Le filiere zootecniche italiane di fronte ai nuovi scenari di mercato e di politica agraria

Le filiere zootecniche italiane di fronte ai nuovi scenari di mercato e di politica agraria

Un nuova questione agraria?

Sulla stampa di queste ultime settimane sono apparse due notizie fortemente in contrasto tra loro: da un lato – evento inusuale per la stampa non specializzata –, lo sciopero del latte con la protesta dei produttori di tutta Europa culminata nella distruzione del latte munto e, dall’altra, il vertice promosso dalla FAO sull’emergenza alimentare che sta interessando l’intero pianeta e che ha riproposto la questione di una insufficienza di alimenti soprattutto a danno dei paesi più poveri del mondo.
Da una parte, dunque, si registra la difficoltà a rendere le attività agricole economicamente convenienti e dall’altra, si verifica una situazione di scarsità di cibo accompagnata ad una difficoltà di “accedere al cibo” per le fasce di popolazione a minor reddito quindi più deboli sia per i paesi in via di sviluppo, ma (e questo è un fatto nuovo), anche per i paesi industrializzati.
Quest’apparente contraddizione costituisce la fotografia in cui versa il sistema zootecnico europeo e, dunque, anche italiano, che vede, al di là della tipologia di animale allevato, un’oggettiva difficoltà a remunerare i produttori a seguito dell’incremento del costo delle materie prime (in primis i cereali) e la difficoltà dei consumatori ad acquistare questi alimenti.

Forse, il periodo che ci stiamo apprestando a vivere lascia presupporre l’avvio di una nuova fase storico-culturale in cui la “questione agraria”, finora vissuta come esclusivamente “interna” al settore agricolo, evolve verso un nuovo concetto che coinvolge direttamente i consumatori e gli intermediari produttivi e commerciali che compongono le filiere alimentari. Mentre, fino ad ora, la questione agraria era confinata al settore agricolo e riguardava in prevalenza i meccanismi di gestione fondiaria e di remunerazione del lavoro agricolo, oggi si apre a una prospettiva di più ampio respiro, che tocca da vicino gli interessi dei consumatori e, dunque, dei cittadini.
Essa traduce la capacità dell’agricoltura di produrre cibo sano, salubre e ottenuto possibilmente con tecniche rispettose dell’ambiente, in quantità sufficienti a soddisfare la domanda dei consumatori mondiali ad un prezzo a loro accessibile. Questa funzione dell’agricoltura, sintetizzata dalla definizione della FAO di food security, vede il coinvolgimento, oltre che del settore agricolo, anche degli attori della filiera a monte e a valle dell’agricoltura (le industrie chimiche, la grande industria impegnata nella trasformazione e nella commercializzazione, fino alla distribuzione) e della politica dei governi che rende possibile l’attuazione di strategie produttive commerciali, di sostegno al settore.
Il vero nodo, ancora una volta, è come coniugare le istanze dei produttori agricoli e dei consumatori. Non adottare politiche che siano distorsive del mercato e dannose per la sostenibilità dei paesi con economie molto precarie, come i paesi in via di sviluppo, ma allo stesso tempo garantire cibo, possibilmente di qualità, ad un prezzo accessibile.

Un nuovo paradigma per il settore zootecnico

Certamente la zootecnia rappresenta la punta dell’iceberg di questo nuovo paradigma che si viene a delineare in quanto l’allevamento del bestiame richiede una doppia trasformazione degli input. La prima, a livello dell’azienda agricola dei foraggi e/o cereali, e la seconda, a livello industriale dei beni ottenuti per dare loro quel valore aggiunto e quel contenuto di servizio che i consumatori (soprattutto dei paesi sviluppati) richiedono.
La situazione, per certi versi drammatica, che caratterizza il settore zootecnico italiano è quindi riconducibile ad una partita che vede il diretto coinvolgimento di cinque grandi attori: i produttori agricoli, l’industria alimentare, la distribuzione, i consumatori e la politica agricola.

