Il concetto di distretto biologico
L’Italia, tra tutti i paesi con una consistente superficie condotta in regime biologico, è senza dubbio quello con la maggiore presenza di aree caratterizzate da un tessuto produttivo omogeneo basato su aziende di piccole e medie dimensioni. Non deve sorprendere, quindi, che i recenti interventi di indirizzo e di regolamentazione del settore, a differenza di quelli emanati in altri Paesi, ne abbiano considerato con particolare attenzione la dimensione territoriale, introducendo esplicitamente un concetto quale quello di “distretto biologico”.
Tale definizione appare nel testo preliminare del Decreto Legislativo di settore presentato dal MiPAF nel maggio 2004 e nelle “Linee guida per la redazione del Piano d’Azione nazionale per l’agricoltura biologica” pubblicate nel settembre dello stesso anno. In questo secondo documento vengono indicati come obiettivi strategici il rafforzamento e la qualificazione delle filiere, per il conseguimento dei quali si propone un approccio di tipo territoriale alla conversione al metodo biologico, attraverso “la formazione di sistemi integrati territoriali (distretti biologici)” (1). Successivamente, il Disegno di Legge presentato dal MiPAF e approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 aprile 2007 (Disposizioni per lo sviluppo e la competitività della produzione agricola ed agroalimentare con metodo biologico) dedica al distretto biologico uno specifico articolo. La definizione più recente, e probabilmente definitiva, è contenuta nel testo base del nuovo disegno di legge “Agricoltura biologica” del 29/11/2007 il cui art.7, intitolato proprio “Distretti biologici”, specifica i termini di questo soggetto territoriale: “costituiscono distretti biologici i sistemi produttivi locali… a spiccata vocazione agricola ai sensi dell’art.13 del D.Lgs 18.05.01 n.228, e nei quali sia assolutamente preponderante: a) la coltivazione, l’allevamento, la trasformazione e la preparazione alimentare e industriale di prodotti con il metodo biologico…; b) la tutela delle produzioni e delle metodologie colturali, d’allevamento e di trasformazione tipiche locali”.
Tale definizione richiama la ormai consolidata visione del distretto quale sistema produttivo locale, caratterizzandolo in senso agricolo e connotandone una declinazione “biologica” nel caso in cui si manifesti una presenza “assolutamente preponderante” di processi di produzione e trasformazione certificati biologici o tutelati in ragione della loro tipicità territoriale. L’esplicito riferimento all’art.13 del D.Lgs 228/01 riconduce il distretto biologico ai “distretti rurali” e ai “distretti agroalimentari di qualità” (2). Tuttavia, se l’inquadramento del distretto biologico all’interno dei sistemi produttivi locali agricoli non origina questioni particolari, meno immediato è stabilire se esso debba possedere i caratteri del distretto rurale o agroalimentare di qualità e, pertanto, di quale dei due vada considerato una particolare tipologia.
Il testo del D.Lgs 228/01 attribuisce al distretto rurale una connotazione principalmente territoriale (“identità storica e territoriale omogenea… tradizioni e vocazioni naturali e territoriali”) e al distretto agroalimentare di qualità una più accentuata specificità settoriale (“presenza economica, interrelazione e interdipendenza produttiva delle imprese agricole e agroalimentari”). Considerando che il distretto biologico è caratterizzato da processi agroindustriali biologici e da produzioni tipiche, è ragionevole assimilarlo ad un distretto agroalimentare di qualità. D’altro canto, appare eccessivamente drastico escludere a priori la possibilità che un distretto rurale possieda al suo interno i requisiti che lo configurano come un potenziale distretto biologico. Ciò può essere giustificato da due diverse considerazioni. La prima è legata all’impossibilità di operare una netta separazione fra distretti rurali e agroalimentari di qualità, data la inevitabile presenza di alcuni caratteri di ruralità all’interno dei distretti agroalimentari e, reciprocamente, l’esistenza di particolari rapporti settoriali, in particolare di tipo agricolo e agroindustriale, in un territorio identificato come distretto rurale. La seconda ragione, di tipo essenzialmente politico, riguarda la riduzione dei gradi di libertà concessi agli amministratori nell’identificazione dei territori che potrebbero beneficiare delle ricadute positive derivanti dall’istituzione di un distretto biologico. Si può concludere, allora, che i distretti biologici vanno individuati all’interno di sistemi produttivi locali a vocazione agricola che manifestano una tendenziale, ma non esclusiva, caratterizzazione agroalimentare di qualità.
La definizione normativa, oltre a specificare le condizioni che configurano un territorio come un distretto biologico, stabilisce il soggetto a cui viene affidato il compito di eseguirne l’identificazione: “le Regioni individuano, nei rispettivi territori di competenza, le aree da destinare a distretti biologici” (secondo comma, art.7).
