La politica rurale italiana, secondo la valutazione dell’Ocse

La politica rurale italiana, secondo la valutazione dell’Ocse

Introduzione

Che cos’è l’Italia rurale? Rurale è ancora sinonimo di agricoltura in Italia? E ancora, quali sono le sfide che si troveranno ad affrontare le aree rurali italiane nei prossimi anni? Sono queste alcune delle domande a cui il rapporto Ocse sull’Italia rurale, recentemente presentato a Parigi, ha inteso rispondere (1). Il rapporto ha valutato la politica nazionale per lo sviluppo rurale confrontandola con quella di altri paesi Ocse. Questo breve articolo presenta alcuni dei risultati del rapporto.
Le regioni rurali d’Italia hanno, in media, un PIL pro capite più alto delle regioni rurali dell’Ocse. Questo è dovuto alla loro base economica diversificata. Il settore manifatturiero e i servizi giocano un ruolo chiave all’interno delle economie rurali, mentre tra il 1990 e il 2004 l’agricoltura si è ridotta sia in termini di prodotto (in volume) sia di superficie utilizzata. Le aree rurali affrontano nuovi problemi legati all’invecchiamento della popolazione, alla pressione sui servizi pubblici, alla “urbanizzazione” incontrollata del milieu rurale e alla sostenibilità ambientale. In questo contesto, le politiche implementate nelle regioni rurali sono ancora interventi a supporto dell’agricoltura, senza un approccio inclusivo verso lo sviluppo rurale.
L’Italia ha bisogno di sviluppare una visione della politica rurale “allargata” che metta assieme differenti Ministeri e Assessorati. Un coordinamento orizzontale e verticale più forte su temi della politica rurale che faciliti un uso più efficiente ed efficace delle risorse dei programmi di sviluppo rurale e regionale. Particolare attenzione andrebbe prestata allo sviluppo di una “nuova economia ambientale”, per lo sfruttamento della gestione forestale sostenibile e per promuovere la produzione di energia rinnovabile nelle aree rurali. Per ottenere questi risultati è necessario abbandonare l’approccio mono-settoriale (che coinvolge un solo Ministero/Assessorato), e adottare una logica più inclusiva, nella quale gli attori pubblici si scambino informazioni e analisi e decidano di concerto quali politiche intraprendere coinvolgendo il settore pubblico e la società civile.
Questo paper è diviso in tre parti. La prima presenta l’analisi dell’economia rurale. La seconda parte analizza le politiche di sviluppo rurale implementate in Itaila. Infine, la terza presenta le raccomandazioni che l’Ocse ha fornito all’Italia.

Il profilo socio economico dell’Italia rurale

Le regioni rurali italiane sono tra le più ricche dell’Ocse, grazie alla loro economia diversificata

Il Pil pro capite delle “aree prevalentemente rurali” (Apr) Italiane è, in media, tra i più alti tra le Apr dell’Ocse. Per esempio, le province di Aosta e Belluno, le più ricche Apr del Paese, si collocano rispettivamente al terzo e settimo posto tra le Apr dell’Ocse in termini di Pil pro capite. La buona performance dell’Italia rurale sembra dipendere dal fatto che il Paese è densamente popolato e le aree rurali sono ben connesse con network di città medie e piccole (l’Italia, in effetti, è uno dei paesi meno rurali dell’Ocse).
Le regioni rurali più ricche hanno un’economia diversificata. I dati mostrano anche che c’è una correlazione positiva tra il numero di addetti nei settori manifatturiero e terziario, grandezze usate come proxy della diversificazione economica, e il livello del Pil pro capite nel 2003 (Figura 1). La diversificazione economica moltiplica le opportunità di impiego nelle aree rurali. Le Apr hanno, in media, bassi tassi di disoccupazione, in alcuni casi inferiori a quelli delle aree urbane. Nelle province di Belluno e Aosta il tasso di disoccupazione è al di sotto del 5%, mentre nella provincia di Siena, il tasso di disoccupazione è al di sotto del 3% (Istat, 2006).