I produttori agricoli

I produttori agricoli rappresentano la componente più debole in quanto, anche se sono stati raggiunti notevoli livelli di efficienza produttiva e pregevoli livelli di qualità, si presentano nei rapporti con il mercato molto polarizzati e, conseguentemente, con uno scarso potere contrattuale rispetto ai loro interlocutori commerciali.
Se, da un lato, la presenza di piccoli produttori nel territorio rurale rappresenta una innegabile ricchezza – soprattutto se le aziende sono localizzate nelle aree interne – dall’altra la frammentazione produttiva conduce ad una innegabile condizione di debolezza commerciale nelle trattative, che vedono sempre di più superare il concetto di “prezzo di mercato”, a vantaggio di un prezzo che scaturisce da contratti di integrazione tra le associazioni di trasformatori e le associazioni di allevatori (è il caso del latte, della carne avicola, della carne bovina e della carne suina). Questa ultima tipologia di contratti presenta vantaggi sia per l’impresa integrata (gli allevatori) che per l’impresa integrante (l’industria), primo tra tutti la riduzione del rischio di mercato degli allevatori, ma è indubbio che renda il sistema/mercato più rigido, ritardando gli adattamenti di prezzo al variare della domanda o al variare dei costi di produzione. Inoltre, il ricorso ad una economia contrattuale richiede una forza contrattuale che attualmente nonostante gli sforzi profusi dal legislatore è decisamente sbilanciata a favore dell’industria.
Il nodo diventa proprio la scarsa propensione e capacità delle aziende zootecniche a costituire organizzazioni di rappresentanza con forte potere contrattuale. Quindi, occorre l’azione di Organizzazioni di Produttori in grado di rapportarsi ai tavoli interprofessionali creando vere e proprie interprofessioni capaci di gestire il settore imponendo una azione di governance che, tenendo conto delle condizioni di mercato, valorizzi le produzioni zootecniche.
La scarsa capacità di esercitare un’azione di questo tipo forse è la causa principale del quadro congiunturalmente negativo che la nostra zootecnia sta attraversando. Anche produzioni di grande qualità, come alcune blasonate produzioni tipiche italiane – Parmigiano Reggiano e Prosciutto di Parma –, mettono in evidenza proprio la scarsa capacità di gestione delle condizioni di crisi che non sono più “congiunturali” ma sono sempre di più legate alla capacità di creare relazioni all’interno della filiera, lasciando spazio alla costruzione di rapporti con gli altri interlocutori commerciali basati su logiche nuove.
Un esempio in questo senso è stato fornito da un recente convegno promosso dal Consorzio del Parmigiano Reggiano – altro settore in grave crisi di prezzi – sulla possibilità di introdurre un sistema di controllo dell’offerta per i prodotti DOP. Ebbene, l’esperienza portata dal Consorzio del formaggio Comté dimostra come, per pianificare la produzione senza infrangere le regole della Commissione antitrust francese, sia stata costituita una interprofessione (Comité Interprofessionnel du Gruyère de Comté) la quale impegna produttori e commercianti a collocare l’aumento produttivo pianificato adottando le necessarie strategie e azioni commerciali (Bret, 2008). Purtroppo, il Consorzio del Parmigiano Reggiano, come nessun altro Consorzio di tutela delle DOP, non si presenta come una vera Interprofessione (la legislazione attuale non gli consente di esserlo) e gli effetti sono tutti sotto i nostri occhi (Giacomini, 2008).