Questa prescrizione, per il modo in cui è formulata, sembra introdurre una distinzione, sia logica che temporale, fra il momento dell’individuazione dei territori che possiedono i requisiti del distretto biologico e quello dell’istituzione del relativo soggetto territoriale. In altri termini, secondo questa chiave interpretativa, è ragionevole ipotizzare una prima fase in cui l’amministrazione regionale identifica le aree che rispondono ai requisiti indicati e una fase successiva nella quale, per ogni territorio individuato, viene verificata l’effettiva esistenza delle condizioni che permettono il conseguimento delle finalità indicate dalla legge e, solo in caso positivo, si procede alla istituzione di un distretto biologico.
Partendo da questa lettura, si è sviluppata una riflessione preliminare riguardo alla prima fase del suddetto iter procedurale, ovvero il criterio da utilizzare per l’individuazione delle aree che posseggono i requisiti del distretto biologico. A questo proposito è opportuno sottolineare come l’amministrazione regionale, qualunque metodologia intenda adottare, si trovi in condizioni di difficoltà, proprio per come è formulato il testo normativo, nel recepire eventuali istanze provenienti “dal basso”, ovvero da territori che si propongono autonomamente come distretti biologici.
A seguire viene presentata una prima ipotesi di lavoro, basata sulla definizione e la combinazione di alcuni indicatori di riferimento, e i risultati preliminari di una sua validazione empirica riferita alla Regione Lazio.
Individuazione dei potenziali distretti biologici
Si è in presenza di un sistema produttivo locale quando in un territorio si riscontra una “elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione residente” e una “specializzazione produttiva dell'insieme delle imprese” (art.36 della legge 371/91). E’ ragionevole presumere che in un sistema produttivo locale a carattere agricolo entrambi i requisiti si riferiscano a questo settore, il che porta alla scelta di indicatori relativi alla presenza di aziende agricole di piccole dimensioni e al peso relativo del comparto primario. Quest’ultimo può essere misurato rapportando il numero di occupati in agricoltura al numero di occupati totali (OCC_AGR), mentre la presenza di un tessuto distribuito di imprese agricole viene valutata attraverso l’incidenza delle aziende con una dimensione (fisica) che può essere ritenuta piccola e media (PMI_AGR).
Tralasciando, per le ragioni già esposte, la scelta di indicatori che possano configurare il distretto agricolo come “rurale” o “agroalimentare di qualità”, è necessario riuscire a caratterizzare la presenza di produzioni “biologiche”. L’indicatore selezionato a questo scopo può riferirsi alla superficie totale, a quella produttiva o al numero di aziende. Nonostante queste tre dimensioni possiedano un’elevata correlazione, esse guardano alla presenza di agricoltura biologica con un diverso taglio. Per tenere conto di ciascuna di esse è possibile definire un indicatore di sintesi che integri i tre aspetti mediando il loro valore quantitativo (IND_BIO).
Anche se non esplicitamente affermato nel testo normativo, il conseguimento degli obiettivi che si intendono perseguire attraverso l’istituzione di un distretto biologico è vincolato all’esistenza di un capitale umano in grado di condividerne le finalità e sostenerne le attività. Ciò richiede, fra l’altro, la presenza di un tessuto imprenditoriale caratterizzato da conduttori motivati, non eccessivamente anziani, o comunque con un sufficiente ricambio generazionale, e con una significativa propensione all’innovazione tecnica e commerciale. Indicatori utili a individuare questi aspetti sono l’età media degli imprenditori agricoli, il numero di insediamenti di giovani agricoltori e il tasso di crescita di forme innovative di conduzione aziendale, quale, ad esempio, l’adesione al regime biologico. Tali dimensioni possono essere combinate in un indicatore di sintesi che descrive la predisposizione e la tendenza all’innovazione in ambito agricolo all’interno di un territorio (IND_INN).
Per ciascun comune di una regione, una volta calcolato il valore assunto dai suddetti quattro indicatori, è necessario procedere alla valutazione della vocazionalità riguardo all’appartenenza a un distretto biologico. A questo scopo è possibile adottare differenti modalità, ognuna delle quali presenta dei limiti e può essere oggetto di critiche.
Il metodo proposto si basa sul riportare ciascuno degli indicatori ad un valore compreso fra 0 e 1 utilizzando una funzione costruita sulla media regionale dell’indicatore stesso e su dei limiti stabiliti in modo che il valore 0 indichi l’assenza del fenomeno descritto dall’indicatore, il valore 1 la sua piena presenza e i valori compresi tutte le situazioni intermedie (3). Ne consegue che, per un ipotetico comune, la condizione (1,1,1,1) rappresenta la vocazionalità massima (ideale), mentre la condizione (0,0,0,0) la minima (anti-ideale). Per ogni comune, allora, il livello di possesso dei requisiti per la sua inclusione in un distretto biologico è determinato dalla sua distanza dalla condizione di idealità.
