Forum sull’Health check e la PAC dopo il 2013 (parte 4)

Forum sull’Health check e la PAC dopo il 2013 (parte 4)
a Università di Bologna, Dipartimento di Economia e Ingegneria Agrarie
b Agenzia Regionale Sviluppo e Innovazione Settore Agricolo Forestale
c Università della Tuscia, Dipartimento di Economia Agroforestale e dell'Ambiente Rurale

Questo articolo collettivo raccoglie una quarta serie di contributi alla riflessione sulle conclusioni dell’Health check e sulle prospettive della Pac per il dopo-2013, introdotta da un articolo di Franco Sotte pubblicato nel numero 15 di Agriregionieuropa (Sotte, 2008). Nei numeri scorsi abbiamo già pubblicato le reazioni di altri autorevoli esperti (Cioffi, Corsi, De Filippis, Frascarelli, Salvatici, Scoppola, Agriregionieuropa, n.16, 2009; Boatto, Brunori, Henke, Mantino, Pupo D’Andrea, Sckokai, Agriregionieuropa, n.17, 2009); (Comegna, Gios, Musotti, Pretolani, Zanni, Fahlbeck, Agriregionieuropa, n. 18, 2009. In questo numero della rivista pubblichiamo le opinioni di altri autorevoli economisti agrari.

Vittorio Gallerani (Università di Bologna)

