Sessant’anni di Europa e Pac: il nuovo che c'è e il vecchio che è rimasto

Sessant’anni di Europa e Pac: il nuovo che c'è e il vecchio che è rimasto

Abstract

La Pac è stata il principale e, fino agli anni Ottanta, l’unico esperimento compiutamente realizzato di politica comune europea. Sulla Pac si sono definite le regole, si è formata la prassi, si è rodata la governance dell’Unione. Ma da lungo tempo ormai le ragioni fondative originali della politica agricola comune hanno perso consistenza. Sono infatti emersi nuovi bisogni che avrebbero richiesto modifiche sostanziali. Con qualche taglio di spesa e molti rimaneggiamenti, la Pac ha comunque fin qui resistito. Le più accreditate analisi scientifiche da almeno vent’anni concordano nel giudicarla inadeguata per il perseguimento degli obiettivi che si propone, oltre che estremamente complessa. A leggere però i testi con cui è stata impostata la riflessione per dopo il 2020, nel confronto interno agli addetti e nelle parole del Commissario Hogan, ancora una volta non sembrano prospettarsi modifiche sostanziali.
A fronte di ciò, nell’Unione europea si sono imposti nuovi obiettivi generali che vanno da sicurezza e contrasto al terrorismo a gestione dell’immigrazione; da occupazione, rilancio economico e stabilizzazione macroeconomica a transizione verso un’economia sostenibile. Su questi obiettivi si concentrano i documenti sulla strategia per il futuro dell’UE. La politica agricola non viene neanche menzionata, mentre ad essa si fa riferimento nei testi che trattano delle risorse finanziarie dell’Unione, criticando la spesa Pac per lo scarso “valore aggiunto europeo” e per il suo ammontare ritenuto ancora eccessivo. Da pilastro fondativo della Comunità europea, e quindi dell’UE, la Pac si è isolata dal resto delle politiche dell’Unione ed infine si è trasformata in un problema per l’integrazione, mentre altre priorità rilevanti ed urgenti mirano al suo budget per attingere fondi.
È evidente la discordanza tra il confronto sulla Pac svolto all’interno degli ambienti responsabili agricoli e quello sul futuro dell’Unione che coinvolge i vertici della Commissione, il Consiglio e il Parlamento europeo.
L’articolo sviluppa i temi qui succintamente indicati ripercorrendo la storia della Pac dalle origini ad oggi.

Introduzione1

Questo articolo risponde ad una sollecitazione. Quella di celebrare l’uscita del numero 50 di Agriregionieuropa con una riflessione sul ruolo della Pac in Europa nell’occasione del 60° anniversario del Trattato di Roma. La ragione è, da un lato, quella di documentare le critiche che, fatti salvi i meriti, le sono state indirizzate fin dal suo avvio e, dall’altro, di comprendere le ragioni che, nonostante tutto, hanno permesso a questa politica di consolidarsi e perpetuarsi. Al tempo stesso, obiettivo di questo lavoro è mettere in evidenza gli elementi di continuità che legano l’attuale Pac alle sue origini, pur nelle profonde trasformazioni delle quali è stata oggetto.
È un esercizio di ricostruzione storica che riteniamo necessario per comprendere meglio l’odierna politica agricola e di sviluppo rurale europea e per partecipare con maggiore consapevolezza alla riflessione sul futuro della Pac nel futuro dell’Europa.

Il ruolo della Pac nella fondazione della Comunità Economica Europea

A dimostrazione di quanto la Pac abbia giocato un ruolo fondamentale nella costruzione europea bastano pochi riferimenti. Nel Trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità economica europea, l’“instaurazione di una politica comune nel settore dell’agricoltura” è menzionata già nei Princìpi all’art. 3, contestualmente alla creazione del Mercato comune europeo. In seguito, dopo il Titolo I dedicato alla “Libera circolazione delle merci”, il corposo Titolo II è denominato “Agricoltura”, consiste in 10 articoli, e precede addirittura il Titolo III “Libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali”.