E’ rispetto al risultato di tale misurazione che interviene la discrezionalità degli amministratori, la quale può esprimersi riguardo due differenti aspetti. Il primo è la scelta di soglie in base alle quali distinguere i diversi livelli qualitativi di vocazionalità (elevata, media, …); il secondo, certamente più importante, è la delimitazione dei potenziali distretti biologici, un processo nel quale la scelta dei criteri di contiguità territoriale e di inclusione di comuni con diversi livelli di vocazionalità gioca un ruolo decisivo.
La metodologia definita per l’individuazione dei potenziali distretti biologici all’interno di un territorio regionale è stata testata con riferimento al Lazio. A questo scopo sono stati raccolti tutti i dati comunali necessari alla costruzione dei quattro indicatori e, dopo aver riportato ciascuno di essi nell’intervallo 0-1, si è proceduto a valutare la misura della vocazionalità comunale rispetto ai requisiti di appartenenza a un distretto biologico. Utilizzando una metrica euclidea per il calcolo della distanza di ciascun comune dalla condizione di idealità e ripartendo tale distanza in quattro classi è stato determinato il livello di vocazionalità dei comuni del Lazio rappresentato nella cartina di figura 1.
Il risultato di questo approccio all’individuazione dei distretti biologici, anche se ancora del tutto preliminare, evidenzia come nel Lazio i caratteri di distrettualità biologica si manifestino esclusivamente nelle province di Viterbo e, in misura inferiore, di Rieti e come essi si esprimano pienamente solo nel territorio della Maremma Laziale.
Figura 1 - Livello di vocazionalità distrettuale biologica dei comuni del Lazio
Conclusioni
Le sintetiche riflessioni sviluppate in questa nota rappresentano un primo e parziale approccio alla nuova entità territoriale rappresentata dal distretto biologico e alle possibili modalità per procedere alla sua individuazione. Le incertezze sono ancora molte e non riguardano soltanto aspetti definitori e metodologici ma aspetti più cruciali quali le finalità dei distretti biologici, le figure proposte al suo funzionamento e, soprattutto, gli eventuali strumenti normativi e finanziari di cui questi potranno disporre. Fra le altre, due questioni appaiono centrali riguardo a un’effettiva capacità di questi soggetti territoriali di incidere in misura significativa sul settore agricolo e, più in generale, sui sistemi locali.
La prima riguarda il rapporto con gli elementi di pregio e rischio ambientale presenti sul territorio; appare, infatti, lecito chiedersi se la presenza di un elevato grado di qualità ambientale sia un prerequisito del distretto biologico o una sua finalità. La questione non è irrilevante in quanto condiziona in modo decisivo sia i criteri per la identificazione e l’istituzione dei distretti biologici, sia le loro strategie di programmazione e di intervento.
L’altro punto centrale concerne gli effettivi margini che il distretto avrà a disposizione per poter svolgere un ruolo riguardo la promozione e le forme di commercializzazione dei prodotti biologici del territorio. Su questo ultimo aspetto, a nostro avviso, dovrebbe concentrarsi una parte significativa dell’azione di questo soggetto territoriale, puntando a sollecitare, incentivare e sostenere tutte le possibili iniziative finalizzate allo sviluppo del mercato locale e alla diffusione di una cultura della sostenibilità ambientale.
Note
(1) Si veda ISMEA, “L’evoluzione del mercato delle produzioni biologiche”, ISMEA, Luglio 2005.
(2) Al momento, sono diverse le Regioni che hanno provveduto a legiferare sul tema dei distretti agricoli; per una sintesi delle leggi regionali si rimanda a Tarangioli S., “I distretti rurali ed agro-alimentari di qualità”, Bollettino INEA “Politiche Strutturali per l’Agricoltura”, n. 24, 2006.
(3) E’ questo un classico metodo di misurazione dell’aderenza di un elemento (in questo caso un’unità territoriale) a un concetto verbale (in questo caso il fenomeno rappresentato dall’indicatore) basato sulla teoria degli insiemi fuzzy. Per un approfondimento su questo approccio alla misurazione dei fenomeni territoriali ci si permette di rimandare a Franco S., Senni S., “La modulazione territoriale delle politiche di sviluppo rurale: una proposta metodologica” in Arzeni A., Esposti R., Sotte F. (a cura di), “Politiche di sviluppo rurale tra programmazione e valutazione”, Franco Angeli, 2003.