Il mercato delle banane e l’alternativa del commercio equo e solidale

Il mercato delle banane e l’alternativa del commercio equo e solidale

Premessa

Il presente lavoro si prefigge l’obiettivo di rilevare gli aspetti principali del commercio equo e solidale (COMES) con riferimento al frutto tropicale più diffuso in Europa e nel resto del Mondo: la banana.
Dopo una breve analisi del mercato tradizionale della banana dolce verrà esposto l’approccio seguito dal commercio equo con riferimento allo scenario europeo.

La produzione mondiale

Il banano è una pianta erbacea perenne che non ha radici né un vero tronco di legno. Il fusto, infatti, è un rizoma in grado di emettere parecchi polloni, ovvero fusti giovani, e si trova sottoterra. Considerando il fusto e la corona di foglie la pianta può raggiungere un’altezza di 10 metri. Il periodo di sviluppo vegetativo che porta il banano a fruttificare dura circa 10 mesi. Dopo ulteriori 10-12 settimane la banana viene raccolta.
Le banane crescono principalmente nelle regioni tropicali, dato che la crescita ottimale richiede un ambiente caldo e umido. Questo clima, tuttavia, costituisce anche un ambiente ideale per la diffusione di funghi e batteri che da sempre costituiscono la principale minaccia per il raccolto. La quasi totalità delle banane esportate oggi appartengono alla varietà Cavendish, introdotta e sviluppata negli anni Settanta per la sua resistenza ai parassiti e alle malattie oltreché per la sua capacità di resistere al trasporto.
La produzione di banane dolci nel mondo ha seguito un trend crescente negli ultimi quarant’anni, aumentando da 30 milioni di tonnellate nei primi anni Settanta fino agli oltre 80 milioni attuali (Figura 1), a seguito dell’espansione delle aree coltivate (+63,3% tra il 1970 e il 2007) e della crescita della produttività (+58,7% nel periodo considerato).
La produzione mondiale è concentrata in Africa, Asia e Sud America; nel corso degli anni Novanta si sono verificati alcuni cambiamenti nel livello della produzione nei paesi interessati: ad esempio, la percentuale complessiva prodotta dall’America latina è scesa dal 33,5% del 1970 al 19,6% del 2007. Attualmente, oltre il 65% della produzione mondiale è in mano a sei paesi: India (26,8%), Brasile (8,6%), Cina (9%), Ecuador (7,5%), Filippine (8,6%) ed Indonesia (6,2%). La figura 2 riporta, per questi paesi, l’evoluzione della produzione relativa al periodo 1970-2007. Dalla stessa si evince l’incremento produttivo che ha interessato i paesi asiatici, con la Cina e le Filippine che, nel giro di pochi anni, sono diventati il secondo e il terzo produttore mondiale.
Dal punto di vista dei sistemi produttivi prevalenti si distingue tra la produzione a piantagione tipica dell’America centro meridionale, dove sono scomparsi i piccoli produttori, e la produzione su piccola scala dei Caraibi. Per la loro topografia caratteristica, nei Caraibi non é praticabile la produzione a piantagione, di conseguenza viene meno il potenziale necessario per ottenere economie di scala. Le aziende di questa zona, con un’estensione in genere di due ettari e di solito gestite da produttori indipendenti, applicano un sistema di produzione a manodopera intensiva che riduce fortemente la produttività della terra che si assesta al di sotto delle 25 tonnellate per ettaro. La minore offerta di lavoro, inoltre, determina salari più elevati e dunque costi di produzione maggiori. Ciò nonostante, i paesi caraibici, continuano ad essere importanti esportatori di banane, principalmente perché molti di essi fanno parte dei cosiddetti paesi ACP a cui l’UE applica tariffe di importazione particolarmente basse. La produzione su piccola scala dei Caraibi contrasta fortemente con le grandi piantagioni dell’America centro meridionale che, essendo spesso estese più di 5.000 ettari, richiedono grossi investimenti di capitali e sono controllate direttamente o indirettamente (tramite joint venture) da società multinazionali che impiegano tecniche di produzione ad alta intensità di tecnologia. Sia la ricchezza del suolo sia le particolari tecniche di produzione e raccolta impiegate fanno sì che in queste piantagioni la produttività sia relativamente elevata (tra 40 e 60 tonnellate per ettaro), mentre l’abbondanza relativa di manodopera determina salari bassi, spesso accompagnati da pessime condizioni di lavoro (come testimoniato da diverse ONG).