Figura 1 - La performance dell’Italia rurale tra le regioni rurali dell’Ocse nel 2003

Fonte: Database regionale dell’Ocse

In questo contesto, e nonostante il volume dell’output e la superficie di terra utilizzata si siano ridotti dal 1990, l’agricoltura continua a fornire servizi all’ambiente (gestione del suolo, tutela della biodiversità) e alle attività di svago (manutenzione del paesaggio e delle aree campestri attrezzate per il tempo libero). L’agricoltura rappresenta un patrimonio di saperi e culture a supporto di un’ampia gamma di attività di successo come, ad esempio, l’industria alimentare. In Italia, i prodotti alimentari tradizionali comprendono 174 prodotti (Mipaaf, 2008) che fanno parte dei due regimi della UE: Indicazione geografica protetta (Igp) e Denominazione d’origine protetta (Dop). Le aziende coinvolte nella produzione di cibi e bevande Igp o Dop erano più di 80 mila nel 2007, il 20% in più che nel 2006 quando l’esportazione totale del comparto aveva raggiunto i 3.5 miliardi di euro (Ismea, 2006).

Figura 2 - Indice del volume di produzione agricola e suolo utilizzato dalle attività primarie 1990-2004

Fonte: OCSE (2008) Environmental Performance of Agriculture in OECD Countries Since 1990

Tuttavia, i settori più importanti delle economie rurali sono il turismo e il manifatturiero. Il turismo basa la propria competitività sulle risorse paesaggistiche e naturali. Il ricco patrimonio di coste, pianure e montagne, offre alle aree rurali numerose opportunità di sviluppo. L’Italia rurale nel 2006 ospitava circa 17 mila strutture agrituristiche, il 9.3% in più di quelle registrate nel 2005. Infine, il manifatturiero rappresenta una parte importante dell’economia rurale in Italia. Nel 2003, il 12% delle imprese manifatturiere italiane (541 mila) era localizzato nelle Apr. Nelle Apr connesse a reti di città medie e piccole la concentrazione di imprese manifatturiere prende spesso la forma del distretto industriale marshalliano, che rappresenta un tipo di industrializzazione leggera e diffusa, basata sull’intensa divisione del lavoro tra le imprese e con una struttura produttiva integrata alla comunità locale.

Classificazione delle aree rurali in Italia: densità, specializzazione produttiva, e performance socio-economica

Secondo l’Ocse sono rurali tutte quelle regioni (Tl3) con una densità di popolazione inferiore ai 150 abitanti per chilometro quadrato, e senza un centro urbano che abbia più di 50 mila abitanti (2). Rientrano in questa categorie alcune aree montane del nord Italia, come la Valle d’Aosta, e la provincia di Belluno, le provincie appenniniche del centro-sud, la provincia di Enna, in Sicilia, e tutta la Sardegna eccetto Cagliari. L’Italia, però, è un paese densamente popolato (190 abitanti per chilometro quadrato, in media), con dense reti di città medio piccole. Dunque la classificazione Ocse potrebbe non rappresentare correttamente la geografia rurale italiana.
In questo contesto, la tipologia regionale elaborata dal Mipaaf può risultare più dettagliata (Figura 3). Il Ministero suddivide le aree rurali italiane in tre categorie. (i) Aree rurali con agricoltura intensiva e specializzata: 1.632 comuni che ospitano il 22% della popolazione nazionale, e sono prevalentemente localizzati nelle pianure dell’Italia settentrionale e centrale, vicino ai grandi poli urbani. (ii) Aree rurali intermedie: 2 676 comuni localizzati nelle aree collinari, che ospitano il 24% della popolazione italiana e rappresentano il 32% del territorio nazionale. (iii) Aree rurali con problemi di sviluppo: 2.759 comuni, il 12% della popolazione italiana, localizzati nei territori montuosi o collinari e nelle pianure del sud e delle isole (Sicilia e Sardegna).
Sebbene la classificazione del Mipaaf sia passibile di miglioramenti (per esempio essa non considera l’accessibilità e l’isolamento delle aree rurali), ha almeno due aspetti positivi. Primo, è il frutto della collaborazione tra il governo centrale e i governi regionali. Secondo, fornisce alle politiche di sviluppo una dimensione territoriale.