Una politica di supporto all’agricoltura europea si giustifica in quanto indispensabile per garantirne una significativa presenza nel nostro continente. In un’economia globale, infatti, la competitività di un settore produttivo non può essere affidata solamente al mercato concorrenziale e all’efficienza delle imprese. Nei paesi economicamente sviluppati è indispensabile anche il supporto di un forte sistema-paese in grado di contrapporsi al vantaggio competitivo di cui godono i paesi in via di sviluppo, dovuto al minor costo dei fattori produttivi (in primis del lavoro), spesso a vantaggi strutturali, che agevolano un rapido progresso tecnico e quasi sempre a normative più flessibili per la tutela dei lavoratori dei consumatori e dell’ambiente.
Tanto per fare un esempio, gli allevatori europei devono, lodevolmente, garantire il benessere degli animali, vincolo inesistente e anche difficilmente comprensibile nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Il vantaggio del sistema-paese può essere costruito solamente attraverso adeguate politiche generali e di settore. Credo che questa constatazione, pur nella sua cinica semplicità, riassuma e integri efficacemente tutte le argomentazioni che abitualmente vengono addotte e che sono state ampiamente dibattute nel forum sulla Health check di Agriregionieuropa: diritto di esistenza, visione ruralista, debolezza strutturale, path dependency ecc. Tutte argomentazioni utili per cercare e forse anche per ottenere consenso sulle politiche agricole, ma che poco aggiungono sul piano delle motivazioni (giustificazioni) di una scelta tutta politica, che in estrema sintesi può suonare in questo modo: agricoltura si o agricoltura no in Europa.
Non c’è e non ci può essere alcun modello economico - with without - che sia in grado di valutare a livello globale la convenienza di una qualsiasi politica e pertanto le ragioni del sostegno all’agricoltura non possono che derivare da analisi di tipo sociale, storico, culturale e politico. Molto più articolata è la problematica inerente agli strumenti di intervento da adottare. A questo proposito il requisito fondamentale richiesto è che le politiche agricole non determinino effetti negativi di trasferimento nel breve e nel lungo periodo.
Qui si può fare un lungo elenco: eccessivo peso fiscale sui contribuenti, sperequazioni, impatti ambientali negativi, pericoli per security e safety alimentare ecc. Nella prospettiva dopo il 2013, il punto più controverso, secondo l’opinione più diffusa, è rappresentato dal mantenimento o dal ridimensionamento del Pua. Condivido l’opinione di quanti ritengono che tale provvedimento non possa avere lunga vita proprio per una serie di effetti negativi non sostenibili nel lungo periodo. I requisiti di condizionalità e la prevista regionalizzazione non sono sufficienti a emendare il pagamento unico disaccoppiato da una serie di effetti indesiderati che offendono il principio di equità e non consentono di garantire sia pure livelli minimi di efficienza.
La concentrazione dei sussidi su grandi patrimoni di istituti bancari o di famiglie reali sono segnali delle obiettive difficoltà che si incontrano a differenziare nella realtà l’aiuto a favore degli agricoltori a reddito più basso, a dispetto delle migliori e più oneste intenzioni. Si genera così una serie di sperequazioni che, al di la della loro effettiva rilevanza economica, fomentano nell’opinione pubblica un diffuso sfavore nei confronti della politica agricola tout court. Ma oltre a questo danno di immagine, il pagamento unico, così come è costruito, non fornisce garanzia alcuna che i finanziamenti erogati per tale via siano destinati ad aumentare gli investimenti tecnici nel settore in grado di migliorare l’efficienza dell’agricoltura. Questa destinazione, infatti, è legata alla capacità di attrazione di investimenti derivante da favorevoli prospettive di mercato. Il Pua non fornisce alcun contributo diretto al perseguimento della security e safety alimentare, che pure paiono tra gli obiettivi di politica agraria in grado di suscitare vasto consenso.
Il pagamento unico è, e non può che rimanere, uno strumento transitorio in grado di permettere in maniera non traumatica ai produttori agricoli la transizione dalla politica di sostegno dei prezzi a quella di sostegno dei redditi. Si tratta di una transitorietà durata già troppo a lungo. E’ mia opinione che il primo pilastro, i cui finanziamenti sono pure indispensabili per la sopravvivenza di gran parte dell’agricoltura europea, debba essere ristrutturato. Una possibilità è rappresentata dal riorientamento graduale dei fondi verso la fornitura di servizi diretti agli agricoltori, che evitino effetti distorsivi sul mercato, che sono oggetto di giusta critica da parte degli organismi internazionali.
I servizi offerti agli agricoltori devono essere finalizzati da una parte al miglioramento dell’efficienza delle strutture produttive e dall’altra a qualificare socialmente l’attività agricola. In questa prospettiva l’obiettivo prioritario dovrebbe essere il miglioramento del capitale umano, che ha effetti non solo sulla produttività del settore, ma anche sulla coesione sociale e culturale degli agricoltori e sulla loro qualità della vita.
Una proposta concreta è quella di avviare scuole ad indirizzo agrario fino a livello universitario, dotate di adeguate borse di studio e prestiti d’onore destinati a sollecitare la formazione di una moderna imprenditoria agricola. Naturalmente si tratta di pensare a istituzioni scolastiche di alta qualità in grado di attrarre i giovani, che oggi sono portati a uscire dall’agricoltura ovvero sono scoraggiati ad entrarvi. Per realizzare efficacemente questo obiettivo non sono certamente sufficienti dichiarazioni di principio o la manifestazione di buone intenzioni, ma è necessario disporre di strumenti di valutazione delle scuole (docenti, organizzazione e strutture) e degli studenti (apprendimento) per evitare lo spreco di denaro pubblico.
Altre modalità di intervento per migliorare la qualità della vita per le popolazioni rurali si possono trovare nei servizi sanitari e in quelli della cura dei bambini e dei vecchi. Si tratta in sostanza di trasformare gli insediamenti rurali da luoghi di marginalizzazione a poli di attrazione. La politica dei servizi deve essere completata affiancando a un valido capitale umano adeguate strutture di ricerca e di assistenza tecnica, che rappresentano i motori per promuovere l’innovazione nel settore.
Anche qui l’esperienza italiana, ricca di sprechi quando non anche di malversazioni, dimostra che la spesa pubblica richiede sempre adeguate verifiche e severi controlli. Senza cadere nell’illusione di una realizzazione esente da difetti e problemi, si ritiene che la via dei servizi presenti una impostazione innovativa in grado di sollecitare l’entrata di nuove persone e di nuove imprese in agricoltura piuttosto che conservare l’esistente come di fatto fa il sistema del Pua. E come si sa l’innovazione la fanno le nuove imprese.
Ma la forza del sistema-paese si misura anche e soprattutto dalle infrastrutture (rete stradale rurale, sistemi di scolo, irrigazione, purificazione delle acque) che devono essere efficienti e gratuite e non gravare, come oggi succede, sulle spalle degli agricoltori. Prevedibili sprechi di risorse (acqua) dovute alla loro gratuità si possono evitare mediante opportune e rigide normative. E’ del tutto illusorio pensare che la salvaguardia ambientale possa essere affidata a meri meccanismi di mercato.
Naturalmente i servizi diretti non possono, di per sé, essere in grado di risolvere i problemi dell’agricoltura. Per rendere veramente efficace la politica agricola è necessario mantenere, potenziare e adeguare ai tempi gli interventi volti a sviluppare le organizzazioni di mercato, il credito, le agevolazioni fiscali e le assicurazioni. Si tratta di realizzare obiettivi strategici utilizzando i mezzi più opportuni. Per ottenere risultati concreti sono necessarie non solo buone politiche correttamente implementate, ma anche e soprattutto una partecipazione attiva degli agricoltori con piena assunzione delle loro responsabilità politiche tecniche e imprenditoriali. Poiché non possiamo pensare che l’Europa si faccia carico dei nostri interessi, il futuro dell’agricoltura italiana dopo il 2013 è tutto nelle mani degli agricoltori e delle loro rappresentanze sindacali, politiche e culturali.

Corrado Giacomini (Università di Parma)