Figura 1 - Produzione mondiale di banane (1970-2007)

Fonte: nostre elaborazioni su dati FAOSTAT

Figura 2 - Evoluzione della produzione nei principali paesi produttori di banane (migliaia di tonnellate, 1970-2007)

Fonte: nostre elaborazioni su dati FAOSTAT

La figura 3 mostra la produttività dell’industria delle banane per i tre maggiori esportatori (Ecuador, Costa Rica e Colombia) e per alcune aree geografiche individuate (1). Dalla figura si evince chiaramente la differenza di produttività tra le aree caratterizzate dalla coltivazione in grandi piantagioni, dove è possibile realizzare economie di scala, e le regioni africane, caraibiche ed asiatiche in cui prevale la piccola piantagione caratterizzata da una bassa produttività.
Considerando, infine, l’andamento del valore unitario delle esportazioni (Figura 4) si ricava che i valori unitari di esportazione più bassi si registrano nei paesi dove è maggiormente diffusa la grande piantagione come Filippine, Ecuador, Colombia e Costa Rica, mentre quelli più elevati nei paesi caraibici come la Giamaica o St. Lucia. Tale indicatore, stante la limitata disponibilità di dati omogenei, può essere interpretato come una buona proxy dei costi di produzione (Colombo, Tirelli, 2006), confermando quanto sostenuto sui bassi livelli di costo associati ai sistemi di produzione a piantagione dell’America centro meridionale.

Figura 3 - Evoluzione della produttività dell’industria bananiera (t/ha, 1970-2007)

Fonte: nostre elaborazioni su dati FAOSTAT

Figura 4 - Valore unitario delle esportazioni di banane ($/tonnellata, 1970-2007)

Fonte: nostre elaborazioni su dati FAOSTAT

Degli 80 milioni di tonnellate di banane prodotti nel 2006, solo il 21% è stato commercializzato. L’Ecuador si conferma il maggior esportatore mondiale di banane con una quota del 29%. Le banane costituiscono il secondo più importante prodotto di esportazione del paese, rappresentando circa un quarto di tutte le entrate derivanti dal commercio con l’estero.
Il secondo esportatore al mondo sono le Filippine (13,8%), seguite dal Costa Rica (13%). Dei 21,7 milioni di tonnellate dell’India (in assoluto il maggior produttore al mondo), solo 11 mila tonnellate (pari allo 0,07% delle esportazioni mondiali) hanno varcato i confini nazionali. Una situazione analoga si verifica anche per altri grandi produttori come Brasile (1,16%), Cina (0,23%) e Indonesia (0,03%), che hanno una quota di esportazioni limitata a causa dell’elevata domanda interna.
Suddividendo le esportazioni per continente, è l’America Latina a fare la parte del leone tra i paesi esportatori con una quota pari al 67% del mercato mondiale. Le banane prodotte in quest’area sono dirette soprattutto verso Usa, Europa e Canada, e sono le cosiddette “dollar bananas”, sia perché tradizionalmente i paesi di quest’area sono sotto l’influenza del dollaro, sia perché l’industria bananiera è dominata dalle multinazionali americane (come Chiquita, Dole, Del Monte).
L’UE25, con una quota di poco superiore al 40% sul totale delle importazioni mondiali nel 2006, è il principale importatore di banane, seguita dagli Usa (24,2%) e dal Giappone (6,6%). Data la rilevanza del mercato europeo per le importazioni di banane, numerosi analisti attribuiscono al cambiamento nel regime tariffario europeo la causa principale dell’eccesso di offerta registrato negli ultimi anni.

