Premessa
Questa nota, senza alcuna pretesa di rappresentare un contributo di carattere scientifico, propone alcune riflessioni generali sul ruolo che può svolgere la riappropriazione dell’intera filiera produttiva e commerciale nella valorizzazione del ruolo sociale degli imprenditori agricoli.
Lo scritto nasce dalla volontà di offrire uno spunto di discussione su come la realizzazione di prodotti destinati al consumatore finale e il controllo della loro commercializzazione possa essere percepita da alcuni agricoltori come una sorta di "rinascita" professionale.
Quanto verrà discusso, è bene precisarlo, non nasce da argomentazioni o posizioni ricavate dalla letteratura (ed è questa la ragione per cui si è deciso di non fornire dei riferimenti bibliografici) e non è neanche il risultato di rigorose analisi empiriche. E’ piuttosto un insieme di considerazioni che derivano da un confronto approfondito con numerosi imprenditori agricoli che, pur vivendo la loro professione con motivazione e competenza, segnalano una profonda insoddisfazione e un crescente disagio nei confronti di un mercato che tende sempre più a limitare il loro spazio decisionale e ad allontanarli da quel consumatore che dovrebbe rappresentare il loro naturale referente.
E’ opportuno anche sottolineare come molti degli argomenti affrontati, proprio per la loro ampia valenza e per il ruolo che rivestono nel dibattito di economia e politica agraria, meriterebbero un maggiore livello di approfondimento. Pur ben consapevoli di questo limite, quello che si è cercato di fare nella discussione è toccare dei punti nevralgici ai quali gli imprenditori sembrano essere particolarmente sensibili, anche in termini più spiccatamente pratici, e che vedono come possibili percorsi per riaffermare la mission sociale originaria della loro professione.
Il quadro di riferimento
La crescente importanza attribuita all’agricoltura per delle funzioni che fino a non molto tempo fa erano ritenute accessorie, quali il governo del territorio, il ruolo ambientale e le iniziative di valenza sociale, ha determinato in molti imprenditori agricoli un diffuso senso di perdita di identità, di significati, di contenuti. Essi percepiscono la propria attività produttiva “caratteristica” come priva di un riscontro tangibile, stentano a percepirne non soltanto il fine economico, ma anche il valore sociale, culturale, etico. Gli stessi, tuttavia, sono consapevoli che senza l’aiuto pubblico e le varie forme di sostegno alle attività di diversificazione economica dell’agricoltura sarebbe molto difficile, se non impossibile, mantenere attive le proprie aziende.
In questa situazione, alcune aziende, dotate di un’intrinseca capacità di innovazione “culturale”, hanno avviato un percorso evolutivo che, forte di una nuova interpretazione della propria funzione produttiva, sta portando ad una progressiva riorganizzazione delle strategie gestionali, delle forme di commercializzazione, dei sistemi di distribuzione e degli strumenti di comunicazione.
Una prima forma di riorganizzazione, già abbastanza consolidata, si configura come “orizzontale” in quanto punta su un ampliamento dell’offerta verso il settore dei servizi ambientali, turistici, di ristorazione o culturali. E’ il principio dell’impresa multifunzionale, intendendo con questo termine un’azienda agricola che decide di svolgere attività extra-caratteristiche per le quali riceve un compenso dai fruitori privati o un sostegno pubblico; un’impresa nella quale la fornitura di nuovi servizi, che integrano (e talora marginalizzano) la produzione primaria, porta una valorizzazione della vocazione rurale in senso lato. Va considerato, però, come questa strategia non conduca nella maggior parte dei casi a un effettivo recupero dell’identità agricola e che, di conseguenza, tenda ad accentuare la complementarietà della produzione agricola rispetto alle altre attività dell’impresa.
Una seconda modalità di riorganizzazione, di tipo “verticale”, si concentra sulla fase produttiva puntando ad un progressivo abbandono del mercato delle materie prime per evolvere verso la commercializzazione dei prodotti finiti. Ciò può avvenire, nel modo più semplice, con la vendita diretta di prodotti agricoli indifferenziati, quali frutta e ortaggi, o con l’orientamento verso trasformati che vanno dal tradizionale olio extravergine di oliva, ai formaggi, fino alla preparazione di marmellate, succhi di frutta e yogurt. Questa seconda tipologia di innovazione, che meglio risponde alla domanda di identità di alcuni imprenditori agricoli, è oggetto della successiva discussione.