L’industria alimentare

Dal canto suo, l’industria alimentare, soprattutto se ha come sbocco commerciale la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), si trova a competere usando strategie sempre più basate su elementi quali la qualità, l’innovazione, la marca e il prezzo. Dove qualità, innovazione e marca sono elementi imprescindibili per perseguire una politica di costruzione della reputazione e per poter dialogare ad “armi pari” con la GDO. In questo scenario, il prezzo che si forma tra imprese e GDO è legato non solo alla qualità della materia prima, ma anche alla reputazione dell’azienda – quindi alla sua capacità di attrarre i consumatori – e alla sua efficienza logistica.
La strategia intrapresa dalle industrie di trasformazione dei prodotti zootecnici è quindi ricorrere a economie di scala, con impianti di trasformazione e reti logistiche molto efficienti e, soprattutto, in grado di comprimere i costi di trasformazione e garantire alla distribuzione prezzi e consegne adeguate. Non deve quindi stupire se queste imprese tentano di recuperare marginalità cercando di remunerare meno le materie prime, giustificando la loro disponibilità a pagare anche sulla base dei costi che devono sostenere per competere e per poter avere “un posto al sole” presso la GDO.
Da questa chiave di lettura si comprende come mai alcune produzioni zootecniche siano particolarmente “fragili” nei rapporti con la GDO, in quanto molte produzioni zootecniche sono ancora oggi “unbranded”: è il caso della carne bovina e suina, ma anche di molte DOP importanti per le quali il marchio dell’industria produttrice, che si relaziona direttamente con la GDO, è assolutamente sconosciuto ai consumatori e dove il livello di innovazione, soprattutto come contenuto di servizi, è molto modesto.

La GDO

Per contro, proprio la GDO rappresenta l’anello della filiera che, al momento, per molte produzioni alimentari, tra cui quelle di origine zootecnica, raggiunge una marginalità più elevata rispetto agli altri attori della filiera.
La forza della GDO deriva da molteplici aspetti. Il primo è legato all’alto potere contrattuale nei confronti dei fornitori, derivante dalla creazione di gruppi di acquisto che rappresentando catene distributive sempre più ampie, sono in grado di concentrare ulteriormente la domanda nelle mani di pochissimi buyer.
Un secondo motivo deriva dal forte ricorso delle private label per i prodotti di maggior volume di vendita (private label di primo prezzo) e ai prodotti di qualità che consentono un ritorno in chiave di immagine. Esempi significativi sono: le linee Sapori e dintorni Conad, Fior Fiore Coop, Naturama Esselunga. La strategia della marca commerciale consente alle imprese distributive di “risparmiare” in ricerca e sviluppo proponendo alla clientela beni che, nel vissuto del prodotto, hanno già un’elevata visibilità o che, come nel caso della carne bovina, consentono alla GDO di offrire una promessa di qualità firmando produzioni che, di fatto, si presentano senza marchio industriale. Quest’ultima strategia vede il diretto coinvolgimento dell’azienda distributrice all’interno della filiera consentendo, tra l’altro, di far valere il suo potere contrattuale nei rapporti di integrazione e di risparmiare sui costi di costruzione della marca rispetto alle imprese industriali.
Infine, il terzo elemento che contribuisce a rafforzare la GDO è rappresentato dall’organizzazione logistica. Quest’ultima consente di recuperare i costi di gestione delle merci attraverso la costruzione di piattaforme capaci di servire i loro punti vendita per omogeneità, tempestività e qualità delle derrate, imponendo ai fornitori dei vincoli organizzativi ai quali si devono necessariamente adeguare.
In sintesi, la GDO da molto tempo ha associato alla funzione distributiva anche la funzione di selezione dei prodotti e delle aziende, sino a condizionare direttamente il comportamento dei consumatori, proponendo (se non imponendo) stili di consumo che associano sempre più lo “stile” della catena allo “stile” dei consumatori (Holbrook, 1982).