Il ruolo delle multinazionali

A livello mondiale, il sistema competitivo della banana dolce da esportazione è un oligopolio con frangia competitiva (COGEA, 2006). Il commercio internazionale, infatti, è dominato da cinque società multinazionali che controllano oltre l’80% delle esportazioni (Tabella 1): Dole Food Company Inc (USA), Chiquita Brand International (USA), Del Monte Fresh Product (California/Messico), Fyffes (Irlanda) e Noboa (Ecuador).
Secondo i dati della ONG inglese Bananalink (2), la Chiquita, nel corso degli ultimi anni, ha progressivamente perso quote di mercato a favore della Dole che ha consolidato la propria posizione, sia sul mercato europeo sia a livello mondiale, divenendo il principale fornitore di banane. Ciò nonostante, l’incidenza delle vendite di banane sul turnover totale del gruppo resta ancora alto (48% nel 2008), analogamente a quanto si verifica per le altre multinazionali (UNCTAD, 2008).

Tabella 1 - Quota di mercato mondiale delle multinazionali (2007)

Fonte: Bananalink

Gli anni Novanta sono stati caratterizzati da un inasprimento del processo competitivo tra le multinazionali del settore al fine di migliorare e/o mantenere la propria posizione sui differenti mercati di importazione (UE in particolare). I diversi cambiamenti avvenuti a livello di mercato, come la sovrapproduzione di banane e la consequenziale riduzione di prezzo, l’evoluzione del regime di importazione europeo e le continue dispute in sede WTO, così come la crescita del potere di mercato del settore distributivo e il cambiamento delle preferenze dei consumatori, hanno obbligato queste società a riorientare e riformulare le strategie di marketing, al fine di ridurre i costi e migliorare l’efficienza globale. In alcuni casi si è assistito ad una diversificazione del paniere di frutta tropicale da esportazione (ananas, mango, ecc.); in altri, invece, si è puntato alla creazione di alleanze strategiche con operatori europei (per garantirsi un accesso preferenziale al mercato) o alla produzione di banane biologiche (al fine di accaparrarsi le nicchie di mercato). L’effetto più vistoso delle strategie di riorganizzazione resta, comunque, la creazione di nuove piantagioni in paesi lontani dall’America latina. Negli ultimi dieci anni, infatti, seguendo il modello utilizzato in America latina, le multinazionali hanno iniziato a sviluppare piantagioni di grandi dimensioni anche in Africa occidentale (Camerun e Costa d’Avorio) ed Asia (Filippine, Indonesia e Sumatra). Attualmente, la maggior parte delle esportazioni di banane del Camerun sono controllate dalla Del Monte e Dole e mentre la prima ha rafforzato la sua posizione nelle Filippine, Indonesia, Sumatra e nord-est del Brasile, la Dole si sta espandendo nel sud dell’Asia, riducendo nel contempo la sua presenza in Costa Rica, Nicaragua e Venezuela. Chiquita, invece, ha consolidato la propria presenza in Costa Rica e Guatemala (30.000 ha di piantagioni) espandendosi, contemporaneamente, nelle Filippine e in Costa d’Avorio.
Per dare un esempio della diversità di potere contrattuale tra le multinazionali e alcuni paesi produttori, Bananalink sostiene che il totale degli introiti dei paesi ACP produttori di banane è equivalente a circa il 10% delle vendite di Chiquita. Interessante è anche la scomposizione del prezzo finale pagato dal consumatore, fatta sempre da Bananalink, secondo cui solo il 12% del prezzo pagato per ogni banana rimane nel paese produttore (3).
Le caratteristiche precipue della banana richiedono un controllo costante lungo le diverse fasi tecnologiche della filiera; il che spiega, insieme ai vantaggi di costo associati alle economie di scala, l’adozione da parte delle multinazionali di un modello di integrazione verticale della filiera (produzione, trasporto, installazione di attrezzature per la maturazione e la distribuzione nei paesi consumatori). Anche questo aspetto, tuttavia, sembra aver assunto una significatività minore dato che molte di queste società hanno ridotto il controllo diretto sulla produzione stipulando dei contratti di fornitura (particolarmente stringenti in termini di qualità del prodotto) con produttori indipendenti. In tal modo, le multinazionali riescono a mettersi al riparo sia dai rischi naturali legati alla produzione agricola sia dalla responsabilità diretta dei costi sociali ed ambientali connessi alla coltivazione del banano, trasferendoli direttamente ai produttori. In merito a quest’ultimo aspetto, bisogna considerare che la banana è un frutto molto vulnerabile e nelle piantagioni il sistema per ottenere raccolti quantitativamente elevati è dato dall’uso di pesticidi, fungicidi e fertilizzanti chimici, tanto che in America latina la banana è anche nota come la “fruta quìmica”. Ma la coltivazione nelle piantagioni significa anche disboscamento delle foreste eliminate per far posto alle piante di banano, erosione del suolo ed inquinamento delle falde acquifere (contaminate dai pesticidi), oltre alla violazione dei diritti fondamentali dei braccianti agricoli.
Le multinazionali sono perfettamente consapevoli di essere state oggetto di campagne di boicottaggio da parte di gruppi di associazioni di consumatori occidentali. Forse anche per questo alcune di loro, in un momento in cui sempre di più si parla di rispetto dell’ambiente e di responsabilità sociale delle imprese, hanno cercato di dare un’immagine diversa ai consumatori del proprio operato. Nel 2002, ad esempio, Chiquita ha pubblicato un documento sulla responsabilità sociale di impresa in cui si impegnava a collaborare con i sindacati e con i propri fornitori per rispettare gli standard previsti dall’International Labour Organization.