Figura 3 - La classificazione rurale dell’Ocse (a sinistra) a confronto con quella elaborata dal Mipaaf

Fonte: Oecd e Mipaaf

Infine, un altro criterio di definizione è basato sul livello di sviluppo misurato dal Pil pro capite, ed in particolare la distinzione tra le regioni “competitività” generalmente del centro nord, e le regioni “convergenza” (tutte meridionali): Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Basilicata (quest’ultima in phasing out). In generale, l’Italia settentrionale ha valori superiori negli indicatori socio-economici chiave (Figura 4). Per esempio, il Pil pro capite medio nelle regioni meridionali in dollari Usa a parità di potere di acquisto (Ppp) era di $ 17.436 nel 2005, 61.7% del valore registrato nel centro-nord ($ 28.246). Nel 2001, la media del tasso di disoccupazione nelle Apr del meridione era 21.7%, pari al 13% in più delle Apr settentrionali. Il divario tra il nord e il sud del paese sembra rappresentare un fenomeno strutturale, poiché le performance di breve periodo (crescita economica tra il 2000 e il 2004) non dipende dalla localizzazione delle aree rurali.

Figura 4 - Reddito e crescita nelle regioni Italiane (2000-2005)

Fonte: OECD Regional database

L’invecchiamento e lo spopolamento delle aree rurali minano la sostenibilità di alcuni servizi pubblici di base

La concentrazione di abitanti con più di 65 anni è molto alta nelle aree rurali, e aumenta nel tempo. L’invecchiamento della popolazione è un trend nazionale. In Italia nel 2006 il rapporto tra la popolazione con più di 65 anni e quella inferiore ai 15 era di 141/100, il valore più elevato nell’Ocse dopo Germania e Giappone. La percentuale di pensionati è cresciuta dal 15.5% nel 1992 a circa il 20% nel 2006. L’invecchiamento è persino più intenso nelle Apr, dove la popolazione con più di 65 anni era pari al 22% nel 2006, con un aumento della concentrazione del 21% dal 1992. Nelle Apr delle Regioni “convergenza”, il fenomeno dell’invecchiamento si è accompagnato allo spopolamento. In questa parte del Paese - tra il 1992 e il 2006 - le Apr hanno perso il 6% della popolazione.
Invecchiamento e spopolamento minacciano la sostenibilità dell’attuale sistema scolastico. Nelle Apr, tra il 2003 e il 2006, nonostante il numero delle scuole sia rimasto costante, gli studenti iscritti alla scuola media inferiore e superiore è diminuito rispettivamente del 1.7% e del 7.1%. In particolare, nelle Apr delle regioni “convergenza”, il numero di studenti iscritti alla scuola media inferiore e superiore è diminuito rispettivamente del 3.7 e del 10%. Se tale tendenza dovesse continuare, è probabile che alcune scuole saranno chiuse nel prossimo futuro, minacciando la sostenibilità delle comunità rurali. Specialmente nel caso delle scuole medie superiori, gli studenti devono affrontare lunghi spostamenti. Questo potrebbe avere un impatto sull’abbandono scolastico, che in Italia è particolarmente alto.
Un altro servizio pubblico particolarmente esposto alle conseguenze dell’invecchiamento della popolazione è quello sanitario. La concentrazione di anziani ha aumentato la richiesta di servizi sanitari e cure mediche. L’introduzione dei distretti sanitari per razionalizzare l’offerta di servizi non si è evoluta in maniera omogenea nel Paese. In alcune aree, le strutture sanitarie non sono organizzate secondo una logica “territoriale” e in molte regioni meridionali c’è una densità elevata di ospedali che non sono equipaggiati per fornire assistenza di qualità. Il risultato è che la popolazione locale tende a migrare verso i centri urbani del nord del paese per accedere a servizi sanitari di qualità.

