sottostimato e trascurato e ciò ha spesso portato a scelte di politica economica che si sono rivelate inefficaci, se non fallimentari.
Questa riacquisita consapevolezza delle centralità dell’agricoltura nello sviluppo può essere spiegata, in parte, con il mutamento di scenario osservato negli ultimi anni. L’emergere prepotente di una questione ambientale globale (il cambiamento climatico), la corsa al rialzo dei prezzi dei prodotti agricoli e il ritorno delle “guerre del pane”, la critica ai processi di internazionalizzazione o globalizzazione fino ad alcuni anni fa considerati comunque virtuosi e, in ogni caso, ineluttabili, il prepotente affacciarsi ad un rapido sviluppo industriale (e terziario) di paesi quali Cina ed India, che vantano oltre un terzo della popolazione mondiale (e quasi un miliardo e mezzo di popolazione agricola), sono tutti processi che hanno rivelato la loro criticità negli ultimi anni, e perfino mesi, e che a vario titolo hanno riportato l’agricoltura al centro.
Ma, forse, c’è anche dell’altro, che riguarda meno i grandi processi di trasformazione globale ed ha più a che fare con l’evolvere di una disciplina, l’economia, e di una sua branca, l’economia agraria, negli ultimi anni. Sembra, infatti, di poter notare come questi due rapporti siano la “punta dell’iceberg” di un più generale ritorno di interesse degli economisti verso alcune tematiche in verità classiche, ovvero il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo economico e, di converso, i cambiamenti strutturali che lo accompagnano, primo tra tutti la trasformazione dell’agricoltura ed il suo declino relativo.
Dopo gli anni d’oro (’50 e ’60) dei contributi fondativi della cosiddetta “economia dello sviluppo” (per tutti, Lewis, 1954) in cui l’agricoltura, in vario modo, risultava al centro dell’analisi, si è assistito ad una progressiva perdita di interesse per il tema nei decenni successivi. L’economia dello sviluppo si è progressivamente spostata verso tematiche che vedono l’agricoltura sempre più al margine, mentre buona parte degli economisti agrari, almeno della parte più sviluppata del pianeta, tra una riforma della PAC, o un Farm Bill, e l’altra, ha pressoché steso una pietra tombale sul tema “agricoltura e sviluppo economico”. Certo, è rimasto l’interesse di un ridotto numero di studiosi per le problematiche del sottosviluppo, in parte si è assistito alla progressiva ridefinizione della tematica nella direzione dello sviluppo rurale, ma la sensazione che si è a lungo avvertita è che questo fosse un tema ormai considerato “vecchio” o comunque di nicchia.
“Vecchio” per tre ragioni. La prima è che l’inquadramento teorico sarebbe ormai datato, dal momento che dopo l’elaborazione degli anni ’50 e ’60 non sembra, almeno nella convinzione di molti, che vi siano stati contributi che abbiano meritato la riapertura di un approfondito dibattito teorico. La seconda, è che dal punto di vista dell’osservazione dei fatti, dell’analisi empirica, è stato ormai detto tanto, e forse tutto; quindi, i processi reali, storici, con cui agricoltura e sviluppo economico si sono reciprocamente accompagnati, sono ben chiari, e sintetizzabili in alcuni “fatti stilizzati”. La terza è che, in ogni caso, si tratta di una questione che non ci riguarda più. Non riguarda l’Italia, non l’UE, né i paesi sviluppati, dal momento che, al di là di teoria e fatti stilizzati, il classico rapporto tra agricoltura e sviluppo economico si è ormai interamente svolto, lasciando un settore primario con un ruolo e soprattutto un peso del tutto diversi e che meritano, quindi, riflessioni di tutt’altro genere. L’opinione di chi scrive è che tutte queste tre convinzioni siano errate o, comunque, offrano una visione parziale della realtà e degli sviluppi della ricerca. Al di là dei contenuti specifici, il WDR, nonché il menzionato rapporto dell’IFPRI, sono oggi di grande interesse proprio perché tornano a proporre come centrali temi a cui molti economisti agrari hanno guardato distrattamente e che, invece, dovrebbero tornare ad essere temi classici (cioè, fondanti) nel dibattito, nell’attività di ricerca e nella formazione degli economisti agrari in tutte le parti del mondo.
