L'impresa agricola alla ricerca del valore

L'impresa agricola alla ricerca del valore

Ciò che ci si aspetta dal mestiere dell’agricoltore è che progressivamente si trasformi in una professione di sintesi, all’incrocio tra la produzione, la protezione della natura e la gestione del territorio. Così facendo, esso si aprirà alla flessibilità, dando piena sostanza a quella che oggi si chiama pluriattività e che sarà domani l’imprenditorialità rurale. Questa reinvenzione del mestiere di agricoltore si fonda su tre esigenze inseparabili: la prima è quella di ridefinire lo status professionale dell’agricoltore, la seconda attiene alla riconsiderazione dei fondamenti della solidarietà professionale, la terza riguarda l’esigenza di rinnovare l’etica dell’attività agricola.
Gruppo di Bruges, “L’agricoltura alla svolta”

Introduzione

L’agricoltura sta attraversando indubbiamente un cambiamento epocale. Gli scenari competitivi stanno cambiando radicalmente. Essi offrono nuove opportunità, ma mostrano anche maggiore pressione competitiva. Nello stesso tempo, le politiche agricole, dopo il disaccoppiamento della riforma Fischler e mentre è in avanzato stato di elaborazione la futura politica di sviluppo rurale, propongono il superamento delle vecchie garanzie di mercato e il passaggio a nuove forme più finalizzate e selettive di intervento.
Questi avvenimenti investono il settore in tutta l’Europa, ma in modo ancor più accentuato in Italia. Il periodo è segnato, infatti, specie nel nostro paese, dal pesante invecchiamento degli agricoltori. Il necessario passaggio generazionale appare, nello stesso tempo, condizionato da forti attriti inerziali. La domanda che si pone è la seguente: come e quanto il sistema delle imprese agricole è adeguato a far fronte al cambiamento e sarà capace di cogliere le opportunità che si presenteranno? E’ questa una materia complessa con tante implicazioni: di carattere strutturale, finanziario, economico-sociale, commerciale e così via, che si tenterà di discutere nei prossimi articoli.
Questo primo articolo cerca intanto di concentrarsi su un aspetto: quello della formazione del valore e della successiva realizzazione e acquisizione, con l’obiettivo di mettere in evidenza come sia cambiato, specie negli ultimi anni, lo scenario di riferimento per l’imprenditore. Tanto che egli è chiamato oggi e in prospettiva, a “ridefinire” (1) il proprio mestiere e con questo il proprio ruolo nella società. E’ questo un processo che, allo stesso tempo, pone il problema di come riformare complessivamente i sistemi agro-alimentari e agro-territoriali, per far fronte al profondo cambiamento del quale siamo, e ancor più saremo, testimoni.