La Pac ha dunque fin dall’inizio una posizione centrale, che si spiega con la assoluta necessità di includere anche l’agricoltura nel mercato comune, superando i preesistenti protezionismi nazionali con una soluzione unitaria. Ma molte altre sono le ragioni. Innanzitutto il convergente interesse della Francia all’apertura del mercato agricolo, per sfruttare il suo notevole potenziale, e della Germania ad ottenere in cambio l’apertura del mercato europeo per i suoi prodotti industriali. In Germania, d’altra parte, era ancora particolarmente vivo il ricordo della cruda fame sofferta durante la guerra e anche dopo la cessazione delle ostilità. Non a caso tra le finalità della Pac c’è quella di “garantire la sicurezza degli approvvigionamenti” e “assicurare prezzi ragionevoli nelle consegne ai consumatori” (art. 39 del Trattato).
Occorre poi tenere conto della condizione di particolare ritardo e disagio in cui si trovava l’agricoltura dopo la guerra per cui “incrementare la produttività dell’agricoltura”, “assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola” e “stabilizzare i mercati” (ancora art. 39 del Trattato) rispondeva (Swann, 1970; Zeller, 1971) a più obiettivi: (a) compensare gli squilibri tra città e campagna e gli svantaggi strutturali, a scapito dell’agricoltura, nella distribuzione intersettoriale dei benefici della crescita economica che, nell’immediato dopoguerra, era concentrata nelle città e sui grandi sistemi di fabbrica; (b) regolare l’esodo dall’agricoltura, rendendo disponibile (nei tempi e nelle quantità più opportune) il lavoro per le necessità industriali, contenendone il costo; (c) consentire agli Stati Membri (SM) di concentrare le proprie risorse sullo sviluppo industriale, trasferendo le competenze sulla Pac a livello comunitario; (d) avviare concretamente una prima politica europea, dopo il fallimento, per il rifiuto francese nel 1954, del tentativo di costituire la Comunità europea di difesa (Ced); (e) assicurare il sostegno delle campagne ai partiti favorevoli alla nascita della Comunità e stabilità ai governi, in contrapposizione alle posizioni generalmente critiche o ostili delle componenti operaie (i Partiti Comunisti che ne costituivano la massima rappresentanza in Italia, così come in Francia, si opposero all’istituzione della Cee) (Lambert, 1976).
La Pac è nata dunque come una assoluta priorità del Trattato di Roma. Ad essa avrebbero dovuto seguire, a poca distanza di tempo, altre politiche comuni: per l’industria, i trasporti, la circolazione dei capitali, ecc.) per realizzare una sempre maggiore integrazione e istituire infine, nel giro di pochi anni, una Federazione di Stati. Ma gli anni Sessanta sono per la Comunità particolarmente difficili: si ricorda la politica della “sedia vuota” della Francia nel 1965; l’atteggiamento prima critico e distaccato della Gran Bretagna e la sua successiva timida richiesta di adesione alla Comunità, che venne però bocciata dalla Francia nel 1967 per poi concretizzarsi nel 1973; la decisione infine di rallentare il processo di integrazione e mantenere la possibilità di veto ad ogni SM nelle decisioni del Consiglio (Swann, 1976). Contemporaneamente, anche il sostegno degli Usa si alleggeriva, in relazione al clima più disteso nei rapporti con l’Urss, dopo gli anni più difficili della guerra fredda.
Tutto questo ha reso decisamente più lento e incerto, e in certi anni messo addirittura in dubbio, l’avanzamento del progetto europeo. Per cui la Pac è rimasta per quasi tre decenni l’unica politica effettivamente comune, al punto che, intorno al 1970, circa il 90% delle risorse comunitarie globali era per la Pac e quindici anni dopo, nel 1985, la stessa quota era ancora pari al 72,9% (Fanfani, 1990)2. Mantenere viva la Pac diventa quindi presto non più un obiettivo imposto dalle necessità e dalle funzioni del settore agricolo, quanto un imperativo politico fondamentale per conservare in vita il progetto comunitario.