Brevemente, cercherò di motivare questo parere.
Il dibattito teorico recente
Non credo si possa oggi sostenere che l’elaborazione teorica sul tema “agricoltura e sviluppo economico” sia rimasta ferma ai contributi classici degli anni ’50 e ’60. Al contrario, nell’ultimo decennio si è registrato una notevole ritorno di interesse soprattutto da parte degli economisti della crescita. E’ pur vero che il debito di queste elaborazioni più recenti verso i classici (Syrquin, 1988; Timmer 2002) rimane notevole; ma va altresì sottolineato che sono diversi gli aspetti di sostanziale novità rispetto all’elaborazione teorica precedente.
Nell’ambito dell’ormai ventennale fioritura dell’elaborazione di nuovi modelli teorici di crescita, nell’ultimo decennio si è anche registrata la crescente produzione di modelli multi-settoriali di equilibrio economico generale, il cui scopo principale è combinare i classici processi di crescita aggregata con l’altrettanto caratteristico cambiamento strutturale, ovvero il mutare del peso e contributo dei vari settori rispetto al dato aggregato. Spesso di notevole complessità formale, questi modelli traggono vantaggio dal fatto che è oggi anche possibile darne un esito computazionale, cioè condurre esperimenti numerici che, pur nella complessità intrinseca, riescono a restituire evidenze chiaramente interpretabili e, soprattutto, a riprodurre andamenti delle variabili aggregate e della composizione settoriale del tutto congrui con l’osservazione storica. Benché ancora lungi dal poter essere empiricamente (ovvero, econometricamente) stimati e validati, quindi, questi modelli rivestono un notevole interesse proprio in virtù della capacità di far emergere, da framework teorici articolati, evidenze plausibili e ricche di implicazioni interpretative rispetto agli andamenti reali.
L’interesse per questo filone di ricerca da parte degli economisti della crescita è testimoniato dalle sedi (riviste) prestigiose in cui questi studi sono stati pubblicati. Il contributo che spesso viene considerato come l’iniziatore di questa linea di indagine è Echeverria (1997). Tale lavoro presenta un modello di crescita a tre settori (agricoltura, industria e servizi), tre beni di consumo (uno per ogni settore), preferenze non-omotetiche dei consumatori rispetto ai tre beni, due fattori di produzione non specifici per settore (capitale e lavoro), diversi livelli di produttività totale dei fattori (TFP) e diversa intensità capitalistica tra i settori, progresso tecnico Hicks-neutrale (2). Da questo modello, l’autrice riesce a generare simulazioni numeriche che riproducono l’andamento storico delle variabili aggregate (crescita di PIL e capitale) e del cambiamento strutturale (mutamento del peso dei settori in termini di occupazione, PIL e quota sui consumi).
Da allora, numerosi altri modelli sono stati pubblicati in riviste prestigiose (tra gli ultimi, per esempio, Ngai e Pissarides, 2007, sull’American Economic Review), di fatto presentando significative varianti rispetto a quel primo contributo in termini di struttura del modello e di ipotesi sottostanti. Non è certo questa la sede per entrare nel merito di questi contributi teorici (3). Certo, però, sono numerosi e diversificati e altri ne vengono continuamente proposti; alcuni di questi, peraltro, da economisti agrari e pubblicati su prestigiose riviste di settore (per tutti, Irz e Roe, 2005). A me sembra che ciò non solo dimostri che il dibattito teorico è tutt’altro che spento. Soprattutto, in realtà, evidenzia una questione sottostante il dibattito teorico ma più centrale per la comprensione della relazione che intercorre tra agricoltura e sviluppo economico. La questione è che, in sostanza, non sembrano esistere incontrovertibili “fatti stilizzati” (cioè, regolarità empiriche) di questa relazione. Sia perché modelli teorici anche molto diversi per assunzioni di base producono effetti aggregati e di cambiamento strutturale del tutto analoghi; sia, soprattutto, perché l’evidenza empirica su questi aspetti non è affatto concorde. Questo è il secondo motivo per cui su questo tema l’attenzione degli economisti agrari dovrebbe tornare ad essere più viva: la ricerca di regolarità empiriche nella relazione tra agricoltura e sviluppo economico.