Un problema più semplice nel passato

Dove sta il valore? Era questa una questione più semplice fino ad anni recenti (diciamo fino all’inizio degli anni novanta). Per l’agricoltura, infatti, non veniva sostanzialmente ipotizzata altra valorizzazione che quella del mercato. L’agricoltura era mono-funzionale, nel senso che la sola forma riconosciuta di realizzazione del valore prodotto era quella del passaggio delle sue produzioni per il mercato. Al presidio del territorio, alla cura della natura e del paesaggio e agli altri aspetti multi-funzionali dell’agricoltura di cui si parlerà più avanti, era dedicata in generale minore attenzione e comunque questi erano considerati dei side-effects (effetti collaterali) che l’esercizio dell’agricoltura (qualsiasi tipo di agricoltura, purché questa avesse continuato a svolgersi) avrebbe comunque e pressoché inevitabilmente prodotto, tenuto conto delle tecniche e delle modalità organizzative meno invasive del passato: caratterizzate, come erano, da ordinamenti produttivi policolturali, integrazione tra coltivazione e allevamento, rotazione.
La scelta di fondare la PAC sul sostegno dei prezzi e sulla alterazione artificiale degli equilibri di mercato deriva da questa visione mono-funzionale dell’agricoltura, oltre che dall’obiettivo prioritario della sicurezza alimentare, intesa all’epoca in termini esclusivamente quantitativi.
Il progresso tecnico peraltro, spingeva nello stesso senso. Erano tempi in cui l’innovazione era incorporata negli stessi mezzi di produzione acquistati sul mercato (meccanici, chimici, sementi, ecc.), che sostituivano i tradizionali fattori di produzione auto-prodotti in azienda. Il problema imprenditoriale dominante era quello di massimizzare l'efficienza tecnica, ponendo al centro la produttività. E, nelle condizioni date, anche per effetto della rigidità fondiaria e delle difficoltà conseguenti ad ampliare le dimensioni dell’impresa, questa si esprimeva in termini di resa unitaria (ad ettaro o capo).
La gamma era peraltro ristretta ad un limitato numero di prodotti tradizionali, anche in relazione alla stretta corrispondenza tra prodotto agricolo e alimento. Una sequenzialità che l’industria e la distribuzione alimentare di oggi hanno spesso reso meno evidente fino a nasconderla, assistite dal progresso tecnico nella rielaborazione degli alimenti a partire dalla scomposizione dei prodotti agricoli in componenti elementari (2). In questo assistite dal marketing dei prodotti alimentari e dal ruolo assunto dalla marca.
In questa situazione, il rischio d’impresa risultava fortemente contenuto dalla duplice garanzia operata dalla PAC: a) dei prezzi, sostenuti ben oltre i livelli altrimenti determinati dagli equilibri di mercato, b) di ritiro di tutta la produzione, anche se eccedentaria. La PAC garanzia annullava così ogni rischio di mercato.
In una situazione del genere, la risposta alla domanda: dove sta il valore? era altrettanto scontata. La risposta era nell’industrializzazione dell’agricoltura. Le ragioni del ritardo e delle difficoltà dell’agricoltura erano imputate in primo luogo ai suoi limiti strutturali, ma anche alla complessità degli ordinamenti produttivi agricoli (si pensi alla tradizionale compresenza nella stessa azienda, anche se di piccole dimensioni, della coltivazione e dell’allevamento associata all’auto-fornitura di fattori di produzione: concime, foraggio, sementi, trazione animale), ritenuti tecnologicamente anacronistici e retaggio di forme di conduzione e di sfruttamento passate.
Occorreva allora semplificare e specializzarsi. Cioè innanzitutto concentrarsi, come nell’industria, sulla produzione di uno o pochi prodotti, anche a scapito talvolta degli equilibri idro-geologici, del paesaggio, della biodiversità, della stessa originalità culturale e sociale delle campagne e del loro rapporto con il territorio.
Questo messaggio ha prodotto, in primo luogo, la scissione tra zootecnia e coltivazione in attività tra loro indipendenti, rompendo così le tradizionali rotazioni e la letamazione, semplificando il paesaggio delle alberate e delle coltivazioni promiscue, sostituendo gli input naturali con quelli artificiali, abbandonando le tradizionali forme di integrazione tra attività agricole e attività di trasformazione e commercializzazione dei propri prodotti. La specializzazione produttiva orientava verso pochi prodotti: generalmente quelli più remunerati dalla PAC, facilmente meccanizzabili, standardizzati dal punto di vista delle tecniche utilizzate e della qualità, espellendo lavoro umano. Fin quasi alla monocoltura.
In questa situazione si è prodotto in Italia l’abbandono di tanta parte dell’allevamento tradizionale (quello centrato sulle razze autoctone, come Chianina e Marchigiana), il passaggio nell’allevamento dal ciclo chiuso a quello aperto, la diffusione delle colture cerealicole e delle colture industriali più premiate dalla PAC. L’effetto è stato quello della banalizzazione delle vocazioni verso un’agricoltura omologata dall’impiego di pacchetti tecnologici acquisiti dall’esterno. Esso si è tradotto nella perdita di specificità del fattore terra e nella sua riduzione allo stesso rango di un qualsiasi capitale. Mentre poco o nessun rilievo veniva concesso all’ambiente, al territorio, al paesaggio.
L’impresa che meglio ha interpretato la spinta all’industrializzazione dell’agricoltura è stata quella conto-terzistica, come prova il suo successo nel paese, specie dove più si sono diffuse le coltivazioni a forte intensità di meccanizzazione. Essa ha spesso assicurato in quel modello la conservazione e valorizzazione dell’agricoltura impedendo l’abbandono, operando di fatto anche una sostanziale ricomposizione fondiaria, sia pure a scapito della complessità del paesaggio e talvolta della conservazione della biodiversità e della tenuta idro-geologica dei suoli. Ad essa, si può associare, in campo zootecnico, l’impresa specializzata nell’ingrasso a ciclo aperto, spesso anche senza terra.
Infine va segnalato come, nelle relazioni lungo la filiera tendessero a prevalere rapporti di antagonismo piuttosto che di integrazione e cooperazione. Se la qualità del prodotto è irrilevante ed il suo ritiro assicurato, non resta che il prezzo a regolare il rapporto tra l’agricoltore e il suo acquirente. Un valore determinato dai rispettivi interessi in conflitto e dalla forza contrattuale di ciascuno.