I consumatori

Proprio in nome dei consumatori, sia le imprese di trasformazione che quelle distributive sviluppano le loro strategie, arricchendo i beni offerti di servizi, qualità e valore aggiunto. Tuttavia, i consumatori diventano sempre più consapevoli delle loro azioni di acquisto e, in questo, i media e le stesse Associazioni di consumatori esercitano un ruolo sempre più importante per informare e accrescere la consapevolezza, sino a condizionare le strategie di chi produce, se non addirittura le politiche ad esse collegate (Internazionale, 2007). Un esempio concreto in questo senso è stata la normativa varata in sede comunitaria sul benessere degli animali, la quale è nata proprio a seguito della forte azione di lobbing degli “animalisti” nord europei.
Dopo gli scandali alimentari legati alla BSE, alla diossina nelle carni, e ai rischi di influenza aviaria, nuovi elementi di disorientamento per i consumatori sembrano profilarsi, tra questi la possibilità che l’Europa apra le porte alle produzioni zootecniche targate USA (ottenute con l’uso di ormoni e altre sostanze non accettate in Europa) e la questione ambientale.
Il pericolo relativo all’importazione di carne americana è, al momento, sospeso ma la posizione dell’Unione Europea è alquanto precaria, in quanto il Panel del WTO, fino ad ora, ha dato ragione al governo statunitense. Alla ripresa delle trattative sul WTO dopo l’elezione del nuovo presidente USA, analoga controversia potrebbe estendersi anche ad altri paesi produttori di carne (Brasile e Argentina in primis) rispetto ai quali diventerà difficile imporre ulteriori ostacoli all’importazione giustificandoli con il potenziale rischio sanitario.
Per contro, la “questione ambientale” legata alle produzioni zootecniche potrebbe essere un ulteriore serio elemento di disincentivazione del consumo di questi alimenti. Ancora un volta, è la stampa di questi ultimi mesi ad indicare la produzione di carne bovina come una delle principali cause della produzione di anidride carbonica e quindi di surriscaldamento del pianeta (FAO, 2007; Bittman, 2008). Al momento, è davvero difficile ipotizzare se la consapevolezza su questo problema possa spostare ampie fasce di consumatori dalle produzioni animali a quelle vegetali. Certo è che la questione ambientale, sommata all’elevato costo dei cereali e del petrolio (non dimentichiamo che la carne per essere conservata deve essere refrigerata), potrebbe avere effetti significativi sul comportamento dei consumatori e quindi sulla filiera.
Al di là di questi aspetti, l’attuale crisi dei prezzi, paradossalmente, mette in crisi il sistema alimentare basato sulla famosa dieta mediterranea (Granello, 2008) per aprire ad altre diete, apparentemente meno costose, basate sull’uso di proteine animali a basso costo (carne di pollo) ma anche su prodotti che incarnano il “cibo spazzatura” (tra cui gli hamburger di Mc Donald), fino ad ora additati per i problemi legati alla diffusione dell’obesità ma che, oggettivamente, consentono alle fasce più deboli di nutrirsi a basso costo.