L’immigrazione pone sfide relative all’integrazione degli stranieri

Sebbene l’immigrazione sia generalmente considerata come un fenomeno urbano, durante l’ultimo decennio, la percentuale di lavoratori stranieri residenti nelle aree rurali è costantemente aumentata. In media, nel 2003 c’erano 23.5 immigrati nelle Apr per ogni 1000 abitanti (la media nazionale era di 34.4). Le più alte concentrazioni, tra 55 e 50 immigrati per 1000 abitanti, sono state registrate nelle provincie di Perugia, Arezzo, e Siena. Durante lo stesso periodo la concentrazione media nelle aree rurali intermedie era di 30 immigrati per 1000 abitanti, e alcune province come Mantova, Macerata, e Piacenza erano sopra o vicine ai 60 immigrati per 1000 abitanti. I lavoratori stranieri si concentrano nelle regioni rurali per differenti ragioni. Primo, gli immigrati che lavorano nei centri urbani spesso decidono di vivere in aree rurali intermedie perché non sono in grado di affrontare il più elevato costo della vita delle aree urbane. Secondo, un gran numero di immigrati vive nelle aree rurali perché lavora nell’agricoltura o nel manifatturiero. Infine, a causa dell’invecchiamento della popolazione, le aree rurali attraggono lavoratrici straniere dedicate alla cura degli anziani (le badanti).
Gli immigrati rappresentano un’opportunità per ripopolare le aree rurali e per arricchirle con culture differenti. Tuttavia, un’alta concentrazione di popolazione straniera, se non propriamente gestita, può anche rappresentare un problema per comunità tradizionali e solitamente omogenee, come quelle rurali.

Le aree rurali soffrono la pressione delle città che causa congestione e inquinamento

L’urbanizzazione incontrollata (urban sprawl) che ha avuto luogo in aree molto estese genera esternalità negative nel milieu rurale. In particolare, lo sviluppo di insediamenti urbani e la localizzazione di nuove aree industriali non sono stati accompagnati dallo sviluppo di infrastrutture di trasporto adeguate. Ciò ha provocato la congestione dei flussi di traffico, l’aumento dell’inquinamento, del costo della vita e l’intensificazione dei problemi sociali connessi alla concentrazione di lavoratori stranieri.

L’inquinamento del suolo e delle acque minaccia le amenità naturalistiche

Le amenità naturalistiche rappresentano una risorsa fondamentale per lo sviluppo locale, ma in molte aree l’ambiente è sottovalutato, usato in maniera impropria o minacciato. Nell’agricoltura prevalgono le tecniche intensive, che riducono la sostenibilità delle attività primarie. Dopo una crescita costante, la superficie irrigua ha cominciato a diminuire solo nel 2003, quando l’Italia era al sesto posto tra i trenta paesi Ocse in termini di consumo di metri cubi d’acqua impiegati nell’agricoltura (Oecd, 2008). Le attività primarie contribuiscono all’inquinamento delle acque superficiali. L’agricoltura origina più del 60% dei nitrati e più del 30% del fosforo presenti nelle acque di superficie (Oecd, 2008). Il degrado del suolo è un problema ambientale diffuso nel Paese, ma non ci sono dati per valutarne correttamente l’evoluzione. Circa il 70% del territorio italiano è soggetto al rischio di erosione accelerata.

Le politiche a sostegno dello sviluppo rurale in Italia

L’approccio generale dell’Italia allo sviluppo  rurale nel caso del Mipaaf è focalizzato sul settore primario

L’approccio italiano allo sviluppo rurale è settoriale (supporto dell’agricoltura) e sembra trascurare i problemi sociali presenti nelle aree rurali. L’allocazione delle risorse finanziarie rispecchia questa posizione: degli € 8.292 miliardi stanziati per lo sviluppo rurale, meno del 30% è dedicato a misure economiche e sociali di ampio respiro che vanno oltre all’agricoltura e alla silvicoltura (Assi III e IV) (Figura 5). Secondo il quadro Feasr, i Psr sono tenuti a impegnare un minimo del 10% delle risorse UE sull’Asse III – per supportare la diversificazione dell’economia rurale e il miglioramento della qualità della vita nelle aree rurali. Tuttavia, nella pratica, in molti di questi programmi le politiche sociali o economiche non sono considerate in senso ampio, e mancano chiari obiettivi per soddisfare i bisogni sociali ed economici delle aree rurali.
La politica si concentra sull’utilizzo dei fondi degli Assi I e II del Fears per migliorare la competitività dell’agricoltura (e della silvicoltura) e per ridurne l’impatto ambientale. Questo anche nelle aree più ricche del Paese, dove il settore agrario ha già performance molto positive. Per esempio, se si misura l’intensità della spesa pro capite nel settore primario nel periodo 2007-2013, l’Emilia-Romagna (tra le più ricche regioni d’Italia) riceverà € 1.738 all’anno dal budget Psr dell’UE, mentre la Calabria (la regione più povera del Paese) riceverà € 1.821 l’anno. La variazione dell’intensità della spesa pro capite è tra € 1.800 e € 3.900 all’anno per le regioni meridionali e tra € 1.400 e € 10.000 all’anno per le regioni settentrionali e centrali.