Come osservava all’epoca Giuseppe Barbero (1974): “L’aver voluto portare avanti rapidamente una politica agraria comune in assenza di politiche comuni dichiarate in altri settori dell’economia […] ha fortemente inciso sulle caratteristiche della politica agricola […]. L’agricoltura o, più precisamente, le decisioni riguardanti il settore, paradossalmente proprio perché hanno assunto un ruolo politico di grande importanza nello svolgimento dell'avventura europea, hanno finito per essere costrette in un gioco troppo stretto”. Lo stesso disegno originario della Pac si è così progressivamente modellato in funzione dei rapporti di forza, dove sono prevalsi gli interessi francesi e tedeschi e, pur di conservare con la Pac quel bandolo di progetto europeo che essa rappresentava, si sono progressivamente accettati compromessi rivolti ad assicurarsi, su di essa, il consenso più vasto e immediato possibile: (a) in primis viene rinviato nel tempo e ridotto ad un miserrimo impegno di bilancio il progetto di accompagnare la politica dei mercati con una adeguata politica strutturale (che sarebbe stata fondamentale soprattutto per affrontare l’arretratezza dell’agricoltura italiana)3; (b) il livello dei prezzi garantiti, iniziando dall’ Organizzazione Comune dei Mercati (Ocm) dei cereali e poi a cascata su tutte le altre Ocm, prendendo a riferimento l’“azienda familiare sana” della Baviera, viene fissato ad un livello particolarmente elevato (con grande vantaggio soprattutto per i grandi produttori dell’agricoltura francese), trascurando l’impegno ad assicurare “prezzi ragionevoli” per i consumatori, e soprattutto innescando quella reazione che renderà rapidamente la Comunità europea eccedentaria in quasi tutti i prodotti agricoli protetti; (c) si trascureranno in gran parte le produzioni mediterranee di frutta, ortaggi freschi, agrumi, vino con la conseguenza (anche per grave responsabilità dei governi italiani, più attenti all’agricoltura padana che a quella del resto d’Italia) di concentrare i benefici della Pac sui prodotti dell’agricoltura continentale; (d) si favoriranno principalmente pochi grandi beneficiari dei territori già favoriti in termini di potenziale agricolo e di posizionamento rispetto ai mercati (il 20% che percepisce l’80% dei benefici), trascurando i territori interni e più periferici e le imprese agricole di minori dimensioni e con maggiori condizionamenti ambientali e problemi strutturali assegnando sostegni modesti e spesso inadeguati.

Il consolidamento nel tempo dei prezzi garantiti

Gli effetti a lungo termine di questo sistema sono stati particolarmente dirompenti, come era ben chiaro allo stesso Sicco Mansholt, ministro dell’agricoltura olandese fino al 1958, poi Commissario all’agricoltura fino al 1972 ed infine Presidente della Commissione tra il 1972 ed il 1973. Nel Memorandum del 1968, che accompagna il suo “programma Agricoltura 1980”, proponendo di correggere la Pac in direzione di una più energica politica strutturale, che però resterà di fatto attuata molto parzialmente, così si esprime: “[..] da sole, le politiche di sostegno dei prezzi e dei mercati non possono risolvere le fondamentali difficoltà dell’agricoltura. Queste politiche sono condizionate da strette limitazioni: se le si supera, i mercati saranno disorganizzati e il costo per la Comunità diventerà intollerabile”4 (European Communities, 1968). Rievocando diversi anni dopo il suo lungo periodo di impegno politico europeo, lo stesso Mansholt così si espresse: “non sono tanto orgoglioso del contributo che ho dato alla Pac, quanto piuttosto del sostegno che ho dato, attraverso la Pac, alla costruzione dell’Unione Europea”5.