Un problema oggi molto più complesso

Dove sta il valore? Diversamente che nel passato, questa domanda assume oggi rilievo centrale in quanto riassume una complessità molto maggiore. Attenuatisi i vantaggi tecnologici che hanno guidato gli incredibili aumenti delle rese di alcune commodities nel dopoguerra, mentre il mercato si sposta verso le qualità e i servizi ed entra in crisi la politica agricola del sostegno dei prezzi e delle garanzie di ritiro dei prodotti eccedenti, l’agricoltura si colloca in una nuova dimensione e di fronte a nuove prospettive.
Il valore va cercato rispondendo, come nel passato, sostanzialmente alle stesse due domande:

  • cosa vuole il consumatore attraverso il mercato?
  • cosa vuole il cittadino, in quanto contribuente, attraverso la politica della spesa e delle agevolazioni verso l’agricoltura?

Ma le risposte sono oggi differenti.
La prima domanda trova risposta nella diversificazione. Il valore non risiede più, come prima, nel prodotto agricolo grezzo e standardizzato, ma nelle tante qualità consentite dal progresso tecnico, accompagnate dalle azioni di marketing, in risposta al cambiamento delle preferenze e della disponibilità di reddito dei consumatori. Ad ogni prodotto agricolo tradizionale corrisponde oggi un’ampia gamma di prodotti, di varianti tipologico-qualitative e di servizi connessi, richiesti all’agricoltura.
Il mercato è peraltro cambiato anche dal punto di vista dei prodotti richiesti. Fino agli anni settanta e anche ottanta, un banchetto si qualificava per la carne (bistecche e bollito) dove oggi si impongono il farro e le verdure gratinate; il vino era apprezzato per la sua gradazione mentre oggi si qualifica per il colore e l’odore. I prodotti alimentari si moltiplicano, mentre cresce il peso dei contenuti immateriali (confezione, formato, marca, etichetta, tracciabilità, garanzia di qualità, tipicità) e tutto questo ovviamente investe l’intera filiera, dove tendono a stabilirsi rapporti di integrazione e di cooperazione tra soggetti diversi dall’agro-industria all’agricoltura propriamente detta, per coinvolgere l’agro-alimentare e la distribuzione. Una collimanza beninteso parziale, ma non trascurabile di interessi.
Due sono i segmenti di prodotti alimentari che oggi crescono in termini di consumo: i prodotti del “paniere time-saving” e i prodotti del “paniere di qualità”. Dal 2000 al 2003, il consumo di prodotti del “paniere time-saving” è cresciuto del 13,9% e i prodotti del “paniere qualità” del 2,3% (Ismea, 2005). E’ evidente, quindi, che il valore per il consumatore sta molto più nei servizi, che nella quantità. Malassis giudica che nei tempi presenti, con la loro schizofrenia dei consumi alimentari guidata alternativamente dai contenuti di servizio e da quelli di qualità, si è imposto un “modello di società di sazietà”.
Emergono le mode alimentari e il ciclo del prodotto, precedentemente assenti dal settore agricolo e alimentare. Nuove funzioni, d’altra parte, si aggiungono in agricoltura alla tradizionale produzione di alimenti e fibre: nell’ambito energetico, turistico-ricreativo, culturale, curativo e riabilitativo, di valorizzazione dei beni pubblici e privati, ed altro ancora. Parallelamente, il rischio cresce: l’agricoltore deve interrogarsi non più soltanto su come produrre, ma anche su quali qualità orientare la produzione, per chi produrre, quando e come vendere.
La seconda domanda fa riferimento alla multifunzionalità dell’agricoltura, cioè alla produzione di beni e servizi di interesse collettivo relativi all’ambiente, al paesaggio, alla cura dell’equilibrio idro-geologico, alla manutenzione del verde pubblico e così via. In questo caso, non può che essere la collettività a garantire, su basi contrattuali, la remunerazione all’agricoltore: attraverso la spesa pubblica e le agevolazioni fiscali e contributive. Le politiche pubbliche hanno qui lo scopo di dare corpo alla cosiddetta willingness to pay (la disponibilità a pagare) dei contribuenti verso gli agricoltori, riconducibile all’assolvimento degli impegni contenuti nell’implicito patto sociale tra gli agricoltori e i cittadini. E’ questo il senso della trasformazione delle politiche agricole da interventi eminentemente settoriali a interventi territoriali riconducibili all’obiettivo dello sviluppo rurale.
Un percorso per ora soltanto avviato, ma la cui direzione è segnata. L’eco-condizionalità obbligatoria a titolo del primo pilastro della PAC e i pagamenti per il “miglioramento dell’ambiente e del paesaggio rurale attraverso la gestione del territorio”, asse 2 del secondo pilastro della PAC, preludono a nuove forme contrattuali tra stato e agricoltori. La riforma della PAC non potrebbe dirsi effettivamente completata se il sostegno, una volta disaccoppiato dalle produzioni, non venisse ri-accoppiato alla produzione multifunzionale, in aggiunta a quella dei beni privati venduti al mercato, di beni e servizi di carattere collettivo (common goods) valorizzati dallo Stato. Se si attribuirà più importanza in futuro al ruolo multifunzionale dell’agricoltura, i “pagamenti per beni ambientali, paesaggistici e culturali”, suggeriti inizialmente dal Rapporto Buckwell, dovranno costituire una parte ben più consistente di oggi del valore materiale prodotto dalle imprese agricole.