Fatti stilizzati e questioni aperte
La mancanza di veri fatti stilizzati, a parte il dato incontrovertibile del declino dell’agricoltura come quota di occupazione, PIL e consumo, coinvolge numerosi aspetti. Qui se ne vogliono prendere in considerazione solo alcuni.
Si cominci dal fatto che in molti modelli teorici gli esiti aggregati, nonché il cambiamento strutturale, dipendono dalla differenza esistente tra i settori in termini di livelli e tassi di crescita della TFP (produttività totale dei fattori). Tuttavia, si possono ottenere esiti del tutto analoghi da modelli in cui il tasso di crescita della TFP agricola viene alternativamente considerato superiore o inferiore a quello degli altri settori. Molti autori (Sarris, 2008) sembrano in realtà convinti che vi sia un’evidenza empirica chiara e condivisa circa il fatto che, almeno durante le fasi di iniziale e più intenso sviluppo economico, la crescita della produttività tenda ad essere più intensa in agricoltura rispetto agli altri settori. In realtà, questo dato non è affatto acquisito.
Citando Martin e Mitra (2001), lo stesso WDR (The World Bank, 2007, p. 39) così si esprime: “these findings are not taken to claim generalized superiority in agricultural TFP growth over the past decades, but to refute the notion that agriculture inevitably is a backward sector in this respect” (4). D’altro canto, leggendo con attenzione il lavoro di Martin e Mitra (2001) si nota che, se da un lato gli autori suggeriscono che “agriculture generally has faster TFP growth than manufacturing” (5), è anche vero che secondo i loro risultati tale conclusione vale per molti dei paesi considerati, ma non per tutti. In diversi casi, e tra questi alcuni paesi sviluppati e di un certo rilievo quali USA e la stessa Italia, il tasso di progresso tecnico dell’agricoltura è più basso rispetto alla manifattura.
Greenwood e Seshadri (2005, pp. 1227-1229) riportano dati secolari che indicherebbero una più bassa crescita della TFP in agricoltura negli USA, mentre Dennis e Íşcan (2007, pp. 36-37, 41), sempre per gli USA, indicano un alternarsi di periodi di maggiore crescita della TFP agricola con altri di crescita minore nel corso degli ultimi due secoli. Per il Canada, Echeverria (1998) ottiene tassi di crescita della TFP molto simili per i vari settori. Va poi anche ricordato che nel confronto settoriale spesso si ingenera confusione tra crescita della TFP e livelli della stessa, dal momento che una maggiore crescita della produttività in agricoltura non implica affatto un maggiore livello, potendo essere al contrario il risultato della convergenza tecnologica del settore primario verso la maggiore produttività degli altri settori (catching-up). Se così fosse, la maggiore crescita della TFP agricola non sarebbe che un dato limitato nel tempo, cioè il periodo necessario affinché tale convergenza venga raggiunta.
Analogamente, evidenze empiriche contraddittorie si possono riscontrare rispetto ad un altro aspetto fondamentale nei modelli multisettoriali di crescita. Ci si riferisce alla maggiore o minore intensità capitalistica (capitale per unità del lavoro) del settore agricolo rispetto al resto dell’economia. La diversa intensità capitalistica è motore di trasformazione strutturale durante la crescita economica; ma anche su questo aspetto, modelli teorici che assumono minore intensità di capitale in agricoltura coesistono con altri in cui si assume il contrario, anche se poi finiscono per produrre esiti concordi. Anche per tale questione è difficile individuare una regolarità empirica.
Con riferimento ad un ampio campione di paesi, i risultati di Martin e Mitra indicherebbero una maggiore intensità capitalistica nei settori non agricoli. Basandosi su quanto riportato da Jorgenson et al. (1987), gli stessi Dennis e Íşcan (2007) sostengono che in un lungo arco di tempo, negli USA, una minore intensità capitalistica dell’agricoltura sembra essere prevalente. Al contrario, però, sia per Canada che gli USA, Echeverria (1997, 1998) indica una maggiore intensità di capitale nel settore primario, e lo stesso lo si osserva in Esposti (2007) con riferimento ad un ampio campione di regioni della UE. In questo stesso studio, peraltro, risulta un livello di TFP leggermente inferiore in agricoltura.