Come era prevedibile, la Comunità europea si è trasformata così in pochissimi anni da prima importatrice di prodotti agricoli nel mondo a seconda esportatrice (dopo gli Usa), non senza pesanti conseguenze sul bilancio della Comunità ed anche sui rapporti della Comunità nei confronti degli Usa e di tutti i paesi del mondo con un potenziale agricolo maggiore di quello europeo e con costi di produzione più bassi. Finché infatti si era importatori netti, i dazi all’importazione applicati per tenere alti i prezzi interni generavano dei flussi attivi nel bilancio della Comunità, ma quando i prezzi garantiti hanno spinto le produzioni comunitarie oltre la capacità di assorbimento della domanda interna, la soluzione è stata quella di introdurre i sussidi all’esportazione (eufemisticamente chiamati “restituzioni”) in misura tale da colmare, in dumping, la differenza tra prezzi interni protetti e prezzi esterni liberi, e smaltire così le eccedenze nei mercati mondiali. In alternativa, le eccedenze sono state smaltite sotto forma di aiuti alimentari. Queste soluzioni si sono tradotte in oneri crescenti e sempre più gravosi per il bilancio della Comunità europea, fino a rendere la situazione rapidamente insostenibile.
Si è generata così una condizione decisamente perversa, i cui effetti condizionano l’agricoltura ancora oggi. Spinti dai prezzi garantiti, gli agricoltori sono stati indotti a specializzarsi nelle produzioni più protette e a farlo anche in condizioni tecnico-organizzative altrimenti scarsamente competitive. D’altra parte, la garanzia di prezzo induceva gli imprenditori agricoli a disinteressarsi delle relazioni di mercato: cioè agli sbocchi delle proprie produzioni, alle relazioni di filiera, ai rischi di mercato, alle possibilità di diversificazione, alle opportunità offerte dal marketing, ai mutamenti della domanda, alle relazioni tra qualità e prezzo, ecc. Dal momento che lo sbocco delle produzioni ed i relativi prezzi erano garantiti, gli imprenditori erano indotti a trovare semplicemente la combinazione ottima tra costi di produzione, da contenere, e rese, da accrescere. La Pac in questo senso ha drogato il sistema dell’agricoltura: Distogliendo gli agricoltori dalla necessità di confrontarsi con il mercato, ha rallentato la crescita imprenditoriale del settore.
Questo spiega un paradosso evidente. Nei comparti agricoli meno protetti (es. vino, frutta fresca, avicoli e suini, fiori6) nel corso dei decenni si è assistito ad una riorganizzazione complessiva della produzione e dell’offerta, tale da spingere le imprese all’intero sistema produttivo ad adeguarsi alle variazioni della domanda, all’allargamento dei mercati e all’ingresso di nuovi concorrenti. Mentre quelle che non hanno saputo tenersi al passo con le necessità di rinnovamento sono fallite o sono state assorbite. All’opposto, nei settori maggiormente protetti si è creata una situazione per cui, mentre alcuni grandi e grandissimi beneficiari lucravano ingenti rendite, tantissime imprese hanno continuato a produrre, pur non essendo in condizione di continuare la propria attività senza quel sostegno7. Mancando peraltro ai più piccoli e meno attrezzati una adeguata politica strutturale che consentisse loro di rinnovarsi tecnicamente e organizzativamente per competere e così garantirsi un reddito adeguato, anch’essi si sono aggregati ai grandi e grandissimi percettori in difesa dei piccoli aiuti che la Pac riservava loro. In questa condizione perversa si è consolidata nel tempo l’idea che il sostegno (questo sostegno) sia una necessità intrinseca dell’agricoltura, perfino un suo diritto. Che giustifica la permanenza di una politica specifica ed esclusiva per il settore primario, separata e non integrata rispetto alle altre politiche ed in competizione con esse nell’uso delle risorse.
Sarebbe stato necessario istituire, come peraltro Mansholt aveva evocato e tentato di avviare, una politica strutturale e di sostegno alle relazioni di filiera, volta ad assicurare condizioni di efficienza e di competitività tali da consentire un graduale abbassamento dei prezzi garantiti e di permettere all’Europa di realizzare i suoi obiettivi in mercati via via più aperti. Ma il costo del protezionismo era diventato rapidamente così esorbitante da esaurire le risorse finanziarie disponibili nel magro bilancio della Comunità. Così anche la volontà politica di muovere in questa direzione si era rapidamente esaurita.