Figura 5 - Spesa per Asse a livello regionale 2000-06

Fonte: OCSE (2008), Italy Background Report, unpublished

Gli approcci territoriali e integrati sono messi in secondo piano. Per esempio, l’iniziativa comunitaria Leader e i Progetti integrati territoriali (Pit) non trovano un adeguato spazio all’interno dei programmi, sebbene abbiano mostrato di avere il potenziale necessario a promuovere lo sviluppo e la diversificazione economica delle aree rurali. I Gruppi di azione locale (gal), per esempio, sono un potente strumento di politica di sviluppo rurale, specialmente quando il loro territorio di azione è propriamente definito e rappresentato da una comunità integrata, ma l’allocazione di risorse finanziarie a loro favore continua ad essere bassa (Isfol, 2005). Stessa sorte tocca ai Pit, malgrado rappresentino un’esperienza di sviluppo integrato piuttosto importante nelle aree più problematiche del paese.

Al contrario, nell’ ambito della politica regionale, l’impatto dei programmi su temi specificatamente rurali è limitato

La politica regionale (Qsn) adotta il principio di coesione ma l’impatto dei programmi su temi specificatamente rurali è limitato dall’ampiezza del mandato per questo genere di politiche, che comprende temi urbani e interventi orizzontali. Il principale obiettivo della politica regionale, ora supportata dal Fesr, dal Fse e da fondi nazionali e regionali, è di ridurre le disparità esistenti tra le regioni e di migliorare la competitività e la produttività nazionali. Di conseguenza, nel contesto della politica di sviluppo regionale, la componente rurale è altamente diversificata. Secondo il Mise, tra il 2007 e il 2013, solo il 6% della spesa è rivolto ad interventi rurali, mentre il 51.6% riguarda interventi non territoriali, il 38.8 % interventi potenzialmente localizzati in aree urbane o rurali, e il 3.7 % interventi esplicitamente urbani. In Italia, quindi, circa il 15% dei fondi della politica regionale è esplicitamente devoluto alle aree rurali.

La politica rurale “settoriale” non riesce a valorizzare i vantaggi competitivi delle regioni rurali

La strategia di sviluppo dovrebbe considerare la possibilità di offrire maggior sostegno alle aree rurali in evidente difficoltà. Tale strategia potrebbe mettere al riparo la politica rurale da pressioni politiche e settoriali sull’allocazione delle risorse, che attualmente tendono a concentrare l’investimento nelle zone più ricche. Se, a prima vista, concentrare le risorse dove i rendimenti sono più elevati può sembrare una prospettiva attraente per mantenere la crescita economica e le opportunità nelle aree rurali, c’è il rischio che una strategia di sviluppo focalizzata sulla competitività di breve periodo di un solo settore non sia sostenibile nel lungo periodo.
Per esempio, indirizzare il sostegno delle politiche verso il raggiungimento di economie di scala, bassi costi di produzione e prezzi più competitivi nel settore agricolo, per competere con altre parti d’Europa o del mondo, potrebbe portare all’impoverimento della forza lavoro, a una perdita delle ricchezze e delle tradizioni ambientali e culturali del mondo rurale e, dunque, a un impoverimento generalizzato dei fattori alla base dello sviluppo nelle aree rurali. Queste dinamiche non concorrerebbero allo sviluppo delle aree rurali, ma potrebbero contrastarlo. In particolare quest’approccio potrebbe risultare poco lungimirante, se si considera il progressivo accesso al mercato europeo di produttori di paesi con economie meno sviluppate e costi di produzione inferiori.