Le tre direzioni della diversificazione

Nella situazione descritta, l’impresa che non diversifichi e preferisca attestarsi sulle sole attività produttive dell’agricoltura tradizionale, rischia di perdere opportunità di valorizzazione dei fattori di produzione mobilitati e di trovarsi penalizzata sotto il profilo dell’economicità. Nello stesso tempo, il campo di iniziativa degli imprenditori agricoli si amplia decisamente. La figura 1, tratta da una ottima ricerca europea conclusa nel 2002 (3), presenta i termini della questione in modo particolarmente efficace. A partire dall’ambito, divenuto ormai ristretto dell’agricoltura tradizionale, rappresentato dal triangolo interno, la ricerca del valore spinge l’agricoltura a diversificare in tre fondamentali direzioni: l’approfondimento, l’allargamento e il riposizionamento (4).

Figura 1 – Il triangolo del valore dell’agricoltura diversificata

 

Fonte: Van der Ploeg, Living Countryside, 2002

a) L’approfondimento attiene a tutte le attività integrate a quelle tradizionali, a monte e a valle dell’agricoltura. Si tratta di attività produttive o di servizio orientate innanzitutto alla sostituzione dei fattori convenzionali con nuovi fattori, alla riorganizzazione della produzione in forme integrate e più complesse, alla innovazione di prodotto e alla cura dei suoi aspetti qualitativi, alla trasformazione e valorizzazione delle produzioni, alla commercializzazione diretta delle produzioni finali o comunque all’accorciamento delle filiere e alla costituzione di rapporti più diretti e ravvicinati con il consumatore finale.
L’approfondimento comprende tutte le innovazioni di prodotto o di processo e le attività integrate a monte e a valle dell’agricoltura tradizionale. Si annoverano in questo raggruppamento tutte le nuove produzioni, specie quelle tipiche o di qualità, quando si aggiungono al prodotto forme di riconoscimento esplicite e formali della qualità (come nel caso delle varie forme di certificazione e valorizzazione) o la garanzia della rintracciabilità. Naturalmente sono compresi anche i nuovi prodotti (nuove varietà, agricoltura biologica, piccoli frutti, fiori, ecc.) o la combinazione di prodotti.
Sono anche casi di approfondimento tutte le trasformazioni dei prodotti effettuare nella stessa impresa agricola (pane, vino, formaggio, birra), le forme di organizzazione collettiva dell’offerta (gruppi di offerta) e comunque tutte le iniziative che mirano alla costituzione di filiere corte tra produzione e consumo (vendita diretta, farm shop, farmers’ market), le nuove forme di commercializzazione (adozione di animali presso l’allevatore, vendita attraverso internet). Altre volte è il consumatore che viene attirato dal produttore nella sua impresa (raccolta di prodotti da parte del consumatore o pick-it yourself).
Infine sono da classificare come casi di approfondimento tutte le forme di sostituzione di fattori di produzione con input interni, con riferimento in particolare alla produzione di energia, al riutilizzo a fini di fertilizzazione delle deiezioni animali, alle nuove forme di avvicendamento e rotazione tra colture.
Sono considerate in questa categoria tutte le nuove modalità di produrre (proprietà associate). Si può notare che spesso si tratta di ricondurre sotto il controllo dell’agricoltura attività che in passato essa già svolgeva, ma che aveva perduto, come effetto dell’industrializzazione dell’agricoltura e della specializzazione produttiva. Altre volte sono prodotti e processi nuovi.
b) L’allargamento riguarda tutte quelle attività di produzione o, più spesso, di servizio, che si affiancano collateralmente all’attività agricola propriamente detta. Esse sono rivolte sia a rispondere a nuovi bisogni di mercato (turistici, residenziali, culturali, ecc.) sia a fornire servizi generalmente di interesse collettivo (ambientali, paesaggistici, ecc.).