Anch’io ringrazio, come chi mi ha preceduto, Franco Sotte per l’invito a partecipare al Forum su temi di grande attualità perché, oltre a chiederci di discutere sull’impatto che l’Health check può avere sull’ultimo periodo di applicazione della riforma Fischler, ci invita a riflettere sul buco nero che è ancora il futuro della Pac dopo il 2013.
Mi ritengo fortunato perché sono stato invitato a intervenire dopo tanti colleghi e ciò mi permette di individuare gli argomenti di fondo su cui si sono soffermati, i punti di contatto e le eventuali divergenze. Posso, quindi, iniziare affermando anch’io, come hanno fatto tutti gli altri, a cominciare da Sotte, che nel dare attuazione all’Health check. la Commissaria Fischer Böel ha bene o male raggiunto il primo obiettivo di dare “una messa a punto” alla riforma del 2003. Mi pare anche, che questo giudizio positivo, ma con riserva, abbia trovato tutti d’accordo sul fatto che l’attuazione dell’Health check. ha inciso soprattutto sul primo pilastro (completamento del disaccoppiamento), mentre sul secondo l’impatto è stato disorganico e più limitato di quanto la stessa Commissaria si ripromettesse (modulazione inferiore all’originaria proposta di Fischler e le cosiddette nuove sfide infilate quasi come appendice).
Per quanto riguarda il secondo obiettivo, cioè quello di dare “un contributo alla discussione sulle future priorità nel campo dell’agricoltura”, mi pare invece che l’Health check non abbia contribuito a fare luce sul futuro della Pac dopo il 2013, come dimostrano gli interventi dei diversi colleghi, e la stessa difficoltà nella quale mi trovo nel pensare anch’io a una possibile prospettiva. A parte qualcuno deciso a tracciare o una soluzione drastica sia pure graduale nel tempo, niente più Pac dopo il 2013 come Comegna, o a ritenere che forse non cambierà nulla o poco come ipotizza Frascarelli, il vero problema su cui tutti si sono impegnati, e mi pare molto correttamente per chi tenta di fare un esercizio di politica economica, è cercare di individuare quali sono le ragioni che restano a giustificazione degli interventi di politica agraria da parte della UE, chiedendosi persino se sono ancora validi gli obiettivi che originariamente il Trattato di Roma aveva fissato.
Ovviamente, per fare delle ipotesi sul futuro della Pac, prima di cercare di individuare le ragioni che dovrebbero esserne la giustificazione, la discussione da parte di tutti si è soffermata sulle innovazioni portate dalla riforma Fischler e sugli impatti dell’Health check, non trascurando di soffermarsi sulle cause che nel nostro Paese hanno provocato una applicazione spesso distorta delle finalità dei due pilastri (responsabilità in questo della governance delle Regioni) oltre che sulla non corretta interpretazione e attuazione di alcuni obiettivi: come la condizionalità e la multifunzionalità.
Se tutti giudicano positivamente, compreso il sottoscritto, la scelta coraggiosa compiuta da Fischler di concludere il cammino avviato da MacSharry con l’introduzione del disaccoppiamento, portato definitivamente a termine dall’Health check, il tema di fondo della discussione è stato il Pua, concludendo nella quasi totalità degli interventi che si tratta di uno strumento non equo e che può ritenersi, a causa anche del non convinto impegno delle Regioni nell’accertare le condizioni per erogarlo, quasi ininfluente sulla condizionalità.
Se è vero, come qualcuno ha scritto, che non si capisce perché la distribuzione secondo il criterio storico dovrebbe essere meno equa di quella forfetizzata attraverso la regionalizzazione, è pure vero che il diritto al Pua, subordinato al rispetto di norme che impongono comportamenti coerenti con la condizionalità, non è stato erogato come corrispettivo a scelte gestionali da parte delle imprese dirette a produrre esternalità positive a vantaggio di tutta la collettività, che potrebbero essere la giustificazione rimasta a sostegno della futura Pac. Se ci pensiamo bene, un Pua forfetizzato, cioè uguale per tutti, sarebbe ancora meno un aiuto diretto al reddito giustificato da comportamenti virtuosi che gli agricoltori sarebbero indotti ad assumere come corrispettivo, perché tali comportamenti inevitabilmente sono diversi da impresa a impresa, da realtà territoriale a realtà territoriale.
O si passa a rapporti contrattuali specifici con le singole aziende e allora il Pua o qualsiasi altro strumento di aiuto alternativo deve essere diverso per azienda, o un Pua forfetizzato, come dovrebbe essere dopo il 2013, se ci sarà ancora, continuerà a restare solo una condizione per obbligare i percipienti, pena la perdita, al rispetto di pratiche colturali obbligatorie, ma ovviamente la sua efficacia dipenderà dal rigore con il quale le Regioni si impegneranno a far rispettare quell’obbligo e finora è generale il giudizio negativo espresso da tutti i colleghi. Se già il Pua storico o forfetizzato non è giudicato efficace ad indirizzare i comportamenti delle aziende verso la condizionalità, credo che possa essere ancora meno efficace a spingere le aziende verso la multifunzionalità, sia intesa come diversificazione delle attività (ad esempio: agriturismo, artigianato, ecc.) sia come scelta gestionale diretta a produrre esternalità positive non remunerate dal mercato (ad esempio: riduzione di impiego di prodotti di sintesi o garanzia della food security).
La multifunzionalità per l’impresa dovrebbe essere, a mio avviso, una alternativa gestionale giustificata dal fatto che la produzione di esternalità positive non pagate dal mercato avrà, comunque, come corrispettivo un beneficio economico e non credo che ciò possa essere rappresentato solo dal versamento del Pua forfetizzato. E’ questa una delle ragioni per le quali la multifunzionalità, salvo che concepita come agriturismo, produzione di prodotti tipici, ecc., non è stata capita nel nostro Paese e non ha avuto successo, tanto più che il Pua su base storica aveva già una giustificazione implicita nella perdita dei pagamenti compensativi.
Se, malgrado la buona volontà delle argomentazioni di Frascarelli, il Pua forfetizzato non può essere considerato uno strumento efficace per indurre le imprese alla condizionalità e alla multifunzionalità, diventerebbe uno strumento sostenuto solo da chi, come ha detto Fabrizio De Filippis, potrebbe essere accusato di avere una posizione vetero-ruralista, giustificata da quella che egli chiama “il valore di esistenza” dell’agricoltura, ma mi sembra troppo poco per collocarlo tra gli strumenti di un’agricoltura che vuole diventare attore degli indirizzi strategici che l’UE ha individuato per il futuro della sua politica economica in: competitività, ambiente ed energia.
Il Pua oggi stenterebbe ad essere giustificato persino come strumento destinato a sostenere il reddito degli agricoltori, perché dopo che l’UE ha raggiunto l’obiettivo della autosufficienza e dell’incremento della produttività, le recenti statistiche, richiamate da Margherita Scoppola e da Sckokai, dimostrerebbero che anche l’obiettivo del sostegno dei redditi agricoli non pare oggi più giustificabile perché, salvo in alcune aree circoscritte, questi avrebbero raggiunto e superato i redditi dei settori extra-agricoli, per cui il Pua rischierebbe di diventare anche un trasferimento non equo al settore agricolo.
Un altro punto comune nei diversi interventi è l’importanza riconosciuta al secondo pilastro, ma contemporaneamente tutti hanno sottolineato che l’applicazione delle misure che lo compongono ha avuto ricadute notevolmente inferiori al previsto e lontane dall’approccio programmatorio, come sarebbe dovuto avvenire attraverso i Prs regionali, tanto che qualcuno ha definito “a menu” la distribuzione degli interventi in base alla domanda dei singoli beneficiari, sottolineando persino come l’incremento della percentuale di modulazione prevista dall’Health check, destinata proprio a trasferire risorse dal primo al secondo pilastro, è stata vista con preoccupazione da molte Regioni.