Discussione
Con sempre maggior frequenza si osservano imprese agricole che, abbandonando l’esclusiva realizzazione di prodotti “anonimi”, tendono a orientarsi verso il mercato, quello del consumo finale, dove il prezzo perde di rigidità grazie ad una posizione negoziale più equilibrata tra produttore e consumatore. Non si tratta, come superficialmente si potrebbe ritenere, di un ritorno alla produzione agricola legata al commercio vicinale, quanto piuttosto di approccio innovativo alla gestione d’impresa che trova nelle tecnologie (soprattutto di conservazione, trasformazione e confezionamento) e nelle modalità di organizzazione delle forme alternative di realizzazione, di comunicazione e di commercializzazione dei prodotti.
In questo approccio il consumatore, in quanto fruitore della soddisfazione del bisogno, legata alla natura materiale, e dell’appagamento del desiderio, legata all’aspetto immateriale del prodotto, deve essere ascoltato nelle sue richieste e aspettative e informato e reso partecipe dei significati e dei valori connessi al mondo agricolo e rurale. Il cliente è la principale ricchezza di un’impresa, e questo concetto va assimilato anche dal sistema agricolo.
L’attenzione e la preferenza del consumatore devono essere conquistate, mantenute e utilizzate, per quanto possibile, come strumento indiretto della comunicazione di marketing dell’impresa. Uno strumento, fra l’altro, che all’assenza di costi affianca, grazie alla spiccata connotazione interpersonale, un’elevata efficacia.
Nell’attuale mercato agroalimentare, complice l’incremento della distanza (fisica e relazionale) tra produttore e consumatore, viene a perdersi sia l’identificazione del luogo da cui proviene il prodotto che la conoscenza del soggetto che lo realizza. All’aumento della gamma e della disponibilità temporale dei prodotti alimentari si contrappone una perdita di contatto tra produttore e consumatore che genera un’inevitabile perdita di “fiducia”. Il grado di fiducia aumenta quando è possibile stabilire con ragionevole attendibilità il luogo di origine delle materie prime, osservare il processo di lavorazione, essere informati sulle modalità operative che portano alla realizzazione del prodotto e, soprattutto, conoscere personalmente chi ne garantisce la qualità, nel senso più ampio del termine. Proprio questa relazione personale con i consumatori è percepita dal produttore come un’ulteriore motivazione rispetto alla sua funzione di fornitore di alimenti di qualità a chi è in grado di apprezzarne l’origine e il significato.
L’esigenza di trasparenza, che trova piena forma di garanzia nel contatto diretto con il sistema produttivo e le persone che ne sono i protagonisti, può trovare una risposta alternativa, anche se parziale, nei marchi e nei segni di qualità supportati da sistemi di certificazione. Questi ultimi, che forniscono alle imprese agricole uno strumento per mostrare la volontà di sottoporsi a dei controlli esterni che ne testimoniano la trasparenza, rappresentano una sorta di delega agli enti terzi da parte dei consumatori i quali non hanno la possibilità di verificare in prima persona la modalità di gestione del sistema produttivo, l’identità e i valori dell’impresa.
Una domanda di prodotti in cui la fiducia assume un ruolo sempre più importante impone un’evoluzione dell’offerta che, a sua volta, richiede uno sviluppo tecnico e imprenditoriale. La necessità di questo cambiamento è stata colta, e in qualche misura anticipata, dal legislatore con la normativa contenuta nel Decreto legislativo 228/2001 che, ridefinendo i contenuti dell’art. 2135 del Codice Civile, ha ridisegnato la figura dell’imprenditore agricolo e i suoi orizzonti operativi. Questa revisione, di ordine civilistico, ha interessato a cascata tutta una serie di altri aspetti, quali la fiscalità, il sistema previdenziale, l’igiene e salubrità degli alimenti, solo per citarne alcuni. Ne deriva una riconfigurazione del sistema agricolo che offre delle opportunità originali, le quali devono essere comprese e messe in atto nella piena consapevolezza dei limiti e delle regole. Non è sufficiente sapere ciò che si può fare, ma è necessario capire quali siano i requisiti e i limiti entro cui poterlo fare.