Storicamente il primo tipo di allargamento è stato il conto-terzismo. La sua diffusione in tante regioni italiane è stata notevole e il suo ruolo è stato determinante nella diffusione di alcune colture: cereali, barbabietola e colture industriali in genere. A fronte del vincolo fondiario e della necessità di trovare pieno impiego alle macchine aziendali, alcune imprese hanno allargato il loro raggio di azione verso la fornitura di servizi meccanici ad altre aziende. Questa attività spesso si è estesa ad altri compiti, come quelli della conservazione e della commercializzazione del prodotto, dell’espletamento di incombenze burocratico-amministrative, fino a riguardare l’intera gestione.
L’agriturismo raccoglie una vastissima gamma di servizi di diversa natura. In senso restrittivo, l’agriturismo attiene ai servizi di ospitalità e ristorazione, spesso in congiunzione alla vendita di prodotti aziendali. Ma la gamma dei servizi agrituristici si differenzia ulteriormente per: a) tematizzazioni: percorsi eno-gastronomici, strade del vino, percorsi d’arte, ecc.; b) tipologia di servizi: bed and breakfast, camping e camper, picnic, barbecue, ecc.; c) prodotti e servizi aggiunti: vendita prodotti, ippoturismo, esperienze lavorative in azienda, ecc.
Altre attività con notevoli nessi con l’agriturismo sono riconducibili alle seguenti classi: a) fattorie didattiche, aziende museo, laboratori artistici, scuole d’arte e altre iniziative di valorizzazione della cultura rurale; b) agricultural therapy, cura del disagio mentale, inserimento al lavoro di portatori di handicap, reinserimento ex- tossicodipendenti, ex-detenuti, e altri soggetti difficili; c) servizi residenziali, case dello studente, ospizi anziani e case di accoglienza; d) fitness, sport, centri salute, attività di entertainment e svago.
Infine vanno comprese nell’allargamento tutte le iniziative di cura dell’ambiente e del paesaggio sia come servizi ai privati, che (più spesso) come fornitura di servizi pubblici: a) progettazione, cura e gestione del verde pubblico e privato, urbano e rurale; b) gestione della natura e del paesaggio, difesa idrogeologica; c) prevenzione spegnimento incendi e cura foreste; d) produzione di energia (eolica, biomassa); e) gestione riserve faunistico-venatorie, caccia e pesca; f) lavori pubblici (manutenzione opere pubbliche, spalatura neve) con i mezzi agricoli; g) protezione civile.
c) Il riposizionamento concerne tutte le attività esterne a quella agricola, ma integrate e complementari con essa nell’ambito rurale allo scopo di fornire occasioni di impiego ai fattori di produzione (lavoro in primo luogo, ma anche mezzi meccanici, ecc.) e opportunità di reddito integrative all’agricoltore e alla famiglia agricola. E’ questo l’ambito delle attività più propriamente connesse all’integrazione rurale e al miglioramento della qualità della vita.
Funzioni di integrazione nell’economia rurale sono tutte le attività svolte indipendentemente da quella agricola nell’azienda stessa o più in generale nell’ambiente rurale. Esse possono essere: a) di tipo artigianale o piccolo industriale, b) di carattere artistico o di valorizzazione culturale; c) commerciali: negozio rurale, fiere rurali; d) turistico. In questo stesso ambito si collocano le forme di pluriattività tipiche della famiglia agricola, o anche, in relazione alle disponibilità di risorse (lavoro, materiali di base, spazi coperti e aperti) dello stesso agricoltore imprenditore. Infine vanno considerate tutte le funzioni residenziali e di animazione rurale come quelle ristrutturazione, restauro e manutenzione di vecchie costruzioni civili o pubbliche.
A queste si associano la attività di cura e manutenzione degli spazi pubblici e quelle folkloristiche, di animazione della vita rurale o connesse al miglioramento generale della qualità della vita (in termini di servizi alle persone singole o in quanto collettività).
Naturalmente tantissimi altri tipi di iniziativa imprenditoriale possono essere richiamati e classificati nell’ambito delle tre principali direttrici di diversificazione su esposte. Esiste peraltro una ricca documentazione a riguardo sia in termini di repertori di esperienze di diversificazione (5), che di valorizzazione e divulgazione di buone pratiche (6).