Vista l’incertezza legata ai fondi UE, lo schema italiano è vulnerabile a shock esterni

Il fatto che la Politica di sviluppo rurale in Italia (del considerando sia la politica per lo sviluppo rurale di origine agricole, che la politica regionale rivolta alle aree rurali) dipenda dalle politiche e dai finanziamenti europei la rende vulnerabile ai cambiamenti esterni, come per esempio alla prossima Revisione del bilancio dell’UE (2008-2010) e all’appena concluso Health check della Pac. Non ci sono garanzie che oltre il 2013 l’Italia continuerà a ricevere un livello significativo di finanziamento per le regioni rurali dall’UE, specie se si considerano le pressanti esigenze dei nuovi paesi membri e dei paesi candidati attuali e futuri. In particolare, rimane l’incertezza sulla struttura della politica UE dopo il 2013, che sarà definita solo dopo il completamento del processo di revisione del bilancio. Al momento, le regioni Italiane si sono assicurate un livello di fondi per lo sviluppo rurale per il 2007-20013 simile circa pari a quanto ricevuto complessivamente nel periodo 2000-06. Mentre tali fondi aumenteranno tra il 2009 e il 2013 in funzione delle decisioni scaturite dall’Health check della Pac, è probabile che l’ammontare complessivo dei finanziamenti Pac per i paesi dell’UE-15 si riduca dopo il 2013.

La governance della politica rurale italiana

Se il processo di devoluzione è spesso criticato perché ritenuto costoso e inefficiente, il principale problema del nuovo modello di governance potrebbe derivare dalla limitata capacità del governo centrale di coordinare e facilitare le azioni dei governi regionali in materia di sviluppo rurale. La mancanza di legami funzionali tra le politiche nazionali implementate a livello regionale ne è un esempio. Similmente, la capacità del governo centrale di garantire che le politiche implementate non abbiano un impatto negativo sulle aree rurali (il cosiddetto rural proofing) è ugualmente limitata. Per esempio, la riforma del sistema sanitario nazionale, basato sulla creazione dei distretti sanitari, non si integra con altre politiche locali, e non presta particolare attenzione alle comunità rurali, dove spesso è più difficile usufruire dei servizi sanitari. I differenti sistemi di governance a livello regionale rappresentano un’interessante innovazione e un elemento di complessità per la valutazione degli interventi nelle aree rurali. A causa della elevata eterogeneità della governance sub-nazionale nella politica di sviluppo rurale, è molto difficile la valutazione degli impatti e dei risultati delle politiche.

Le raccomandazioni dell’OCSE 

Adottare una politica rurale integrata che non si limiti a replicare lo schema comunitario

Secondo l’Ocse, l’Italia ha bisogno di una strategia di sviluppo rurale più ampia. L’attuale approccio alla politica rurale è focalizzato sullo schema della strategia di sviluppo rurale interna alla Pac e sulle politiche relative ai fondi strutturali/politiche di coesione. Un nuovo schema potrebbe ispirarsi a quello proposto dall’Ocse nel cosiddetto New Rural Paradigm e alle esperienze di altri paesi membri dell’Ocse. Le politiche e gli strumenti di finanziamento dell’UE dovrebbero collocarsi all’interno di uno schema nazionale più ampio che tenga conto delle diversità dell’Italia rurale e abbia una prospettiva multi-settoriale adottata in tutte le regioni d’Italia e non solo in quelle del Mezzogiorno. Una politica olistica creerebbe l’opportunità per verificare se le politiche adottate in ambito nazionale siano compatibili con lo sviluppo delle aree rurali (rural proofing).
La politica rurale italiana dovrebbe coinvolgere un numero più elevato di attori locali provenienti da differenti settori dell’economia, della società civile e dell’ambientalismo. La politica dovrebbe essere pianificata attraverso la collaborazione attiva di tutti i Ministeri che si occupano di materie che potrebbero essere collegate allo sviluppo delle aree rurali. La “visione” di questa politica dovrebbe contenere sia politiche straordinarie, sia ordinarie e, quindi: sanità, educazione, welfare e protezione ambientale, poiché tutti questi settori influenzano lo sviluppo dell’economia, della società, nonché della qualità della vita nelle aree rurali. Occorrerà sostenere un nuovo schema strategico per la politica rurale, tramite un sostegno specifico alle istituzioni esistenti e adeguati meccanismi di governance. A livello locale (sub-regionale), sarà importante assicurare la presenza e l’efficacia di istituzioni intermedie capaci di identificare i bisogni e le opportunità locali, utilizzando in maniera integrata fondi e programmi UE, nazionali e regionali. Questo tipo di istituzioni è già presente in molte aree, ma l’importanza del loro ruolo non è sempre riconosciuta o supportata nella politica regionale o nazionale.