Le banane del commercio equo nell’esperienza europea

Le prime banane del COMES, le banane a “marchio Okè”, furono introdotte sul mercato olandese nel 1996 e poco tempo dopo anche su quello svizzero. Era la prima volta che un’organizzazione di commercio equo importava un prodotto fresco e il successo dell’iniziativa fu tale che la ONG olandese “Solidaridad” diede vita ad AgroFair, la prima società di importazione di prodotti tropicali costituita come impresa di produttori (il 50% del capitale, infatti, è detenuto direttamente dalle cooperative di produttori).
Attualmente il sistema Agrofair propone frutta tropicale (banane, ananas, mango e agrumi) equo e solidale in molti paesi europei e dal 1996 ad oggi le vendite si sono quadruplicate, grazie alla creazione di accordi commerciali con le catene della GDO: significativi i casi di Coop Svizzera e Sainsbury nel Regno Unito che hanno deciso di sostituire tutte le banane in assortimento con banane del COMES. Da citare anche i casi del Benelux (Carrefour, Albert Heijn), Austria (Spar, Billa), Italia (Esselunga), Danimarca, Finlandia, Francia e Germania.
Nel 2007 il volume di vendita complessivo di AgroFair ha superato gli 83,7 milioni di kg, di questi l’80,4% è rappresentato da banane, l’8,3% da agrumi e la restante parte da ananas (7%), mango (2,3%) e altra frutta (1,3%); in valore, il fatturato 2007 ha superato i 67 milioni di euro e le previsioni per il 2008 evidenziano una crescita del 19,4%. Rispetto al 2003, l’incremento nei volumi di vendita di banane ha superato il 110%, con le banane a lotta integrata (Fairtrade) aumentate del 101% e quelle biologiche del 244% (tab. 2). In tal senso è possibile affermare che il COMES è riuscito a soddisfare, da una parte, la crescita di domanda che privilegia la produzione derivante da agricoltura biologica e che rispetti determinati standard di sostenibilità ambientale e sociale (in termini di modalità di produzione) e, dall’altra, gli standard, sempre più vincolanti, imposti dalla GDO relativi alla qualità del prodotto e alle sue caratteristiche. Preme far osservare che il COMES non è di per sé un marchio di produzione agricola di tipo biologico. Tuttavia, esiste una stretta relazione tra l’agricoltura biologica ed i prodotti equo. Il movimento del COMES, infatti, privilegia l’agricoltura di tipo biologico pagando un premio extra (in genere di 15$ per 100 libbre) per i prodotti agricoli che rispettano questi standard. Ne consegue che buona parte dei prodotti COMES sono di tipo biologico.
I produttori, dal canto loro, si impegnano a rispettare una serie di criteri: reinvestire una parte dei guadagni in progetti di sviluppo che vadano a vantaggio di tutta la comunità; favorire la partecipazione delle donne ai processi decisionali; mantenere una struttura democratica dell’organizzazione e promuovere lo sviluppo della stessa nella regione di appartenenza.

