Introduzione (1)
I sistemi agroalimentari moderni hanno conosciuto negli ultimi anni profonde trasformazioni, maturate all’interno di percorsi differenziati. La tradizionale distinzione dicotomica tra agricoltura omologata e non omologata costituisce una base di partenza per delineare sentieri di sviluppo da cui originano svariati mondi della produzione. L’evoluzione dei consumi ha certamente contribuito ad alimentare queste tendenze, attraverso una profonda articolazione della domanda in differenti categorie di beni, basti pensare ai prodotti di base, a quelli legati al territorio, nonché ai prodotti salutistici e a quelli con maggior contenuto di servizio (Ismea, 2007).
Le filiere agroalimentari si contraddistinguono, quindi, per diverse modalità di creazione di valore, che passano dai classici miglioramenti dell’efficienza alle opportunità offerte da produzioni alternative, o da nuovi mercati. Nel caso italiano, la scelta è risultata quasi “obbligata”, viste le scarse possibilità di continuare a produrre beni prevalentemente standardizzati, a causa dell’assenza dei vantaggi di scala.
I processi di qualificazione e di valorizzazione maturano anch’essi in ambiti differenti, che oscillano dal localismo dei sistemi territoriali di produzione tipica, alle reti globali di approvvigionamento che caratterizzano, ad esempio, alcune filiere agroalimentari (Perito, 2006). I primi trovano linfa nei processi di rilocalizzazione dei circuiti di produzione e consumo (Brunori et al., 2006), laddove i secondi sono diretta conseguenza della globalizzazione in atto. Tra questi due estremi si posizionano una serie di canali distributivi alternativi che assumono conformazioni organizzative diversificate. Quali che siano i percorsi di sviluppo, le strategie di valorizzazione intraprese comportano inevitabilmente processi di adattamento, se non di vero e proprio cambiamento, organizzativo. Dinanzi a queste dinamiche lo studioso si trova spesso a dover reperire strumenti di analisi sempre meno tradizionali. Le teorie neoistituzionaliste offrono utili spunti per affrontare la complessità che sempre più contraddistingue l’evoluzione delle filiere agroalimentari.
Il lavoro, dunque, cerca di analizzare le ripercussioni che una nuova configurazione strategica, legata all’introduzione di marchi di qualità, comporta nella governance della catena agroalimentare. Le teorie proposte saranno poi sottoposte ad una prima sintetica verifica empirica, applicata al caso italiano, riferita all’introduzione di metodi di coltivazione e di allevamento biologici.
Valorizzazione e governance
Le strategie di valorizzazione sono realizzate attraverso modalità e percorsi differenti, ciascuno dei quali sottintende una strategia finalizzata alla creazione di valore. Molto spesso, tali strategie generano posizioni commitment-intensive, nel senso che comportano una maggiore assunzione di responsabilità degli attori coinvolti per il rispetto di stringenti requisiti qualitativi; questo è tanto più vero nel mercato dei prodotti agroalimentari, per due motivi: il primo è legato alle caratteristiche di deperibilità dei prodotti stessi e alla necessità che il trasferimento degli stessi avvenga in tempi relativamente rapidi; ciò spiega il fatto che, in determinate filiere, il valore apportato dalla funzione logistica superi addirittura il 50%. Il secondo, che qui si intende approfondire, concerne quelle strategie finalizzate alla differenziazione dei prodotti attraverso una serie di politiche legate all’introduzione di marchi di qualità.
La scelta di differenziare attraverso la qualità comporta una serie di implicazioni, sia di natura oggettiva che soggettiva (Raynaud, 2007): dal punto di vista oggettivo, si definiscono e si sviluppano parametri qualitativi, che ridisegnano i metodi di produzione e le caratteristiche oggettive dei prodotti. Dal punto di vista soggettivo, la differenziazione avviene attraverso l’invio di segnali di qualità, finalizzati a ridurre le asimmetrie informative del consumatore, spesso dovute alle caratteristiche di beni fiducia proprie dei prodotti agroalimentari. Tali segnali devono contenere due dimensioni fondamentali per il consumatore: la rilevanza e la credibilità (Raynaud, Valceschini, 2005).