Nel frattempo, si consolidava un potentissimo blocco sociale (ed elettorale) dei beneficiati della Pac, rappresentati a livello dei singoli Stati membri dalle organizzazioni agricole e dei proprietari fondiari e, a livello comunitario, dal Copa-Cogeca, ma anche dalle numerose lobby bruxellesi delle imprese agro-industriali ed agro-alimentari (e della grande distribuzione organizzata) beneficiarie anch’esse dei prezzi garantiti, per effetto della traslazione del sostegno lungo tutta la filiera8. Per non dire dell’euroburocrazia della DG Agri, che conta oggi 928 dipendenti9, del Comitato Speciale Agricoltura, dei Comitati di Gestione (uno per ogni Ocm), delle sezioni che si occupano di agricoltura (Nat) del Comitato Economico e Sociale Europeo e del Comitato delle Regioni, della Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo (Comagri) e così via.
La loro strenua difesa dei prezzi garantiti è stata vincente per circa trent’anni, attraversando varie vicissitudini: (a) l’instabilità monetaria internazionale con il conseguente riallineamento dei cambi e la conseguente introduzione delle “monete verdi” (Josling in Swinnen et al., 1988); (b) l’abbandono nel 1981 del cosiddetto “metodo obiettivo” di ricalcolo annuale dei prezzi garantiti in rapporto alle variazioni dei redditi agricoli (per questo scopo, nel 1965, era stata istituita la Rica), (c) la concessione dello sconto (rebate) alla Gran Bretagna (1984), esteso in seguito anche a Germania, Austria, Olanda, Svezia e Danimarca; (d) l’introduzione graduale di varie misure di contenimento dell’offerta: quote fisiche di produzione (1984), divieti di impianto (1976), prelievi di corresponsabilità (1979), limiti al carico di bestiame, set aside (1988), ecc.

L'illusione di riformare la Pac

Il Libro Verde della neo eletta commissione Delors nel 1985 segnalerà ancora una volta e con particolare forza l’insostenibilità di una tale situazione: “Se con la politica agricola la Comunità non riuscirà a dare un maggiore ruolo ai prezzi di mercato nel guidare l’offerta e la domanda, essa si infilerà via via di più in un labirinto di misure amministrative per la regolazione quantitativa delle produzioni.”10 (European Commission, 1985). La raccomandazione conseguente a questa analisi, è altrettanto esplicita: “Se si accetteranno i vincoli di una politica dei prezzi più market oriented e ci si affiderà di più al mercato, sarà possibile liberare nuove risorse per diversificare gli strumenti della Pac e creare nuovi sbocchi per la produzione agricola. Seguendo questa impostazione, agli agricoltori si chiederà di svolgere non solo ruoli tecnici, ma anche di essere manager e imprenditori”.11, e più avanti: "Il budget agricolo si è sempre più configurato come uno strumento di ridistribuzione del reddito, rispetto alla sua funzione originaria per la stabilizzazione dei prezzi e dei redditi […] Questo capovolgimento di ruolo da allocativo a ridistributivo è notevolmente inadatto per la Comunità. Le politiche dei redditi è più opportuno che siano esercitate a livelli più bassi di governo. Questo suggerisce di riservare alla Comunità le politiche allocative, trasferendo le funzioni distributive ai sistemi nazionali di mantenimento dei redditi, in condizioni controllate dalla Comunità.”12 (Padoa-Schioppa, 1987).
Ci vorranno altri sette anni prima di arrivare, con Mac Sharry nel 1992, ad una riforma della Pac e all’abbandono degli (alti) prezzi garantiti. Questa comunque si realizzerà in una condizione, ancora una volta, di separatezza rispetto alla profonda riforma del 1988 inerente alla politica regionale e di coesione, realizzata unificando la strategia dei fondi strutturali europei nel quadro della programmazione poliennale sostenuta dal Quadro Finanziario Poliennale (Multiannual Financial Framework).