La diversificazione che c’è già

Concentrandosi su un campione di imprese agricole di diversi Paesi dell’UE con una dimensione economica maggiore di 16 Ude (19.200 Euro di reddito lordo standard all’anno), la ricerca europea su richiamata rivelava come, al di sopra di una certa soglia dimensionale (quella più o meno di un reddito comparabile da lavoro dipendente), la diversificazione fosse già un fenomeno diffuso. In quella ricerca, ben il 52,1% delle imprese agricole europee analizzate mostrava di aver “approfondito” e/o “allargato” la sua sfera di attività (nell’analisi non si era considerato il riposizionamento). Il sotto-campione italiano peraltro si attestava su una percentuale anche maggiore: 55,7%.
Questi livelli di diversificazione sono stati recentemente confermati in una ricerca svolta in collaborazione con la Coldiretti regionale delle Marche su un campione di imprese agricole professionali della regione (7). Anche se per la natura del campione la comparabilità dei risultati è parziale, in questo caso il 42% dei soggetti aveva attuato una qualche forma di diversificazione. Tra questi, metà circa aveva già messo in atto due o più iniziative di diversificazione, e la gamma delle tipologie appariva particolarmente variegata, andando dalla vendita diretta (44% dei casi), a forme di collaborazione con la pubblica amministrazione (24%), a forme di agriturismo o di attività conto-terzi (21% ciascuna), a produzioni biologiche o trasformazioni del prodotto in azienda (18% ciascuna), a certificazioni di qualità, marchi collettivi, energie rinnovabili, riforestazione (in quote tra 5 e 10%).
Sopra una soglia dimensionale minima, si può in sostanza affermare che le imprese hanno già, in larga misura, messo in atto delle forme di diversificazione, spesso anche molto impegnative. Lo hanno fatto anche per necessità, quando gli imprenditori, soprattutto i più dinamici, si sono accorti che gran parte delle imprese italiane non è competitiva nell’agricoltura convenzionale. Lo hanno fatto, comunque, rivelando sovente una straordinaria capacità di innovazione in tipologie di attività particolarmente variegate. Spesso integrando più scelte di diversificazione tra loro. Si tratta di uno straordinario sforzo che l’agricoltura guidata dagli imprenditori più attenti sta compiendo e che probabilmente continuerà a compiere nei prossimi anni, specie se e dove il ricambio generazionale sarà più rapido ed incisivo. Sono infatti i giovani imprenditori i protagonisti principali di questo processo di “ridefinizione” del mestiere di agricoltore, dimostrando grande flessibilità, forti dosi di inventiva e notevole entusiasmo.