Tabella 2 - Evoluzione dei volumi di vendita delle banane commercializzate da AgroFair (milioni di kg)

* Si tratta di banane provenienti da produttori del mercato tradizionale colombiano che hanno instaurato delle relazioni di partnership con groFair come fornitori stabili
Fonte: AgroFair

Le banane del COMES vendute in Europa provengono da quindici gruppi di produttori in sei paesi: Ghana, Ecuador, Rep. Dominicana, Colombia, Costa Rica e Filippine.
L’equità viene attestata dai diversi marchi di garanzia europei aderenti a FLO International (4), che certifica i produttori anche sulla base di criteri sociali e ambientali. Nello specifico, i diversi criteri stabiliti da FLO International in merito alle banane possono essere così sintetizzati:

 

  • il pagamento di un prezzo equo, al riparo delle fluttuazioni del mercato, ai piccoli produttori appartenenti a cooperative indipendenti: questo prezzo può arrivare fino a 6 volte quello pagato dagli intermediari locali e non può comunque mai scendere sotto un minimo prefissato;
  • la garanzia di salari equi e buone condizioni di lavoro per i lavoratori nelle piantagioni (i luoghi, i macchinari e gli strumenti di lavoro devono essere sicuri e non comportare alcun rischio per la salute del lavoratore);
  • il pagamento del fair trade premium (sovrapprezzo di solidarietà) che sostiene lo sviluppo delle comunità attraverso il finanziamento di strutture quali scuole e assistenza medica di base, così come programmi per il miglioramento della qualità e la conversione al biologico;
  • l’instaurazione tra importatori e produttori di relazioni stabili e di lungo termine nelle quali gli interessi e i diritti di entrambi siano garantiti con finanziamenti anticipati anche in situazioni di andamento negativo del mercato;
  • la tutela del diritto dei lavoratori ad aderire e/o formare organizzazioni sindacali e a redigere propri statuti e regole, eleggere propri rappresentanti e formulare propri programmi;
  • la pratica di un’agricoltura sostenibile che limiti l’uso di pesticidi chimici e che contribuisca a proteggere e rispettare l’ambiente naturale (le piantagioni non si devono espandere a danno delle foreste, aree protette e sorgenti d’acqua);
  • il non utilizzo di manodopera infantile nella misura in cui il lavoro metta a rischio l’educazione del minore e comunque in ogni caso in cui la funzione possa rivelarsi pericolosa per la salute in relazione all’età.