La prima dimensione, la rilevanza, si riferisce al fatto che la presenza di tali segnali determina due conseguenze: da un lato, abbatte i costi di accesso al mercato informativo dei prodotti agroalimentari, incorporando una serie di informazioni utili per il consumatore; dall’altro, l’invio di tali segnali deve determinare un aumento della disponibilità a pagare da parte del consumatore. La seconda dimensione fa riferimento al fatto che tali segnali devono essere veicolati in maniera credibile, generando così una reputazione positiva del prodotto (Belletti, 2002). Tra produttore e consumatore si stabilisce in sostanza una sorta di contratto implicito che lega il consumatore al produttore attraverso una garanzia sulle caratteristiche qualitative del prodotto acquistato.
La possibilità di rendere credibile il segnale di qualità genera una serie di adattamenti che investono la governance dell’intera filiera agroalimentare (2). L’introduzione di strategie di qualità presenta, cioè, ripercussioni di natura organizzativa, dal momento che la filiera assume una struttura di governo differente, che non fa più (o non solo) riferimento al sistema dei prezzi di mercato (Hobbs, Young, 2000). Come noto, forme alternative non necessariamente di natura gerarchica estrema, come l’integrazione verticale, sostituiscono progressivamente il meccanismo di mercato. Di frequente, sottolinea Butler (1982), tende ad affermarsi un meccanismo graduale e progressivo di governance verticale, che dal mercato si sposta sempre più verso le forme ibride fino ad arrivare alla gerarchia pura.
Particolare importanza assumono le cosiddette transazioni intermedie, dalle quali scaturisce il prodotto di qualità, ottenuto seguendo rigorosi disciplinari produttivi. Da quanto affermato risulta evidente come in alcune filiere particolarmente “lunghe”, caratterizzate dalla presenza di diversi attori, una governance efficiente appare operazione ancora più complessa; ciò a causa di due elementi:
- 1. il primo riguarda le probabilità di comportamento opportunistico da parte di alcuni attori della filiera. Alcune esperienze negative, che hanno interessato filiere agroalimentari tipiche, sono state causate da comportamenti opportunistici adottati da uno o pochi attori: la caratteristica di marchio collettivo ha finito poi per far ricadere sul soggetto collettivo le ripercussioni negative che tali comportamenti hanno determinato (riduzione dei consumi, in primis);
- 2. il secondo elemento attiene alle difficoltà di controllare la produzione agricola, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, e alle connesse problematiche legate all’aggregazione dell’offerta. Per questi motivi, il prodotto agricolo assume solitamente i caratteri di una variabile non deterministica ma stocastica (Pilati, 2004). Tutti questi fattori rendono più stringente la necessità di meccanismi di adattamento organizzativo e di coordinamento verticale.
La teoria neoistituzionale viene spesso invocata per approfondire ed interpretare i processi di adattamento organizzativo generati da un aumento dei costi di transazione: tale aumento produce una sorta di ciclo dell’innovazione organizzativa (Saccomandi, 1991) che muove l’impresa dal polo del “mercato” verso il polo della “gerarchia”, rappresentato dall’impresa verticalmente integrata. I costi conseguenti possono assumere dimensioni tali da vanificare anche i profitti che la strategia di valorizzazione può generare. L’opzione strategica legata alla valorizzazione, dunque, passa attraverso un allineamento tra posizionamento strategico e modello di governance dal quale si origina un valore positivo netto.