Ma anche dopo l’abbandono dei prezzi garantiti, la squilibrata distribuzione del sostegno della Pac è stata sostanzialmente confermata, così come la sua proiezione ad obiettivi di breve periodo. Infatti, la diminuzione dei prezzi è stata bilanciata dall’introduzione dei pagamenti compensativi. Spostando l’onere del sostegno dai consumatori ai contribuenti, il peso finanziario dei pagamenti compensativi è rimasto così elevato da esaurire tutte le risorse (salvo la minima quota destinata alle cosiddette “misure di accompagnamento”) e rendendo impossibile la realizzazione della politica rivolta a “manager e imprenditori” evocata dal Libro verde di Delors. Al tempo stesso, la distribuzione dei fondi è rimasta inalterata. Salvo il marginale effetto livellatore del riferimento alla “resa media regionale” anziché a quella effettiva, la compensazione è stata piena. Nell’immediato, anzi, l’aumento dei prezzi mondiali conseguente, tra varie cause, anche alla stessa contrazione delle esportazioni europee, ha prodotto addirittura una sovra-compensazione a vantaggio soprattutto dei maggiori beneficiati del sistema dei prezzi garantiti.
Si disse allora (ma senza indicare un termine) che i pagamenti compensativi avevano la duplice funzione di rendere accettabile il cambiamento a chi altrimenti si sarebbe opposto e di accompagnare gradualmente l’agricoltura europea verso il disaccoppiamento. Una tesi che venne confermata fino alle soglie degli anni Duemila quando era ormai imminente la prospettiva dell’allargamento ad Est dell’Unione. Si tenga presente che l’ingresso dei nuovi dieci SM nell’Unione europea avrebbe comportato una crescita molto modesta del Pil (+7%) e una analoga variazione delle entrate complessive al bilancio, ma al tempo stesso la popolazione aumentava del 27%, la superficie agricola del 25% e il numero di agricoltori addirittura del 137%. Appariva evidente, come emergeva chiaramente da un rapporto redatto in collaborazione con la DG Agri da un gruppo di esperti (Buckwell et al., 1998, Buckwell, 2017), che nessuno dei tre principali elementi della Pac, nemmeno dopo la riforma Mac Sharry, si adattava ai Paesi dell’Europa Centro-Orientale: I quali non si vedeva perché, entrando nell’UE, dovessero ricevere i pagamenti compensativi, dal momento che in precedenza non avevano avuto i prezzi garantiti: “Sotto il profilo dell’interesse economico dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale, la Pac attuale è inadeguata con i suoi prezzi relativi alti, la sua gestione dell’offerta pesante e distorsiva e i suoi inappropriati pagamenti compensativi. […] Qui c’è un reale problema di credibilità. Se i futuri nuovi Stati membri non percepiranno con tangibile evidenza, prima del loro ingresso nell’Unione, che la Pac sta cambiando, quale strategia dovrebbero adottare se non quella di trarre profitto dal sistema di sostegno al mercato che in precedenza l’UE ha creato a proprio vantaggio?”13
Quel Rapporto suggeriva di passare dalla Pac ad una Carpe (Common Agricultural and Rural Policy for Europe) basata su quattro politiche: (a) Assistenza transitoria all’aggiustamento: in questa tipologia si prevedeva dovessero confluire le compensazioni di Mac Sharry, ipotizzando che esse dovessero diminuire dal un anno all’altro fino ad annullarsi entro una data certa, oltre che strettamente finalizzate a sostenere la ristrutturazione delle imprese in difficoltà a seguito dell’abbassamento dei prezzi e ad accompagnarle eventualmente verso altre attività lucrative; (b) Stabilizzazione dei mercati: che prevedeva l’abbandono definitivo di ogni forma di residuo protezionismo in vista di una azione di sola stabilizzazione dei prezzi; questa avrebbe dovuto consentire all’UE di assumere una posizione attiva in ambito dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (Wto), impegnandosi per una ulteriore liberalizzazione dei mercati e per associare a questa iniziativa di stabilizzazione le altre economie sviluppate (in primis gli Usa); (c) Pagamenti per la tutela dell’ambiente, del paesaggio e della cultura rurale: istituendo delle forme sostegno che, su base contrattuale, pagassero gli agricoltori per i maggiori costi e i minori ricavi derivanti dall’adozione di pratiche eco-compatibili; (d) Incentivi allo sviluppo rurale: integrati nella programmazione territoriale degli altri Fondi europei e finalizzati alla complessiva ristrutturazione dell’agricoltura e dell’ambiente rurale.