In Italia, le prime banane equo solidali sono arrivate verso la fine del 2000 con la campagna di sensibilizzazione “Plazas del sur” del consorzio Ctm Altromercato (per brevità Ctm), la principale centrale di importazione italiana (5) , e di tutte le Botteghe del Mondo (BdM) che hanno aderito all’iniziativa a sostegno dei diritti dei produttori di banane. Di lì a breve, venne sviluppata la prima esperienza di co-branding tra una struttura di COMES, Ctm, e un leader della GDO italiana, Esselunga, che vide la commercializzazione nei suoi punti vendita della banana biologica da filiera Ctm-equo solidale.
Le banane biologiche e quelle a lotta integrata, vendute in Italia, provengono dalle coltivazioni dell’associazione El Guapo dell’Ecuador e della cooperativa Copetrabasur del Costa Rica (6).
Il prezzo di mercato in Ecuador, a fine 2005, era in media sui 3 $ per cartone ma, come denunciano i contadini, un cartone di banane può essere pagato anche soltanto un dollaro poiché il produttore deve sostenere anche i costi di imballaggio e del cartone. Ai produttori dell’associazione El Guapo, Ctm corrisponde un prezzo di 7 $ al cartone (18,14 kg) per le banane a lotta integrata e di 9 $ per quelle da agricoltura biologica. A sua volta la cooperativa paga al singolo produttore 4 $ netti a cartone per le banane a lotta integrata e 6 $ netti per quelle bio. È escluso il costo del cartone ed altri materiali di imballaggio (sacchetti di plastica, bollini, etc.), che viene sostenuto dalla cooperativa. Il prezzo corrisposto viene, quindi, svincolato dalle logiche di mercato fornendo ai produttori un prezzo minimo che garantisce condizioni di vita dignitose. Al prezzo minimo garantito, inoltre, viene aggiunto un Fair trade premium (sovrapprezzo di solidarietà) che, nel caso dei prodotti alimentari, è pari a cinque dollari per ogni 100 libbre importate, rispetto al prezzo stabilito dalle Borse merci. Infine, attraverso il meccanismo del prezzo trasparente, per il quale il prezzo pagato viene scorporato per voci (con valori assoluti e in percentuale) che indicano quanto è andato al produttore, quali sono le spese di confezionamento, trasporto, eventuali tasse, nonché il margine dell’importatore e della BdM che rivende il prodotto, il consumatore può prendere “coscienza” di quello che paga quando acquista le banane del COMES (Tabella 3).
I prezzi delle banane equo sono concorrenziali, in quanto inferiori del 20-25% a quelli delle altre banane “bio” (ma superiori a quelli delle banane convenzionali del 50%). Ciò risulta, insieme alla visibilità, un vantaggio sostanziale per il loro successo. A testimoniare la crescita delle banane equo sul mercato italiano, le organizzazioni del COMES affermano che oltre la metà delle banane attualmente vendute in Italia sono equo. Il successo di vendita delle banane equo in Italia, la cui domanda è veicolata soprattutto dalla GDO (7) che rappresenta il 63% delle vendite, ha portato alla nascita di Ctm AgroFair, una joint venture tra Ctm (50%) e AgroFair Europe (50%), per gestire la filiera ortofrutticola dei prodotti equo commercializzati sul mercato italiano.
La joint venture ha come oggetto sociale:

  • l’importazione e commercializzazione all’ingrosso di prodotti agroalimentari provenienti da produttori del commercio equo e solidale;
  • la promozione di questa attività commerciale abbinata a iniziative di divulgazione e informazione sui problemi dello sviluppo dei paesi del sud del mondo.

I dati relativi all’ultimo esercizio (2007-2008) evidenziano una crescita del fatturato di Ctm Agrofair del 18% per un valore complessivo superiore agli 8 milioni di euro, con le banane che rappresentano oltre l’85% del fatturato.