Nelle pagine seguenti si fornirà una prima verifica empirica applicata al comparto del biologico: si cercherà, cioè, di valutare se l’introduzione di colture e/o allevamenti biologici comporta una transizione organizzativa verso formule maggiormente gerarchizzate. Come sostenuto dalla teoria qui utilizzata, la verifica è basata su un approccio comparativo che confronta strutture di governo differenti (Menard, Klein, 2004).
Una applicazione ai metodi di produzione biologica
L’indagine ISTAT sulle strutture e sulle produzioni agricole (SPA) 2007 permette di analizzare congiuntamente gli orientamenti produttivi e le strategie commerciali delle strutture agricole. In particolare, il dato SPA ha permesso di identificare le imprese con produzioni biologiche certificate e ha consentito di suddividere il campione in quattro classi: i) senza produzioni biologiche, ii) con coltivazioni biologiche, iii) con allevamenti biologici e iv) con allevamenti e colture biologiche. L’analisi delle strategie commerciali dei quattro gruppi ha permesso di individuare gli elementi caratteristici delle strutture con produzioni biologiche rispetto al gruppo di controllo.
La tabella 1 illustra i dati relativi alle percentuali di aziende distinte in base alla presenza di vincoli commerciali e alla presenza/assenza di allevamento e di coltivazioni con marchio biologico (3).
Da una visione di insieme emerge come il ricorso a forme di coordinamento verticale tenda ad aumentare, man mano che si passa a coltivazioni e ad allevamenti con metodo biologico. La commercializzazione avviene attraverso forme di governance dalle quali emerge un processo di transizione organizzativa indotto da un incremento dei costi di transazione. Nel complesso, la quota percentuale di aziende con vincoli di natura commerciale aumenta per le tipologie interessate dalle produzioni biologiche. L’incremento appare particolarmente marcato nel caso della zootecnia biologica, passando dal 6,2% delle strutture convenzionali al 17,4% per le strutture con compresenza di colture ed allevamenti biologici. Le conclusioni appena evidenziate possono essere articolate in base all’ordinamento e alla struttura socioeconomica delle aziende.
Per quanto riguarda la dimensione fisica, emerge come anche le aziende di ridotte dimensioni entrino nei circuiti commerciali attraverso forme di contrattualizzazione della produzione che garantiscono entrambe le parti. Ad esempio, per le aziende con Sau tra 1 e 5 ettari, il ricorso a formule contrattuali aumenta più di tre volte, con l’introduzione dei marchi. Nelle aziende con dimensione tra 15 e 30 ettari, l’introduzione delle sole colture biologiche, e soprattutto dell’allevamento biologico, determina un adattamento organizzativo con governance più gerarchizzata. Per le aziende tra i 5 e i 15 ettari, il dato appare anomalo rispetto alle altre classi di SAU; la quota percentuale di aziende con vincoli commerciali, infatti, tende a rimanere costante, salvo ridursi in caso di presenza di sole colture o di soli allevamenti biologici.
Tabella 1 - Aziende che nel 2007 hanno venduto almeno parte della produzione attraverso vincoli commerciali per tipologia di produzione biologica e classe di dimensione fisica (percentuale sul totale delle aziende appartenenti alla singola classe)
Fonte: Istat
La tabella 2 mostra i risultati alla luce di alcune variabili socioeconomiche, quali lo stadio del ciclo vitale, il sesso del conduttore e il grado di attività (part-time / full-time).
Tabella 2 - Scomposizione per le principali variabili socio-demografiche delle aziende che nel 2007 hanno venduto almeno parte della produzione attraverso vincoli commerciali (percentuale sul totale delle aziende appartenenti alla singola classe)
Fonte: Istat
In riferimento allo stadio del ciclo vitale del conduttore emerge come la scelta dell’ordinamento biologico determini per i conduttori anziani un incremento dell’accesso ai canali commerciali contrattualizzati ben più evidente di quanto avvenga per i conduttori giovani, per i quali si rilevano aumenti più contenuti. In particolare, nelle aziende con conduttore maturo o anziano, la quota percentuale di aziende con vincoli commerciali cresce di 4 volte. Nelle aziende condotte da giovani, tale quota cresce di circa 3 punti percentuali, mentre aumenta di più nel caso di sole coltivazioni biologiche.