Da sempre gli economisti agrari hanno espresso la loro preferenza per la politica delle strutture e poi dello sviluppo rurale, nelle quale la prima è stata assorbita e orientata ad obiettivi di maggiore valenza sociale, rispetto alla politica dei prezzi e dei mercati, a causa dell’effetto distorsivo sulla formazione del prezzo che quest’ultima aveva. Tuttavia, sia la vecchia politica delle strutture che la politica di sviluppo rurale non sono riuscite a superare, nella maggioranza dei casi, la distribuzione a pioggia con cui spesso gli interventi sono stati erogati dalle Regioni, quando addirittura i flussi di spesa non sono stati rallentati dall’incapacità amministrativa di alcune.
Parlare negativamente di come la politica di sviluppo rurale, oggi contenuta nel secondo pilastro, è stata applicata in Italia e anche in altri paesi membri, non significa togliere valore a una politica che elimina la separatezza dell’agricoltura e la inserisce a pieno titolo come strumento di sviluppo della società e dell’economia di gran parte del territorio comunitario, con un ruolo particolare nel raggiungimento dei nuovi obiettivi (la protezione dell’ambiente e del territorio, la sicurezza alimentare, l’innalzamento della qualità della vita, ecc) che la società moderna o postmoderna sente fortemente. Se richiamiamo i tre obiettivi che l’UE ha individuato per il futuro della sua politica economica – competitività, ambiente ed energia – la politica di sviluppo rurale è certamente in linea con essi, anche se, in prospettiva futura, è necessario eliminare le difficoltà che ha incontrato la sua applicazione a causa di criteri non conformi con cui è stata realizzata. Se vogliamo vedere il problema soltanto a livello del nostro Paese, la soluzione si allargherebbe alla questione dell’organizzazione dello Stato e della qualità della nostra vita politica, quindi ci troveremmo di fronte a un problema insolubile e certamente di dimensioni superiori a quello che è il tema di discussione del forum promosso da Sotte. Se consideriamo, invece, che il legame esistente tra obiettivi futuri della UE e politica di sviluppo rurale potrebbe rendere quest’ultima una costante della Pac dopo il 2013, merita di soffermarci per cercare di proporre alcune soluzioni che dovrebbero concorrere a migliorarla.
Per prima cosa bisogna essere consapevoli che, se la politica di sviluppo rurale elimina la separatezza dell’agricoltura, non potrà essere applicata soltanto ad integrazione di quella di aiuto al reddito del primo pilastro, sempre che questa continui anche dopo la scadenza del 2013, ma l’approccio programmatorio con cui dovrà essere attuata, che pare una scelta irrinunciabile da parte dell’UE, dovrà tener conto anche delle altre politiche destinate ad intervenire sul territorio rurale, come quella sociale, la politica della convergenza o la stessa politica industriale e dell’occupazione, e contemporaneamente dovrà essere più selettiva nell’orientare gli interventi affinché la competitività non venga confusa con il sociale, disperdendo risorse e riducendo l’efficacia dell’azione.
Per essere più chiari bisogna, a mio avviso, distinguere nel concedere gli interventi tra imprese efficienti, o che possono diventarlo, e unità di produzione che imprese non sono, affinché sia possibile stabilire il costo delle misure destinate all’agricoltura e di quelle che hanno una valenza prevalentemente di carattere sociale proprio per dare attuazione a quella sinergia tra le diverse politiche destinate ad agire sul territorio di cui anche la politica del primo pilastro fa parte, ma di cui il costo non può essere imputato al solo settore agricolo. Il costo della politica non è un problema di poco conto per poter formulare un’ipotesi su quello che potrebbe essere il futuro della Pac, dato che è in discussione la formazione del nuovo budget della UE, per cui è importante chiarire che il mantenere una politica del secondo pilastro avrebbe ricadute che vanno ben al di là delle strutture del settore.
La mia opinione è, quindi, che la politica del secondo pilastro dovrebbe continuare anche dopo il 2013, sia pure rivedendo forse il rapporto tra UE e paesi membri per riconoscere a questi la possibilità di dare un più marcato carattere nazionale alle politiche e alle misure da attuare all’interno di un quadro programmatorio concordato e di cui gli stati membri si rendano responsabili sulla base di monitoraggi che non siano solo il calcolo aritmetico della distanza tra risultati e obiettivi quantitativi, ma l’analisi del rapporto tra cause, anche esogene, ed effetti raggiunti rispetto ad obiettivi attesi di sviluppo economico e sociale.
Se si parla di continuazione del secondo pilastro, è evidente che si dovrebbe ipotizzare anche la continuazione del primo, ma tale prospettiva è forse più incerta.
Tolto di mezzo, a sostegno della continuazione del primo, l’argomento che è uno strumento efficace per indurre le imprese a rispettare la condizionalità e a scegliere la multifunzionalità anche se non remunerata dal mercato, qualcuno ha sostenuto che il primo pilastro, rappresentato fondamentalmente dal Pua, continuerà ad essere necessario perché assicura un aiuto al reddito che può rappresentare il livello minimale per non abbandonare il settore ed evitare così di mettere in pericolo l’obiettivo della sicurezza alimentare europea, che Pretolani chiama con termine appropriato “sovranità alimentare europea”, obiettivo strategico anche in un mondo globalizzato. E’ un argomento con un certo appeal, ma la sicurezza alimentare europea è veramente assicurata dalle imprese che hanno bisogno del Pua per continuare a produrre, che poi sarà forfetizzato e quindi dovrebbe essere eguale per tutti? Le imprese che continueranno ad averne bisogno saranno quelle dove il Pua forfetizzato avrà più il significato di un aiuto sociale, che diretto all’impresa, mentre per le altre, quel 20% delle aziende che nel nostro Paese produce l’80% della Plv, il problema fondamentale è quello di migliorare la loro capacità competitiva attraverso interventi sulle strutture aziendali, sulle infrastrutture (ad esempio intervenendo sull’efficienza delle strutture logistiche) e anche attraverso il miglioramento della concentrazione e dell’organizzazione dell’offerta.
Non mi pare che le misure del primo pilastro, e in particolare un Pua forfetizzato, possano essere uno strumento efficace in questa direzione. Un primo pilastro efficace nella futura Pac lo vedo soprattutto orientato ad intervenire nei casi di crisi grave, capacità che ha dimostrato di non avere proprio nella difficile situazione economica che molti comparti stanno ora vivendo, anche attraverso l’attivazione di strumenti assicurativi per affrontare improvvise e gravi cadute del reddito, una possibilità che è stata fatta intravedere nella fase di stesura del documento dell’Health check a cui però non è seguito nulla di concreto.
Qualcuno ha ricordato anche le misure previste dall’articolo 68 del regolamento n. 73/2009 che fa parte del primo pilastro, ma che potremmo considerare uno strumento ibrido perché ha permesso di riattivare misure accoppiate in alcuni comparti, di intervenire in altri per affrontare situazioni di crisi, di finanziare le assicurazioni per calamità naturali e per incentivare l’introduzione di produzioni di qualità. Misure di questo tipo potrebbero benissimo continuare anche nel 2013 proprio per far fronte a particolari situazioni presenti nei diversi paesi, nell’ottica non di incentivare la rinazionalizzazione della Pac, ma per assicurare la sussidiarietà dell’intervento comunitario rispetto a politiche nazionali compatibili con gli obiettivi che l’UE si è data.