Una strategia rurale integrata per migliorare le condizioni di contesto e promuovere la diversificazione delle economie rurali

In Italia, piuttosto che definire specifiche politiche settoriali, sarebbe importante migliorare la qualità locale dei beni pubblici per aumentare la competitività di tutti gli attori all’interno di una data area. Per raggiungere questo obiettivo c’è bisogno di identificare tutte le condizioni di contesto (framework contitions) in grado di accrescere le opportunità nel panorama sociale ed economico. Tali condizioni dovrebbero essere quei beni pubblici, propri dei diversi territori rurali, quali la qualità dell’ambiente, alti livelli di capitale umano e sociale e facile accesso al capitale (capacità di investimento).
La sfida sta, dunque, nell’identificazione degli interventi specifici necessari a rafforzare una serie di fattori economici chiave, nonché le particolari condizioni di contesto che sottostanno a questi fattori, in ogni ambito territoriale. Per sviluppare tale analisi, sarebbe importante migliorare la classificazione territoriale usata nella definizione delle aree rurali italiane, e includere un maggior numero di indicatori non necessariamente agricoli, considerando anche le sfide future relative ai cambiamenti demografici, climatici e ad altre tendenze. In altre parole, c’è bisogno di un migliore (e indipendente) uso dell’analisi territoriale nella fase di definizione delle politiche.

In particolare, le raccomandazioni che l’OCSE fa all’Italia sono:

  • (i) rafforzare la coesione sociale
    L’Italia avrebbe bisogno di aumentare la coesione sociale attraverso l’erogazione di servizi pubblici di qualità comparabile in tutte le aree del paese. Questo obiettivo dovrebbe essere raggiunto tramite una interazione più intensa tra i ministeri e più ricerca su temi inerenti ai servizi sociali nelle aree rurali, alla qualità della vita e alla loro relazione con lo sviluppo economico rurale (compreso la competitività dell’agricoltura) e la protezione dell’ambiente. Altri ministeri potrebbero giocare un ruolo importante e aiutare il Mipaaf a comprendere e affrontare correttamente questi temi. Per esempio, gli interventi nelle aree rurali potrebbero trarre beneficio dall’esperienza del Mise nel campo dell’analisi territoriale con un approccio multisettoriale (si prendano i casi dei servizi sanitari, educazione, turismo e sviluppo locale).
  • (ii) adottare la pianificazione territoriale con riferimento alle aree funzionali
    Servizi specifici dovrebbero essere forniti per migliorare il legame funzionale tra le regioni urbane e quelle rurali. Alcune regioni rurali sono integrate all’interno di aree più ampie che includono centri urbani. In queste regioni, la costruzione di alloggi spesso non è coordinata con la pianificazione dei trasporti, e gli stock esistenti di alloggi non sono utilizzati in maniera corretta. Questo genera un intenso pendolarismo dalle aree rurali a quelle urbane che mette sotto pressione le infrastrutture di trasporto e la qualità ambientale. Una soluzione possibile è sviluppare la pianificazione ad un livello territoriale più ampio, tenendo conto delle aree funzionali. Il trasporto pubblico municipale potrebbe essere esteso ad alcune aree peri-urbane. La pianificazione territoriale potrebbe anche permettere alle autorità nazionali e regionali di gestire l’immigrazione nelle aree rurali in maniera più efficiente.
  • (iii) sviluppare politiche sociali mirate all’integrazione degli immigrati
    La concentrazione di lavoratori stranieri è aumentata costantemente nelle aree rurali, tuttavia l’Italia non ha ancora sviluppato una strategia esplicita che massimizzi i benefici dell’immigrazione per riequilibrare i trend attuali di invecchiamento e spopolamento. Gli immigrati rappresentano una manodopera abbondante e relativamente economica che, se ben integrata all’interno dell’economia locale, può diventare un fattore di crescita economica. Per generare questa dinamica sarebbe importante facilitare l’integrazione degli immigrati nelle comunità locali. Per esempio, si potrebbero fornire case popolari (usando il grande stock di case abbandonate) e altri servizi chiave alle famiglie immigrate per facilitare lo sviluppo di un senso di appartenenza al luogo e alla comunità che le ospitano. L’assorbimento di parte del flusso dei lavoratori stranieri nelle aree rurali potrebbe ridurre la pressione sui centri urbani, dove gli immigrati sono presenti in elevate concentrazioni, promuovendo così un modello di immigrazione più sostenibile nell’intero Paese.
  • (iv) sostenere i processi di diversificazione della economia rurale
    Gli investimenti pubblici per migliorare l’integrazione delle Pmi locali con le attività part-time di agricoltura o di gestione degli asset naturali e culturali potrebbero risultare più redditizi rispetto alla corrente allocazione di fondi a sostegno di investimenti in una generica “competitività” del settore primario. Gli interventi dovrebbero rispecchiare la specializzazione produttiva delle aree rurali. Dovrebbero anche supportare l’ulteriore specializzazione di cluster e reti di Pmi. Anche i nuovi settori dell’economia, come la nuova economia ambientale, potrebbero essere sostenuti dall’investimento pubblico, facendo tesoro di alcune esperienze locali di successo.
    La politica di sviluppo rurale potrebbe anche supportare attività turistiche con un approccio integrato. In particolare, sarebbe molto importante aumentare la visibilità sul mercato internazionale delle amenità e dei servizi disponibili nelle aree rurali, tramite una comunicazione coordinata (come ad esempio un portale unico per l’agriturismo nazionale), e riconoscere e valorizzare le tradizioni locali, creando legami tra il visitatore e il carattere e la cultura locali. I comuni hanno un ruolo essenziale in questo processo, poiché rappresentano le istituzioni pubbliche che meglio conoscono i bisogni e la cultura locali. Al tempo stesso, i comuni hanno bisogno di aiuto da parte delle istituzioni intermedie che operano su una scala più ampia, e devono poter attingere ad altri fondi (privati e pubblici) per aumentare la propria visibilità e sostenere il necessario processo di valorizzazione.
  • (v) proteggere e valorizzare le amenità naturalistiche
    Il paesaggio rurale italiano è una delle più importanti risorse del Paese, ma non esprime per intero le sue potenzialità di sviluppo. Il valore del paesaggio e di uno spazio naturale ben conservato per il turismo e per l’industria del tempo libero e della salute, che si sviluppano sempre di più nelle società industrializzate, dovrebbe essere riconosciuto e incorporato nelle strategie future.
    Allo stesso tempo sarà importante rispondere alla sfida della produzione di energia sostenibile, tramite l’utilizzo di risorse naturali e rinnovabili, molte delle quali possono essere trovate nelle aree rurali. L’utilizzo sensibile e innovativo delle fonti energetiche idriche, eoliche, solari e geotermiche, così come la produzione di energia dagli scarti dell’agricoltura e silvicoltura dovrebbero rappresentare importanti aspetti della futura politica di sviluppo rurale in molte regioni italiane. Complessivamente, questi fattori potrebbero contribuire in modo sostanziale a far sì che l’Italia possa fronteggiare in futuro le sfide del cambiamento climatico e della crescente competizione globale per il cibo e gli idrocarburi.

Note

(1) Questo paper è un estratto del rapporto “Oecd Rural Policy Reviews: Italy”.
(2) L’OCSE usa il termine “regione” in riferimento ai Territorial level 3 (Tl3), corrispondente nell’UE alle Nuts3. In Italia questa classificazione individua le Province.

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