Per quanto riguarda il sesso del conduttore, se, da un lato, la conduzione maschile evidenzia forme di governance verticale nel passaggio al biologico, dall’altro permane molto ridotta la quota di imprese femminili che commercializzano il prodotto biologico attraverso forme maggiormente gerarchizzate. La vendita con vincoli commerciali aumenta infatti di quasi quattro punti percentuali nelle aziende a conduzione maschile, mentre in quelle femminili la percentuale resta sostanzialmente invariata, con un piccolo aumento nelle aziende con coltivazioni bio. Ciò evidenzia una certa difficoltà ad accedere a canali associativi, già evidenziata in altri lavori (Bartoli, De Rosa, 2008). Le aziende a conduzione femminile, infatti, privilegiano forme di vendita diretta, trattenendo dunque in azienda le quote di valore aggiunto e chiudendo così la filiera.
L’ultimo elemento di riflessione discrimina le aziende in base al grado di professionalità: sia quelle part-time, con meno di 200 giornate lavorative annue, che quelle full-time, con più di 200 giornate, denotano un aumento del coordinamento verticale con l’introduzione del marchio biologico. In particolare, quelle part-time evidenziano una crescita più che proporzionale di vincoli commerciali rispetto a quelle full-time.
Alcune riflessioni non conclusive
Le indicazioni emerse dalla verifica empirica costituiscono un primo spunto nell’ambito di una applicazione più ampia che comprende anche i marchi di origine, quelli commerciali, ecc.; pertanto, in questa sede si intende far emergere solo qualche spunto di riflessione che, evidentemente, non ha alcuna pretesa di essere definitivo.
La configurazione strategica legata alla qualificazione dei prodotti agroalimentari non sempre può rivelarsi vincente, perché i costi di transazione e l’adattamento organizzativo possono risultare eccessivamente onerosi. Questo è il motivo per cui Ghosh e John (1999) nella loro governance value analysis, evidenziano che le aziende sceglieranno coppie (posizionamento strategico/modalità di governance) per le quali si attendono un valore positivo netto e che “l’allineamento” tra queste due variabili alimenta la generazione di valore. Ciò dipende dal fatto che l’innalzamento dei costi di transazione, legati alla necessità di garantire il rispetto di disciplinari di produzione sottoposti a controlli, implica investimenti in risorse specifiche, legati all’introduzione di metodi di coltivazione di qualità. Conseguentemente, si verifica un processo di commutazione organizzativa (Saccomandi, 1991) che, sottolinea Butler (1982), non è immediato o “puntuale”, ma avviene attraverso una serie di adattamenti organizzativi che generano diversi stadi con grado di gerarchia crescente.
I dati presentati supportano l’ipotesi portata avanti dalle teorie neoistituzionaliste di una progressiva gerarchizzazione delle relazioni all’interno della filiera agroalimentare, successive all’introduzione di una strategia di qualificazione dei prodotti; nel caso in questione, ciò accade dopo l’introduzione del marchio biologico. Quanto detto offre alcuni spunti di riflessione che, proprio alla luce del fatto che la verifica è ancora da completare, possono definirsi appena introduttivi (4).