Simone Severini (Università degli Studi della Tuscia, Viterbo)

I contributi del forum partito dall’articolo di Sotte (2008) sembrano tutti concordare su alcuni elementi: vi sarà una riduzione delle risorse pubbliche globalmente destinate al settore agricolo; vi sarà un aumento del peso relativo delle risorse destinate al II pilastro; ciò avverrà a scapito della quota di risorse destinate al I pilastro. Per quanto riguarda il pagamento unico aziendale (Pua) è stato previsto che vi saranno una consistente riduzione delle risorse (riduzione del livello unitario dei pagamenti) e possibili cambiamenti in termini di metodo di calcolo e condizioni di concessione ai beneficiari (Comegna, 2009).
In questo appunto vorrei focalizzare l’attenzione sul tema del futuro del Pua. Questa scelta deriva dalla costatazione che il Pua oggi assorbe un elevato ammontare delle risorse pubbliche inserite nel capitolo di spesa Risorse naturali (70% circa) e che essa, in virtù della path dependency delle scelte di riforma della Pac, sopravvivrà anche dopo il 2013. Tuttavia, è probabile che alcuni cambiamenti ci saranno sia in termini di risorse destinate al Pua, sia in termini di forma in cui esso viene erogato. Due sono gli elementi che supportano questa tesi.
In primo luogo, la prospettiva di una riduzione delle risorse destinate complessivamente a questa politica ha spinto molte componenti del mondo agricolo ad accendere un dibattito sulla possibile revisione (o meglio, riduzione) del numero di beneficiari. In altri termini, la preoccupazione di veder ridurre questa importante “torta” spinge a ripensare al modo in cui essa debba essere divisa.
In secondo luogo, questo dibattito è stato fortemente incentivato dalla pubblicazione del Reg. (CE) n. 73/2009. Infatti, il suo art. 28 recita: “A decorrere dal 2010, gli Stati membri possono stabilire adeguati criteri oggettivi e non discriminatori per garantire che non siano concessi pagamenti diretti a una persona fisica o giuridica: a) le cui attività agricole costituiscano solo una parte irrilevante delle sue attività economiche globali; o b) la cui attività principale o il cui obiettivo sociale non sia l’esercizio di un’attività agricola”.
L’inserimento di questo elemento, pur sotto forma di possibilità affidata agli Stati membri prima della riforma del 2013, suggerisce molto chiaramente quali sono le intenzioni della Commissione in termini di prossima riforma del Pua. Essa appare infatti l’ennesima applicazione della classica strategia in cui si indica, in forma volontaria, una possibilità per far passare il concetto e per vedere se e come gli Stati membri la applicheranno. In altri termini, la Commissione si apre una strada per poter effettuare, questa volta a livello dell’UE, una modifica della ripartizione degli aiuti del Pua tra beneficiari.