Il ruolo della politica agricola

Non a caso, il ruolo e l’azione delle politiche agricole europee spaziano dalle politiche a sostegno del reddito degli agricoltori a quelle di vera e propria riduzione del rischio di intossicazioni alimentari: dalla food security alla food safety.
Mentre le azioni nate a seguito degli scandali alimentari sembrano aver dato le risposte necessarie, mettendo a punto strumenti e procedure per incrementare il livello di fiducia nel sistema agroalimentare e a dare maggiori garanzie sulla salubrità del prodotto (Arfini, 2007), i risultati nel campo delle politiche a sostegno del reddito non hanno ancora dato i frutti sperati e la Commissione Europea sta imboccando un nuovo percorso – rappresentato dalla riforma contenuta dall’Health Check – i cui effetti sul reddito e sull’offerta dei beni agroalimentari sono ancora tutti da verificare. Nonostante le affermazioni del Presidente Barroso e del Commissario Fischer Boel alla presentazione dell’Health Check alla stampa (Fischer Boel, 2008), alla luce degli avvenimenti di queste settimane, è lecito domandarsi come il “PUA regionalizzato” possa garantire un’adeguata offerta di alimenti di qualità e contribuire alla sopravvivenza delle nostre aziende zootecniche.
Queste ultime, infatti, rischiano di essere penalizzate dalla regionalizzazione dei sussidi vedendosi ridurre (anche a seguito della modulazione) il valore complessivo dei pagamenti ricevuti (Giacomini, 2008.b). Molto probabilmente le grandi aziende riusciranno a riorganizzarsi ma le piccole e medie aziende – soprattutto quelle che hanno usato presso le banche il pagamento disaccoppiato della quota latte a garanzia – potrebbero trovarsi in ulteriori difficoltà. E’ vero che il PUA ha specificatamente una funzione di remunerazione degli agricoltori – e degli allevatori – per gli aspetti ambientali (Frascarelli, 2007), ma in questo momento la “funzione” che interessa maggiormente la maggior parte dei consumatori – e quindi dei cittadini – sembra differente. A questo riguardo, un capitolo contenuto nell’Health Check assume un particolare rilievo per le aziende zootecniche; esso riguarda la soppressione delle quote latte nel 2015. Su questo argomento il lettore troverà un lavoro appositamente dedicato in questo numero di Agriregionieuropa ma è chiaro che questa azione rappresenta un’ulteriore spinta verso il mercato e verso la creazione di un mercato meno distorsivo e più rispondente ai segnali del mercato. In questo, la decisione di rimuovere le quote latte rappresenta una precisa volontà politica di dare risposta a problemi di politica agricola sia sul versante interno (aumento della domanda e valore eccessivo delle quote latte) che esterno (la riduzione dei dazi all’importazione).
Da questa azione, però, discende un aspetto – solo italiano – rappresentato dalla oggettiva sperequazione nei confronti dei produttori che, indebitandosi, hanno acquistato quote latte a vantaggio di quegli allevatori che, invece, le quote le hanno vendute ma hanno ciononostante raddoppiato, se non quintuplicato, la produzione di latte nei loro allevamenti. Proprio la Corte dei Conti ci ricorda come ad oggi la bolletta per il periodo 2004/2006 che il Ministero dell’Economia ha dovuto ripianare all’AGEA ammontava a ben 519 milioni di euro – ma il debito complessivo a fine campagna 2006/07 ammonterebbe a 1.537 milioni di Euro – (Capparelli, 2008). La gestione di questo problema diventa cruciale perché darà l’esatta misura della volontà da parte della politica di creare un mercato in cui i produttori si misurano allo stesso livello, competendo sulla base della qualità e della capacità relazionale con gli altri interlocutori della filiera e non “truccando le carte”.
Lo scenario economico sociale complessivo che si presenta risulta, dunque, alquanto complesso e articolato. Per affrontare le istanze sollevate dalla nuova questione agraria, occorre che la politica governi l’equilibrio tra i vari attori coinvolti, agricoltori, industria, distribuzione e consumatori, in una nuova logica di efficienza e trasparenza del sistema.

Riferimenti bibliografici

  • Arfini F. (2007). PAC e consumatori, Agriregionieuropa, n.3.
  • Bittman M., (2008). La bistecca fa male alla Terra: l’effetto serra cambia la dieta), La Repubblica, 24 gennaio 2008.
  • Bret J.,J. (2008). Gestione dell’offerta o gestione della crescita? Esempio del formaggio DOP Comté. In Atti del Convegno La gestione produttiva delle Denominazioni d’Origine Protette di fronte alla normativa Antitrust. Prospettive per i formaggi a Denominazione d’Origine Protetta in vista della liberalizzazione dei mercati, Reggio Emilia, 6 Giugno 2008.
  • Capparelli A. (2008). E lo Stato ha già pagato 519 milioni, Agrisole, 22 febbraio, n.13.
  • FAO (2007). Climate change and food security: a framework document, disponibile sul sito [pdf]
  • Fischer Boel M. (2008). Speech 08/255, The CAP Health Check: straight ahead for responsive and sustainable farming,  Presentation of the Health Check Proposal to the COMAGRI, Strasbourg, 20 May 2008
  • Frascarelli A. (2007). Il futuro della PAC: sostegno dei redditi e politica ambientale, Agriregionieuropa, n.3
  • Giacomini C. (2008.1). Il Parmigiano e le regole del marketing, L'Informatore Agrario n. 16, pag. 7
  • Giacomini, C. (2008.2). La riforma del 2003 e prospettive dell’Italia dopo le proposte dell’Health Check, Vegetalia, Cremona, 22 febbraio 2008.
  • Granello L. (2008) Dieta mediterranea: così tramonta il mito italiano, La Repubblica, 4 giugno 2008.
  • Holbrook M.B, Hirshmann E.C, (1982). The experimental aspects of consumptions: consumer fantasies, feelings and fun, Journal of consumer research, n.9.
  • Internazionale (2007). Votare al supermercato, 16 marzo, n. 686, anno 14, pp. 32-38.
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