Tabella 3 - Prezzo Trasparente per una vaschetta di banane a lotta integrata

Fonte: Ctm Altromercato

Conclusioni

Le banane sono il frutto fresco più esportato nel mondo in termini di volume e rappresentano, in termini di valore lordo di produzione, la quarta coltura alimentare del mondo, per ordine di importanza, dopo il riso, il grano e il mais.
Una delle caratteristiche del mercato delle banane è il ruolo svolto dalle grandi imprese multinazionali che controllano l’intera filiera produttiva. Le multinazionali che risultano maggiormente coinvolte nella produzione sono Dole e Del Monte, per le quali più del 50% delle banane esportate deriva da piantagioni proprie. Negli ultimi anni queste multinazionali stanno progressivamente riducendo la propria partecipazione diretta nella produzione delle banane concentrandosi sulle attività a maggior valore aggiunto (esportazione e distribuzione). Inoltre, le campagne di sensibilizzazione promosse, a livello internazionale, da numerose ONG circa il mancato rispetto degli standard sociali e ambientali nella produzione delle banane hanno fatto sì che le multinazionali si disimpegnassero dalla produzione diretta scaricando la responsabilità del rispetto degli standard direttamente sui produttori locali.
Il commercio equo solidale in Europa è ormai una realtà affermata, con un’esperienza di oltre quarant’anni ed un giro d’affari stimato superiore ai 260 milioni di euro. I principi base a cui fa riferimento il COMES, sintetizzabili nella notissima frase “Trade, not Aid”, sono molto diversi da quelli utilizzati da una normale impresa che opera sul mercato internazionale. I partner del COMES, infatti, sono piccoli produttori dei PVS organizzati su base partecipativa e gli elementi contrattuali di base sono: uguaglianza delle parti nella determinazione del prezzo; stipula di accordi di medio-lungo periodo che consentono una stabilità economico-finanziaria; pagamento anticipato di una parte dell’ordine (per dare la possibilità di coprire i costi di produzione); rispetto dell’ambiente (mediante incentivi nel caso in cui i beni siano prodotti in modo biologico); risorse supplementari che i produttori utilizzano per miglioramenti di tipo sociale (sanitario, ambientale, educativo, infrastrutturale).
Il commercio equo e solidale è sicuramente un’opportunità per i piccoli produttori di presentarsi sul mercato senza l’intervento di intermediari che operino speculazioni sui prezzi, di crescere dal punto di vista tecnologico, sociale ed economico. Si tratta, quindi, di una sorta di aiuto all’autosviluppo locale delle zone in cui le produzioni vengono effettuate, ma non può essere una soluzione della dipendenza da un numero limitato di produzioni agricole per l’esportazione.
Per molte ONG la banana è sinonimo di sfruttamento - delle persone come del territorio - e di insostenibilità economica. Per il COMES è divenuto il simbolo di tutto ciò che si voleva cambiare ed oggetto di campagne di sensibilizzazione e di boicottaggio.
Verso la fine degli anni Novanta, le prime banane a marchio equo hanno iniziato ad essere presenti in tutti i paesi dell’Europa occidentale. In Italia, la banana è stata il primo prodotto del commercio equo e solidale a superare la simbolica quota di mercato dell’1% delle vendite totali (attualmente ha superato il 50%) e, come affermato da L. Guadagnucci e F. Gavelli, «l’avventura della banana prova che il fair trade può cimentarsi in imprese difficili sotto il profilo imprenditoriale e ottenere grossi risultati».
Per uno sviluppo futuro del movimento dovrà restare priorità assoluta il sostegno e la collaborazione con i piccoli produttori che operano nel Sud del Mondo, costruire con loro modalità di accesso al mercato e al credito, sperimentare una vita dignitosa in cui lavoro, diritti, ambiente siano elementi di uno stesso progetto. Tutto questo rimarrà sempre valido ma è necessario un rafforzamento dell’azione politico-sociale sia all’interno del movimento, per coinvolgere un numero crescente di produttori, sia verso l’esterno, per stimolare l’applicazione dei principi del commercio equo a livello del mercato e per diffondere una coscienza critica nei consumatori dei paesi più “sviluppati”.