Syrquin (1988) conduce un’ampia rassegna di quelli che possono essere considerati i fatti stilizzati del cambiamento strutturale e, quindi, del declino dell’agricoltura. Lo stesso autore sottolinea, però, che con l’eccezione di alcuni fatti apparentemente incontrovertibili (in particolare, la legge di Engel), è molto difficile generalizzare le evidenze empiriche disponibili. Queste sembrano essere poco univoche proprio rispetto ad alcuni aspetti fondamentali del rapporto tra agricoltura e sviluppo economico quali appunto la diversa crescita della produttività ed intensità capitalistica.
Va anche sottolineato che il quadro contraddittorio offerto dalle analisi empiriche disponibili dipende anche dalle diverse assunzioni operate con riguardo ad aspetti centrali ma su cui, di nuovo, non sembra esserci un punto di vista condiviso. Solo per citare alcuni di questi aspetti, si può ricordare che risultano critiche le assunzioni circa il grado ed il tipo di apertura commerciale del paese che si sta considerando, la neutralità o meno del progresso tecnico in agricoltura, se e fino a che punto la presenza della terra quale fattore quasi-specifico dell’agricoltura abbia un ruolo. Tutti aspetti estremamente rilevanti e tra di loro intrinsecamente collegati, su cui non esiste una chiara convergenza di evidenze empiriche.
Proprio su questo fronte di indagine empirica sarebbe perciò opportuno ritornare nel tentativo di chiarire almeno alcuni di questi aspetti. Ma un programma di ricerca che voglia tornare a definire i “fatti stilizzati” del rapporto tra agricoltura e sviluppo economico non può che fondarsi su strumentazioni analitiche ed econometriche adeguate e, soprattutto, su dati di buona qualità. Con questo, in particolare, si intende la necessità di avere, allo stesso tempo, serie storiche sufficientemente lunghe da coprire le diverse tappe del processo di sviluppo economico, nonché campioni cross-sezionali sufficientemente ampi da ammettere l’eterogeneità che questo processo può assumere secondo i momenti storici e le specificità del paese (o della regione). Spesso, però, solo nei paesi sviluppati troviamo ricchezza e accuratezza delle serie storiche sufficienti per soddisfare queste esigenze.
Non solo PVS
Sebbene possa sembrare paradossale, dunque, la ricerca sulla relazione tra agricoltura e sviluppo rimane di attualità anche nei paesi sviluppati proprio perché è su questi che si può interamente e correttamente studiare il fenomeno e, quindi, ricavare indicazioni da poter eventualmente estendere alle realtà in cui il processo è ancora nelle sue fasi iniziali o intermedie. E’ pur vero che molti degli studi empirici su queste tematiche apparsi dalla metà degli anni ’90 hanno prevalentemente riguardato paesi in via di sviluppo (tra i più recenti, Sun et al., 2007). Si tratta, però, di quei pochi paesi in cui esistono serie storiche sufficientemente lunghe e di buona qualità e, comunque, questi lavori analizzano periodi di tempo mai molto ampi e mai relativi all’intero passaggio da economie agricolo-rurali ad economie post-industriali. Inoltre, questi country-studies hanno il limite di non tenere conto della suddetta eterogeneità nelle condizioni specifiche di paesi e territori, e ciò rende difficile la generalizzazione dei risultati.
I dati di paesi già sviluppati non solo coprono periodi molto ampi e l’intero percorso di sviluppo ma, soprattutto, consentono di costruire panel in cui la necessaria eterogeneità può essere ammessa e verificata. Da questo punto di vista, l’Italia è un “laboratorio” estremamente interessante. Il suo più intenso sviluppo industriale è concentrato in un periodo relativamente breve, essendosi prevalentemente espresso dall’immediato secondo dopoguerra in poi. In mezzo secolo, quindi, è possibile analizzare il passaggio da un economia ancora con forti connotati agricoli all’attuale economia post-industriale. Allo stesso tempo, però, ciò può essere investigato tenendo conto della notevole eterogeneità esistente tra i suoi territori (cioè regioni), non solo in termini di grado di sviluppo ma anche di diverso peso e contributo dell’agricoltura allo sviluppo stesso.