Un elemento di valutazione derivante dalla verifica empirica evidenzia una sorta di abbassamento della soglia di accesso al mercato nel caso di scelta dell’ordinamento biologico. Le informazioni sulle caratteristiche sociostrutturali, infatti, portano a ritenere che la scelta delle colture e degli allevamenti biologici crei un canale privilegiato di accesso al mercato. Del resto, in base a quanto visto, sia in relazione alla dimensione fisica, che al grado di professionalità, emerge con evidenza come l’adozione di metodi biologici, opportunamente certificati, apra un canale privilegiato con la distribuzione commerciale anche agli operatori con piccola dimensione e ridotto grado di attività. Un secondo aspetto di non secondaria importanza scaturisce dalla possibilità di entrare in determinati circuiti commerciali anche per aziende che, in condizioni normali, non potrebbero accedervi. Ciò conforta l’azione di politica economica per la qualificazione dei prodotti agroalimentari, avviata in sede comunitaria e che investe particolarmente il sistema produttivo italiano, con incentivi alla qualificazione delle produzioni, che si addicono particolarmente alla struttura polverizzata tipica dell’agricoltura italiana.
Una ulteriore riflessione investe il ruolo degli agricoltori che, in questi ambiti, non sempre appare penalizzato essi diventano veri e propri drivers delle strategie di qualificazione (Raynaud, 2007). Il loro ruolo diviene critico nel garantire il rispetto di parametri qualitativi, anche nel caso in cui altri attori appongono il loro marchio, come nel caso delle private label. Ciò potrebbe compensare, almeno in parte, una loro debolezza di potere contrattuale che troppo spesso e non sempre a ragione appare ineludibile. Questa considerazione deriva dal fatto che l’introduzione di una marca non determina di per sé una configurazione organizzativa maggiormente gerarchizzata: tale processo si verifica solo quando assumono rilevanza le transazioni intermedie (Rayanud, Valceschini, 2005), che coinvolgono attori differenti lungo la filiera agroalimentare. Nel caso in questione, il ruolo della componente agricola è fondamentale ed è proprio questo che determina un riassetto della governance di filiera nel quale gli stessi agricoltori, anche quelli apparentemente meno dinamici possono trovare nuova collocazione sul mercato.
Note
(1) Lavoro svolto nell’ambito del PRIN coordinato dal prof. G. Montanari: Uso efficiente di informazioni ausiliarie per il disegno e l’analisi di indagini campionarie complesse: aspetti teorici ed applicativi per la produzione di statistiche ufficiali. Responsabile dell’Unità Operativa dell’Università di Cassino: prof. M.Sabbatini, che si ringrazia per gli utili suggerimenti. Si ringraziano anche gli anonimi referee.
(2) Effetti simili in termini di adattamento organizzativo si ritrovano nel caso di strategie legate alla sicurezza alimentare (Martino, 2007).
(3) Tra le diverse tipologie è stata selezionata la vendita con vincoli commerciali, vista la sua importanza per le produzione biologiche.
(4) Un primo elemento di riflessione che qui non viene presentato, ma che sarà interessante approfondire anche con i dati censuari di prossima rilevazione, riguarda le implicazioni normative che la teoria adottata suggerisce; i teorici neoistituzionalisti infatti, Williamson in testa, nell’illustrare le conseguenze di tali processi individuano nella concentrazione del mercato uno degli effetti immediati. La gerarchizzazione delle transazioni genera cioè una contrazione delle transazioni mercantili, quindi della concorrenza (Menard, 2003; Williamson, 2008).
Riferimenti ibliografici
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- Brunori G., Cerruti R., Rossi A., Rovai M. (2006), “L’analisi dell’organizzazione dei sistemi socio-economici dei prodotti tipici attraverso l’approccio di network”, in Rocchi B., Romano D. (a cura di): Tipicamente buono, Milano, F.Angeli.
- Butler R.J. (1982), “A transactional approach to organising efficiency”, Prospectives from markets and collectives administration and society, n.10.
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- Menard C., Klein P. (2004), Organizational issues in the agro-food sector: toward a comparative approach”, American Journal of agricultural economics, vol.86, n.3.
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- Perito M. (2006), “Il sistema ortofrutticolo in Italia: scenari ed evoluzione di mercato”, in Cesaretti G.P., Green R.H. (a cura di): L'organizzazione della filiera ortofrutticola. Esperienze internazionali a confronto, Milano, Franco Angeli.
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