Il dibattito sulla ridefinizione dei beneficiari del Pua

Il dibattito a livello nazionale è al momento concorde nel chiedere una riduzione del numero di beneficiari. In tale direzione si sono espressi molto chiaramente il Ministro Zaia, il sottosegretario Buonfiglio, nonché le organizzazioni professionali agricole attraverso le parole, solo per citare alcuni casi, del Presidente della Coldiretti Marini e del presidente dell’Anga Saraceno. Tuttavia, al momento, l’indicazione fornita non ha assunto i connotati di una indicazione operativa, poiché (solo per fermarsi agli interventi istituzionali) è stato affermato che “… I soldi devono andare ai contadini veri” (Zaia) e che è necessario “…. distinguere tra chi è imprenditore agricolo e chi percepisce un contributo agricolo” (Buonfiglio) (Agrisole, 2009; Romeo, 2009).
E’ quindi chiaro che il tema assume estrema rilevanza dal punto di vista operativo cioè della definizione delle politiche, ma anche dal punto di vista concettuale. Infatti esso si ricollega a vari temi già trattati nel forum su “Health check e Pac dopo il 2013”, sia ai temi della natura economica del Pua e a quello della definizione del numero di imprese agricole, temi entrambi affrontati da Franco Sotte (2005 e 2006) proprio su questa rivista.

Le motivazioni del Pua: un richiamo

Il tema della selezione tra chi deve e chi non deve ricevere gli aiuti diretti può essere affrontato stabilendo i criteri con cui effettuare tale selezione, ma la scelta di tali criteri richiede, preventivamente, una definizione delle finalità associabili al Pua. A proposito è chiaro che questo strumento sta assolvendo il compito di “assistenza transitoria al cambiamento”, ma è anche altrettanto vero che la sua presenza e continuazione deve essere giustificata anche da qualche altro elemento. Tra le varie motivazioni generali possono essere citate quelle che lo giustificano come (Scoppola, 2009):
a) remunerazione di servizi pubblici forniti (incluso il benessere degli animali);
b) sostegno dei redditi;
c) incentivo alla qualità e sicurezza degli alimenti;
d) sostegno alla competitività dell’agricoltura europea.
Come già ampiamente ricordato da Sotte (2005) e dai contributi del forum, il Pua non appare uno strumento modellato per raggiungere questi scopi. Un evidente esempio di questo è il fatto che i provvedimenti di politica agraria (tra cui il Pua) non favoriscono, in termini relativi, gli agricoltori delle aree di montagna (Gios, 2009) pur se essi potrebbero risultare i potenziali naturali beneficiari di politiche volte a raggiungere i primi due di questi obiettivi. Né d’altra parte il Pua determina necessariamente un sostegno alla competitività dell’agricoltura europea, visto che i pagamenti ricevuti possono essere utilizzati per qualsiasi finalità anche non connessa ad attività agricole.