Le 20 regioni italiane osservate per il periodo che va dal secondo dopoguerra ad oggi offrono una gamma molto ampia di condizioni: tra la regione più arretrata nel 1950 e la regione più sviluppata nel 2000 possiamo osservare un divario di sviluppo paragonabile a quello che osserviamo oggi tra diverse aree del mondo. L’attuale disponibilità di serie storiche regionali ampie e rigorosamente ricostruite sia in ambito strettamente agricolo (Rizzi e Pierani, 2006) che intersettoriale (Paci e Saba, 1997), consente di investigare a fondo la relazione tra agricoltura e sviluppo economico nell’esperienza storica delle regioni italiane. Per questo il caso italiano è un “laboratorio” interessante su questi temi.
Vi è, dunque, la possibilità di produrre evidenze empiriche del tutto originali, su questioni tuttora aperte, e di portata ben più generale di quanto non possa sembrare considerandolo come un singolo caso nazionale. Ma anche quest’ultimo, in ogni caso, merita maggiore attenzione. Esaurita la fase storica in cui il rapporto agricoltura-sviluppo economico è sembrato centrale, può essere parso logico spostarsi verso altre tematiche. Il contributo del settore agricolo allo sviluppo economico italiano è stato, certo, ampiamente riconosciuto e così pure il progressivo declino del comparto primario nell’economia nazionale. Eppure, una certa fretta nell’archiviare il tema ha fatto in sostanza mancare una vera interpretazione, fondata su rigorose indagini empiriche, dei processi che hanno guidato quel rapporto e delle differenze regionali.
E proprio il WDR può essere un’occasione per tornare a interrogarsi su questi aspetti con riferimento all’esperienza storica italiana nonché di altri paesi sviluppati, in particolare della UE. Alcune delle analisi, e delle conclusioni, lì contenute, infatti, potrebbero essere adeguatamente ripetute al fine di verificarne la validità anche in contesti diversi dai PVS. In particolare, il WDR distingue tre diversi gruppi (tre “mondi”) di paesi proprio in relazione al ruolo dell’agricoltura nello sviluppo e al suo contributo alla riduzione della povertà rurale: i “paesi urbanizzati”, i “paesi in trasformazione”, i “paesi basati sull’agricoltura”. Proprio tra questi ultimi, il WDR riscontra, da un lato, come diversi casi di successo dimostrano la centralità del settore agricolo nel dare impulso alla crescita e nel ridurre povertà e disuguaglianze, ma anche, d’altro canto, come spesso tale ruolo sia stato negletto nelle politiche e nella distribuzione delle risorse, che non hanno saputo adeguatamente accompagnare e favorire tale contributo. E’ possibile giungere alle stesse conclusioni anche rispetto all’esperienza storica italiana e, più in generale europea, del secondo dopoguerra? E’ possibile anche in questo caso, cioè, individuare queste tre diverse tipologie di territori? E che ruolo hanno svolto le politiche settorali (e la PAC in primo luogo)? Provare a rispondere a queste domande non è solo una esigenza che nasce da una doverosa comprensione del passato, ma va intesa anche come importante elemento di interpretazione del presente e delle evoluzioni future, soprattutto per meglio valutare gli squilibri territoriali tuttora esistenti, e talora persino più accentuati che in passato, come causa ed effetto di tali processi di sviluppo.
Note
(1) The International Food Policy Research Institute, con sede a Washington.
(2) Per preferenze non-omotetiche si intendono preferenze per le quali le quote dei tre beni di consumo sul consumo totale variano al variare dei livelli di reddito. Per progresso tecnico Hicks-neutrale si intende un progresso tecnico che, ceteris paribus, non modifica il rapporto di impiego dei due fattori, capitale e lavoro, quindi l’intensità capitalistica.
(3) Greenwood e Seshadri (2005) e Matsuyama (2007) presentano una rassegna dettagliata di questi interessanti sviluppi.
(4) “Questi risultati non vengono interpretati per sostenere una generalizzata superiorità della TFP agricola nei decenni passati, quanto per rifiutare l’idea che l’agricoltura sia inevitabilmente un settore arretrato da questo punto di vista” (traduzione dell’autore).
(5) “L’agricoltura mostra generalmente una più rapida crescita della TFP rispetto alla manifattura” (traduzione dell’autore).
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