Una delle opportunità più interessanti è senza dubbio la commercializzazione diretta di prodotti aziendali che, per avere successo, deve fare riferimento ad approcci alla gestione d’impresa più evoluti, anche se non necessariamente più complessi. Un tale cambiamento culturale determina un’interpretazione innovativa della tradizionale attività agricola. Non si tratta tanto di modificare gli indirizzi produttivi o le tecniche di coltivazione e allevamento, quanto di recuperare nella storia e/o nella vocazione del territorio la base per realizzare dei prodotti che, sottoposti a diversi gradi di trasformazione e a specifiche forme di confezionamento, possano essere direttamente proposti al consumatore finale. Un cereale, ad esempio, che le aziende vedono come un prodotto da conferire quale materia prima all’industria di trasformazione, può essere destinato a molteplici scopi (confezionamento tal quale o precotto, farina e pasta) divenendo quello che si può definire un prodotto plurimo.
Dalla singola produzione deriva l’insieme dei prodotti finiti che sarà possibile realizzare, e tra questi la scelta andrà a ricadere su quelli caratterizzati da maggiore originalità, valore aggiunto, interesse dei consumatori, ampliamento dell’offerta o capacità di trasmettere l’identità e i valori propri dell’impresa. In questo processo gioca un ruolo fondamentale la capacità di trovare delle professionalità artigiane, territoriali o meno, in grado di dare la massima espressione di eccellenza ai prodotti finiti realizzati dalla materia aziendale. Il ricorso a questi partner esterni appare fondamentale per ragioni tecniche (prima fra tutte la competenza professionale propria degli operatori specializzati), economiche (come l’assenza di investimenti aziendali e il miglioramento dell’efficienza produttiva) e commerciali. Riguardo a quest’ultimo aspetto, va segnalata sia la possibilità di avere un’elevata flessibilità nelle realizzazione dei prodotti rispetto alla domanda, sia l’opportunità di realizzare prodotti anche molto diversi partendo dalla stessa materia, avvalendosi di distinte imprese artigiane di trasformazione e confezionamento. A questo insieme di vantaggi per l’impresa si affianca una ricaduta positiva di carattere sociale che deriva dall’opportunità offerta agli artigiani, le cui imprese sono generalmente localizzate in ambito rurale, di ampliare la loro attività e di mantenere e valorizzare i loro saperi e le proprie professionalità. Ovviamente non vanno ignorate le difficoltà che derivano da questo orientamento dell’offerta aziendale, prime fra tutte la dipendenza da terzi nella gestione delle produzioni e della logistica, in particolare quando le imprese a cui ci si rivolge sono localizzate a distanze significative dall’azienda. Tuttavia, almeno a una prima analisi, questi svantaggi appaiono ampiamente compensati dagli elementi a favore cui si è fatto cenno.
Attraverso questo processo ha origine una “filiera ad anello” (circolare e corta) nella quale le materie prime sono realizzate dall’azienda agricola, trasformate e confezionate da imprese esterne, preferibilmente localizzate nel territorio rurale locale, e commercializzate dall’azienda stessa in maniera prevalente attraverso forme di vendita diretta. L’idea è basata sul superamento dell’egoismo produttivo a vantaggio della qualità del prodotto finito e di una ripartizione equa del valore aggiunto fra le (due o più) imprese della filiera. Il principio della filiera ad anello è praticabile in qualsiasi contesto territoriale nel quale si realizzino eccellenze agricole (non più materie prime) che divengono, grazie all’opera di artigiani abili e competenti, delle eccellenze alimentari.
In realtà forme simili di commercializzazione sono spesso praticate negli agriturismi, ma è evidente che l’approccio con cui vengono attuate è esattamente opposto a quello che qui si vuole sostenere. Infatti, nel caso dell’agriturismo, la vendita diretta è spesso solo complementare all’ospitalità, la quale rappresenta l’attività su cui l’imprenditore ripone le sue aspettative economiche. Viceversa, quello che si vuole sottolineare è la possibilità, per gli agricoltori che vogliono ottenere risultati conducendo prioritariamente la loro attività caratteristica, di indirizzare le proprie produzioni a forme di commercializzazione più soddisfacenti in termini reddituali e professionali.