Implicazioni di politica economica

La diversificazione è questione di fronte alla quale si trova ogni singola impresa e ogni imprenditore. Le soluzioni vanno quindi individuate caso per caso, in relazione alla propria struttura aziendale, al territorio in cui si opera, alle propensioni individuali, all'intuizione dell'imprenditore, alla sua passione, alla sua professionalità e alla sua capacità di coinvolgere gli altri soggetti partecipi del suo progetto, e via dicendo. Ma ovviamente la diversificazione beneficia delle iniziative volte a “fare sistema”, cioè ad aggregare in un pacchetto le iniziative simili, dal punto di vista sia della produzione che delle relazioni con il mercato.
La diversificazione, d’altra parte, è di per sé un bene collettivo. Più diversificazione si realizza, più benefici collettivi si riversano sulle singole iniziative d’impresa. Il coordinamento peraltro evita le sovrapposizioni e facilita l’integrazione e la valorizzazione reciproca.
Vi è comunque una ragione a monte per coordinarsi ed integrarsi. Tra produzione, trasformazione e distribuzione si hanno, nell’agroalimentare, scale di produzione differenti. Spesso esistono soglie dimensionali minime, che le singole imprese agricole non riescono a raggiungere. L’integrazione si impone inoltre in tutti i casi in cui non sia possibile ricostruire le complementarità necessarie allo sviluppo complessivo e sostenibile: tra allevamento e coltivazione, tra produzione e vendita, tra specializzazione e gamma.
Un secondo livello di integrazione va realizzato tra competenze agricole e non-agricole in tutti i casi in cui qualificazioni o esperienze professionali specifiche si rendono necessarie per la migliore qualificazione del prodotto o del servizio. Si pensi alla valorizzazione su nuovi mercati di una produzione di qualità, dove servono analisi e politiche di mercato appropriate nell’individuazione della pezzatura del prodotto, delle caratteristiche sensoriali più apprezzate, del suo packaging, del marketing mix, e così via. Sono competenze queste indispensabili non solo per accedere a nuovi mercati in ambito nazionale o internazionale, ma anche, più semplicemente, per realizzare tutto il valore potenzialmente disponibile attraverso la vendita diretta. Una analoga integrazione con professionalità non agricole è necessaria in tema di ospitalità turistico-alberghiera o culinaria negli agriturismi, nell’ambito dello sport e della cura del corpo e della salute nei centri benessere, nelle fattorie sociali o nelle esperienze di agricultural therapy, in ambito pedagogico-culturale in una fattoria didattica.
L’integrazione è questione chiave anche nella valorizzare l’immagine complessiva del territorio rurale (percorsi eno-gastronomici, musei diffusi, ecc.), così come, più in generale, per la attuazione di piani di sviluppo rurale integrati al Piano di Sviluppo Regionale.
La necessità/opportunità di “fare sistema” in agricoltura apre due questioni cruciali: la prima concerne i servizi, la seconda le politiche per la diversificazione.
Riorganizzare i servizi in direzione della diversificazione implica una loro forte finalizzazione e razionalizzazione sotto piani regionali dei servizi. In testa a tutto c’è la ricerca. L’assistenza tecnica e la divulgazione poi debbono trasformarsi. L’attuale l’approccio generalmente mono-disciplinare va sostituito con uno multi-disciplinare dove i campi assistenza tecnica tradizionale siano più e meglio integrati con quelli gestionali e del marketing e quelli necessari alle specifiche soluzioni di diversificazione (specie nei casi di “allargamento” e “riposizionamento”, che implicano incontri tra discipline a volte molto distanti).
Quanto alle politiche una strategia rivolta alla diversificazione impone innanzitutto di riconoscere al mercato il ruolo che gli è proprio di “selezionatore dei migliori” e di “indicatore delle preferenze” dei consumatori. La condizione migliore per la realizzazione di un’agricoltura effettivamente diversificata risiede nella competizione. In questo quadro la funzione dello Stato (nelle sue varie espressioni: UE, nazionale, regionale) non è di alterare gli equilibri e i segnali del mercato, ma di garantirne le regole con controlli, sanzioni ed incentivi. Tra questi ultimi assume rilevanza l’accompagnamento delle imprese nella riconversione dall’agricoltura convenzionale all’agricoltura diversificata e la qualificazione della domanda con una diffusa e penetrante azione di educazione del consumatore. In difesa innanzitutto delle qualità e del loro riconoscimento (identificativi qualità, tracciabilità) e a garanzia delle “parti deboli”: il consumatore stesso, gli imprenditori agricoli, le imprese agro-alimentari di minori dimensioni, incapaci di imporre i propri marchi con costose campagne di marketing.
Il secondo compito è di favorire l’aggregazione in tutte le forme (cooperativa, associativa, societaria) che consentano di promuovere prodotti migliori e di valorizzarli collettivamente. In quest’ambito, va pienamente applicata la riforma Fischler, specie in quelle parti che più attengono alla difesa delle qualità ed alla stimolazione delle iniziative imprenditoriali: eco-condizionalità, articolo 69, modulazione, regionalizzazione. Non tutte queste soluzioni hanno trovato campo di applicazione in Italia. E’ il caso di riconsiderarle, per essere meglio pronti all’integrazione del primo con il secondo pilastro e per disporre di una strategia regionale e nazionale per il futuro della politica agricola.
Ma la parte più importante delle politiche per la diversificazione sta nel secondo pilastro, la cui funzione va qualificata selettivamente in direzione dell’impresa, attraverso opportuni strumenti di accertamento e di valutazione ex-ante, in progress ed ex-post. I metodi di intervento vanno qualificati per passare rapidamente da una valutazione fondata sulle condizioni soggettive e formali di status (spesso rivolte al passato, come nel caso dei Pagamenti Unici Aziendali) ad una improntata a considerare i comportamenti, cioè ai progetti e alle qualità sostanziali.