Note

(1) La produttività dell’Africa è stata calcolata come media di Cameron, Costa d’Avorio e Senegal; quella dell’America Centrale è calcolata come media di Panama, Honduras, Nicaragua e Guatemala; per l’Asia come media di Indonesia, India, Filippine e Cina; per i Carabi come media di St. Lucia, Rep. Dominicana, St. Vincent e Grenadine, Guadalupe, Martinica e Jamaica.
(2) Bananalink è la più importante cooperativa no-profit europea impegnata, dal 1996, nella promozione di un commercio equo e sostenibile per i produttori di banane dell’America latina e dei Caraibi.
(3) Se il 12% del prezzo pagato resta nel paese di origine, ai piccoli produttori va in media dal 5 al 10%, ai braccianti tra l’1 e il 2%; si devono poi aggiungere i costi accessori (trasporto, maturazione controllata e dazi). Secondo Bananalink il grosso del guadagno è a favore della GDO alla quale spetterebbe il 35-40% del prezzo pagato dal consumatore.
(4) FLO International (Fair Trade Labelling Organizations) è un’organizzazione non governativa che coordina i diversi organismi di certificazione dei prodotti del COMES, al fine di favorire l’inserimento dei prodotti alimentari nella rete distributiva tradizionale. FLO International, inoltre, detiene il registro dei produttori, degli importatori, dei trasformatori e dei licenziatari per ciascun tipo di prodotto. Ad esempio, le organizzazioni di produttori di banane iscritte attualmente nei registri di FLO sono 28, disseminate tra America Latina, Caraibi ed Africa.
(5) Gli attori principali coinvolti nella rete del COMES sono essenzialmente tre: le centrali di importazione dette anche ATO (Alternative Trade Organization); le organizzazioni di piccoli produttori e le Botteghe del Mondo. I tre attori, semplificando il meccanismo, interagiscono nel seguente modo: la centrale di importazione stabilisce dei contatti con una organizzazione di produttori situata in un PVS e commercializza i beni (alimentari e/o artigianato) nei mercati europei attraverso le BdM, negozi specializzati nella vendita di questo tipo di prodotti.
(6) L’Asociacion de Productores Bananeros El Guapo è un’associazione di produttori di banane nel sud ovest dell’Ecuador composta da 350 membri per un totale di 1000 ha di terreni: di questi produttori circa un centinaio sono certificati biologici e gli altri producono banane a lotta integrata, in conversione. Copetrabasur nasce nel 1980 dopo che Chiquita decise di abbandonare le proprie piantagioni nella regione sud del Costa Rica, al confine con Panama: una settantina di ex lavoratori diventarono proprietari della struttura e acquisirono 300 ha di terra. Oggi Copetrabasur è una cooperativa autogestita che occupa circa 150 persone, oltre ai 69 soci fondatori, ed è certificata fair trade dal 1997 (Fonte: Ctm AgroFair).
(7) Le banane equo, oltre che da Esselunga, possono essere acquistate nei punti vendita di NordiConad, Conad Tirreno, Sigma, Despar, Standa/Billa); i prodotti sono venduti con il marchio del cliente (private label) e con l’indicazione di provenienza dalla filiera equo e solidale di Ctm.

Riferimenti bibliografici

  • AgroFair Europe B.V. (2008), Annual Report 2007
  • COGEA (2005), Évaluation de l’Organisation Commune de Marché (OCM) dans le secteur de la banane, Rapport final, Volume I
  • Colombo E., Tirelli P. (2006), Il mercato delle banane ed il commercio equo e solidale, Università degli Studi di Milano – Bicocca
  • Guadagnucci L., Gavelli F. (2004), La crisi di crescita, Le prospettive del commercio equo e solidale, Feltrinelli, Milano
  • Licciardo F. (2003), Gli standard sociali nel sistema agroalimentare: il caso del commercio equo e solidale nel mercato del caffè e delle banane, Tesi di laurea, Biblioteca Universitaria di Lugano
  • S. Lorigliola, D. Marani (a cura di), Casco bene!, I dossier Ctm Altromercato 9/2005, Verona
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