I criteri attualmente proposti per la ridefinizione dei beneficiari del Pua

Per questo motivo i criteri con cui è assegnato il Pua devono essere analizzati con attenzione per verificare quelle che, tra le opzioni possibili da qui al 2013, meglio consentono di avvicinarsi a questi (probabilmente contrastanti) obiettivi. Il riferimento all’orizzonte temporale è importante poiché, focalizzando l’attenzione su di un orizzonte di breve periodo, è necessario “basarsi su una valutazione realistica del complesso sistema di obiettivi e vincoli che caratterizzano il processo decisionale comunitario” (Salvatici, 2009). E in quest’ottica, appare utile porre come punto di partenza della discussione i criteri proposti dalle norme che attualmente prevedono la possibilità di non concedere pagamenti diretti a una persona fisica o giuridica:
a) se essi non superano una soglia minima;
b) se le attività agricole svolte costituiscono solo una parte irrilevante delle sue attività economiche globali;
c) se l’attività principale o il suo obiettivo sociale non è l’esercizio di un’attività agricola.
Infatti, è utile verificare se la loro applicazione potrebbe migliorare la finalizzazione del Pua e determinare un miglioramento rispetto alla situazione attuale. Vediamo brevemente ciascuno di questi criteri.

Soglie minime

Il primo aspetto da considerare è se e dove sia auspicabile fissare le soglie minime per l’erogazione degli aiuti diretti. E’ infatti stato evidenziato da Carillo (2009) che il posizionamento di tali soglie a 250 €/azienda contro i 100 €/azienda attuali determinerebbe l’esclusione del 21% degli attuali beneficiari. Tuttavia, a fronte di ciò, il posizionamento della soglia a 250 €/azienda consentirebbe di drenare un ammontare di aiuti estremamente ridotto pari solo all’1,3% degli aiuti erogati a livello nazionale. Questo approccio di selezione non appare affatto mirato a favorire il raggiungimento degli obiettivi di cui si è parlato prima. In particolare tale criterio non è calibrato né in funzione dei benefici ambientali prodotti o alla copertura dei costi necessari per produrli, né in funzione dell’esigenza di sostenere i redditi delle realtà più deboli. L’unica giustificazione economica dell’introduzione delle soglie rimane quella di contrarre i costi amministrativi della gestione del Pua escludendo le realtà in cui il beneficio lordo privato (approssimato dal valore del Pua) risulta inferiore al costo amministrativo della sua gestione ed erogazione. Si noti infatti che il più ampio problema dell’efficienza del Pua potrebbe essere affrontato solo tenendo conto anche dei possibili benefici pubblici ad esso connessi e del costo opportunità legato all’uso delle risorse mobilitate dal Pua in utilizzazioni alternative.

Rilevanza relativa delle attività agricole

Secondo questo criterio, il Pua potrebbe essere non erogato alle persone fisiche o giuridiche le cui attività agricole costituiscono solo una parte irrilevante delle proprie attività economiche globali. Se da una parte l’applicazione di questo criterio non sembra avere alcuna giustificazione in termini di finalizzazione del Pua al raggiungimento degli obiettivi da a) a c), è evidente che ciò potrebbe trovare una giustificazione nell’esigenza di sostenere la competitività dell’agricoltura europea. Infatti, è evidente che il sostegno erogato attraverso il Pua ad una persona fisica o giuridica solo marginalmente impegnata nell’attività agricola probabilmente non sarà impiegato a rafforzare tale attività. Si noti tuttavia che, poiché non esiste alcun vincolo all’uso delle risorse ottenute, non è possibile affermare che sia vero il contrario. Cioè anche una persona le cui attività economiche globali siano in larga parte costituite da attività agricole potrebbe utilizzare queste risorse finanziarie per altri scopi. Non è un caso che questi aiuti siano spesso considerati come una “buonuscita” da utilizzare per sviluppare una diversa attività.
D’altra parte, appare molto interessante verificare se e quanto si vorrà andare avanti con questo criterio per vedere come potrebbero essere trattati i casi di quelle persone fisiche e soprattutto giuridiche in cui l’attività agricola, pur avendo una dimensione economica di tutto rispetto, rappresenta solo una parte molto limitata delle proprie attività economiche. Si pensi, solo a titolo di esempio, ai casi estremi delle aziende agricole che sono di proprietà di grandi società di capitali in cui l’attività agricola rappresenta solo una porzione del tutto trascurabile del portafoglio di attività economiche.