Affinché questa nuova logica di filiera sia praticabile e sostenibile è indispensabile che l’impresa definisca una strategia di marketing atta a valorizzare i suoi prodotti. In particolare, nell’individuare le forme di comunicazione, l’impresa deve porsi in modo alternativo alla grande distribuzione, perché diversi sono i messaggi e i valori che intende trasmettere. In questo processo comunicativo deve essere privilegiato un approccio bidirezionale nel quale il consumatore diventa interlocutore delle proposte produttive e compartecipante nella definizione stessa del concetto di qualità. E’ senza dubbio la ricerca di forme di comunicazione efficaci e innovative uno dei punti più difficili di questo percorso di “indipendenza” commerciale ed è necessario che gli imprenditori che intendono percorrere questa strada se ne rendano conto.
Così come i processi di trasformazione, anche le azioni comunicative vanno affidate a professionisti che devono essere capaci di trovare il linguaggio e le motivazioni per portare il consumatore a contatto con l’impresa in modo che si attivi il processo virtuoso della relazione interpersonale che è l’unico che può decretare il successo di questa strategia commerciale.
Conclusioni
Una delle possibili chiavi di rinascita dell’agricoltura è da ricercare nella valorizzazione culturale del prodotto, quale bene tangibile che veicola significati immateriali legati ai luoghi, alle tradizioni, ai saperi e valori degli uomini. Le molteplici forme dell’interazione tra prodotto e sistema produttivo possono trasferire all’immaginario del singolo consumatore una moltitudine di “fragranze emotive” percepibili individualmente con modalità e intensità originali attraverso una rilettura dell’alimento che supera la sua esclusiva funzione nutrizionale.
La singola impresa ha il compito di valorizzare il fascino evocativo del territorio e dell’ambiente, vetrina ed etichetta dei propri prodotti. Attraverso i simboli della civiltà rurale, i valori aziendali possono essere trasmessi a persone culturalmente sensibili, al di là di qualsiasi luogo comune o iconografia pubblicitaria. I prodotti che derivano da questo approccio all’agricoltura sono fondati sulla tradizione, coerenti con il contesto culturale, arricchiti da un messaggio forte sulla cura posta nella loro realizzazione e sul significato della scelta individuale di voler essere, e rimanere, un imprenditore agricolo.
Affinché questo approccio risulti vincente è necessario che le fasi di produzione, trasformazione e marketing vengano gestite dall’impresa in prima persona e che, nell stesso tempo, l’offerta aziendale sia sufficientemente ampia e differenziata. A questo scopo la “filiera ad anello”, così come definita nella nota, appare un modello di riferimento in quanto risponde alle esigenze produttive sia materiali (economicità, qualità e varietà dell’offerta) che immateriali (capacità evocative, significati e valori veicolati dai prodotti).
Per gli imprenditori agricoli che vedono penalizzate le loro vocazioni e competenze dalla progressiva perdita della funzione produttiva dell’agricoltura a fronte della maggiore importanza attribuita dalla politica e dall’opinione pubblica alle altre funzioni accessorie, una delle (poche) strategie possibili appare quella della gestione diretta della fase di trasformazione e commercializzazione dei prodotti.
E’ fuor di dubbio che questa linea può essere seguita, almeno nel breve periodo, da un numero limitato di produttori. Così come è evidente che non possono essere le filiere corte, nelle varie forme in cui possono concretizzarsi, a dare una immediata risposta ai problemi del settore agricolo e della maggior parte delle aziende che ne fanno parte.
Quello che si è voluto affermare in questo breve scritto è che esiste una possibilità concreta per alcune imprese agricole, che possiedono adeguate caratteristiche territoriali, strutturali e culturali, di ritrovare la loro dimensione tipica valorizzando la funzione produttiva che dovrebbe rappresentare il senso stesso della loro esistenza.
Affrontare questa sfida non è questo un compito facile, ma diverse esperienze di successo dimostrano come esista una domanda attenta e sensibile a questa proposta che punta su prodotti e forme di vendita molto lontane dalle logiche distributive dominanti.