Note

(1) L’espressione “ridefinire il mestiere” è stata utilizzata da Mario Campli, all’epoca presidente del COGECA, la Confederazione Generale delle Cooperative Agricole dell’Unione Europea, come titolo di un suo volume del 1999 (vedi bibliografia).
(2) Si veda il recente l’articolo di Roberto Esposti (2005), Cibo e tecnologia: scenari di produzione e consumo alimentare tra tradizione, convenienza e funzione, AGRIREGIONIEUROPA, n. 3. 
(3) van der Ploeg, J.D., Long A., Banks J.(2002), Living Countrysides: Rural Development Processes in Europe: the State of the Art, Elsevier, EBI. 
(4) I tre termini “approfondimento”, “allargamento” e “riposizionamento” sono, a nostro avviso, la migliore traduzione degli originali “deepening”, “broadening” e “regrounding”. 
(5) Si vedano i volumi in bibliografia di Sotte F., Finocchio R. (2006), van der Ploeg, J.D., Long A., Banks J. (2002), Stassart P. (1999), van Broekhuizen R. ed altri (1997), Movimento Giovanile Coldiretti (1999). 
(6) Giardini M. (2005), La bandiera verde in agricoltura, AGRIREGIONIEUROPA, n. 2. Il CEJA (Consiglio Europeo dei Giovani Agricoltori, che raggruppa le organizzazioni giovanili agricole dell’UE) ha recentemente lanciato un concorso: “The Young Farmer of 2006”.
(7) Sotte F., Finocchio R. (2006), Guida alla diversificazione in agricoltura, Coldiretti Marche.

Riferimenti bibliografici

  • Campli M. (1999), Ridefinire un mestiere. Un percorso politico per l’agricoltura in Italia e in Europa, EdUP, Roma.
  • Esposti R. (2005), Cibo e tecnologia: scenari di produzione e consumo alimentare tra tradizione, convenienza e funzione, AGRIREGIONIEUROPA, n. 3.
  • Giardini M. (2005), La bandiera verde in agricoltura, AGRIREGIONIEUROPA, n. 2.
  • Gruppo di Bruges (2002), L’agricoltura alla svolta, Associazione “Alessandro Bartola”, FrancoAngeli editore, Milano.
  • Movimento Giovanile Coldiretti (1999), Nuova Impresa. Idee ed evoluzione dei giovani agricoltori in Italia, Edizioni Tellus, Roma.
  • Sotte F., Finocchio R. (2006), Guida alla diversificazione, Coldiretti Marche
  • Stassart P. (Ed.) (1999), Du Savoir aux Saveurs. 101 chemins pour une alimentation de qualité, Edition Fondation Universitaire Luxembourgeoise;
  • van Broekhuizen R. ed altri (1997), Renewing the Countryside. An Atlas with two Hundred Examples from Dutch Rural Society, Wageningen Agricultural University, Misset Publishers, Doetinchem;
  • van der Ploeg, J.D., Long A., Banks J.(2002), Living Countrysides: Rural Development Processes in Europe: the State of the Art, Elsevier, EBI.

 

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