Attività agricola come attività principale

L’applicazione di questo criterio appare in grado di determinare una vera rivoluzione del modo in cui sono distribuiti gli aiuti diretti tra i percettori. E’ infatti evidente che questo criterio potrebbe escludere dall’erogazione buona parte delle imprese non commerciali ma anche molte delle aziende commerciali condotte in part-time. Sotte (2006) ci ha indicato che in Italia le imprese con attività commerciale erano pari solo al 64% circa delle aziende agricole complessivamente censite nell’universo Italia nel 2000; che le imprese iscritte in quella data alla Camere di Commercio erano circa il 42% delle aziende censite; che gli imprenditori agricoli indicati nel censimento della popolazione del 2001 erano addirittura in un numero pari solo al 20% circa delle aziende censite nel 2000.
L’esclusione delle aziende non commerciali appare in netta contraddizione con quanto da anni si afferma in termini di ruolo multifunzionale dell’agricoltura. In quest’ottica si è guardato alle imprese agricole anche come fornitrici di una serie di utili servizi non di mercato che, proprio per questa ragione, non sono commercializzati.
L’esclusione delle imprese part-time non appare giustificabile sulla base degli obiettivi da a) a c) poiché non è stato mai verificato che esse contribuiscano in modo minore al raggiungimento di questi obiettivi rispetto alle aziende full-time. Anzi, ciò appare in netta contraddizione con quanto stanno facendo molte politiche agricole (incluse molte di quelle del II pilastro soprattutto nell’Asse 3) in termini di incentivo a diversificare le fonti del reddito delle famiglie rurali e, quindi, a fare uscire dal settore alcune delle risorse umane precedentemente impiegate in azienda. L’esclusione dal Pua delle persone la cui attività principale o il cui obiettivo sociale non è l’esercizio di un’attività agricola (imprese agricole non professionali) potrebbe invece essere giustificata dall’esigenza di sostenere la competitività dell’agricoltura europea? Si, ma solo assumendo che le aziende professionali possano rispondere meglio delle non professionali alla sfida competitiva. Infatti, solo in questo caso appare utile orientare le risorse verso le prime. Ma sostenere che questa assunzione sia sempre vera richiede di trascurare dei fenomeni importantissimi avvenuti negli ultimi decenni. Si pensi ad esempio a due situazioni ricorrenti. La prima è quella in cui la gestione part-time delle imprese è tale da produrre una remunerazione unitaria delle risorse aziendali più che soddisfacente anche se il complesso dei redditi agricoli non consentirebbe la remunerazione di una unità di lavoro a tempo pieno. La seconda è quella in cui le relazioni territoriali tra imprese (ad esempio, tramite la diffusione dei servizi meccanici in conto terzi o forme di conduzione anche più innovative) si sono strutturate sviluppando un sistema complesso ma competitivo in cui convivono realtà di aziende condotte in forma part-time con realtà di aziende condotte in forma full-time.

Conclusioni

Il dibattito in tema di riduzione del numero di beneficiari del Pua è già iniziato ed è stato stimolato da recenti interventi legislativi europei. Quanto si sta sperimentando a livello dei singoli Stati membri avrà delle ricadute su come il tema sarà trattato in sede di ridefinizione del Pua per il dopo 2013.
Quello che si è cercato di evidenziare in questa nota è che, al momento, il dibattito politico è fortemente condizionato dalla volontà di mantenere un elevato livello unitario del Pua almeno per alcune categorie di attuali beneficiari per ammortizzare l’effetto della probabile contrazione delle risorse destinate a livello europeo a questa politica. Al contrario, non appare ancora emergere un dibattito adeguato a risolvere il problema cruciale di questa politica: modificare il Pua per renderlo più finalizzato al raggiungimento di alcuni degli obiettivi della politica agricola dell’UE e, quindi, più giustificabile. A questo scopo, il dibattito dovrebbe partire prima dalla definizione degli obiettivi che il Pua dovrebbe perseguire per poi procedere alla definizione dei criteri con cui effettuare la selezione dei beneficiari.
Ma, al momento, le cose sembrano andare nel senso contrario e, così facendo, si sta perdendo del tempo prezioso. Infatti, se da una parte non si sta finalizzando l’uso delle risorse ora veicolate dal Pua con un miglioramento di questo strumento, dall’altra non sembrano neanche aumentare le capacità di articolare e sviluppare nel breve periodo forme innovative e più complesse di sostegno come quelle messe in campo dalla nuova politica di sviluppo rurale (Frascarelli, 2009). In questo modo non si aumenta l’efficacia con cui si utilizzano le risorse finanziarie attualmente veicolate dalle politiche agricole. In definitiva, l’incapacità di ripensare agli obiettivi del Pua e al suo, conseguente, adeguamento ad essi, può contribuire al materializzarsi della pessimistica previsione in base alla quale il Pua finirà per essere effettivamente “il piede di porco” con cui destrutturare la Pac (Comegna, 2009).

Riferimenti bibliografici

  • Agrisole (2009), “Già dal 2010 va deciso se escludere i non “professionali””, Agrisole, n. 40, pag. 7.
  • Carillo F. (2009), “L’accordo sull’Health Check della PAC: le soglie minime per gli aiuti diretti”, Agriregionieuropa, Anno 5, n. 17, Giugno.
  • Comegna E. (2009), “Forum sull’Health check e la PAC dopo il 2013 (Parte 3)”, Agriregionieuropa, n. 18, Settembre.
  • Frascarelli A. (2009), “Forum sull’Health check e la PAC dopo il 2013”, Agriregionieuropa, n. 16, Marzo.
  • Gios G. (2009), “Forum sull’Health check e la PAC dopo il 2013 (Parte 2)”, Agriregionieuropa, n. 17, Giugno.
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  • Salvatici L. (2009), “Forum sull’Health check e la PAC dopo il 2013”, Agriregionieuropa, n. 16, Marzo.
  • Scoppola M. (2009), “Forum sull’Health check e la PAC dopo il 2013”, Agriregionieuropa, n. 16, Marzo.
  • Sotte F. (2005), “La natura economica del PUA”, Agriregionieuropa, n.0.
  • Sotte F. (2006), “Quante sono le imprese agricole in Italia?”, Agriregionieuropa, n. 5, Giugno
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