Il progetto della Carpe si sarebbe dovuto sviluppare gradualmente (per questo l’acronimo, che echeggia il latino carpe diem). Una progressiva diminuzione di fondi sarebbe stata realizzata nel tempo per le politiche con finalità di breve termine dell’Assistenza transitoria all’aggiustamento ed anche della Stabilizzazione del mercato (in rapporto ai progressi e al coinvolgimento di altri Stati a livello globale nell’azione di contrasto alla volatilità dei mercati). Le risorse liberate sarebbero confluite in maggiori fondi per la tutela dell’ambiente, del paesaggio e della cultura rurali e per gli incentivi allo sviluppo rurale, che sarebbero diventati con il tempo i principali asset strategici di uno sviluppo non più assistito, ma autosostenuto, dell’agricoltura e dei territori rurali. Da qui il progetto dei due pilastri della Pac: il primo con finalità settoriali dedicato ai mercati e ai redditi, il secondo con finalità territoriali per gli interventi strutturali, le misure agro-ambientali e la diversificazione e la qualità della vita nelle zone rurali. Gradualmente nel tempo si sarebbero spostate risorse dal primo al secondo pilastro, raggiungendo in pochi anni una almeno pari rilevanza in termini di risorse finanziarie.
Con queste idee il Commissario Fischler organizza nel novembre 1996 la prima Conferenza europea sullo sviluppo rurale a Cork. Ma la Conferenza di Cork sarà presto classificata come un non-event (una espressione che nel gergo comunitario identifica un avvenimento con scarse o nulle conseguenze politiche). La prospettiva di attivare con il budget agricolo una politica territoriale che integrasse l’agricoltura con il resto dell’economia e della società rurale aveva innescato una fortissima opposizione. Le tre “Cork fears” (le paure di Cork, così furono nominate) erano: (a) quella delle lobby agricole, timorose di vedere sfuggire verso altri beneficiari i fondi della Pac: “our money to the hairdessers!” (“i nostri soldi alle parrucchiere”) fu una espressione usata, temendo che categorie non agricole potessero accedere ai fondi Pac; (b) quelle degli SM contributori netti (Germania) di vedere nello sviluppo rurale una giustificazione (della Francia) per mantenere a proprio vantaggio il consistente budget alla Pac; (c) quelle interne alla Commissione UE della DG-Regio, timorosa di vedersi spogliata di proprie competenze dalla imponente ed ingombrante DG-Agri.
Per tanti lunghissimi mesi (da giugno 1996 a marzo 1998) il Rapporto Buckwell fu conservato in un cassetto, nonostante i giudizi, che venivano espressi agli estensori dai vertici della DG-Agri, fossero di notevole apprezzamento14. Fu chiaro il perché quando, il 18 marzo 1998, furono pubblicate le proposte dei Regolamenti attuativi di Agenda 2000. Questi avviavano effettivamente una Pac fondata su due pilastri, ma il cambiamento era soltanto di facciata: i pagamenti “compensativi” venivano rinominati pagamenti “diretti” ad intendere che la loro erogazione veniva consolidata e la loro graduale diminuzione nel tempo era talmente attenuata, che nella programmazione 2000-2006 soltanto il 10% circa del budget della Pac complessivo era riservato al secondo pilastro. Decisamente poco se si considera che in esso confluivano i fondi del vecchio Feoga orientamento e quelli delle cosiddette misure di accompagnamento della riforma Mac Sharry.
L’insoddisfazione di Fischler e della DG-Agri fu resa evidente dalla pubblicazione, nello stesso giorno, del Rapporto Buckwell integrale su European Economy, la rivista economica della Commissione (Buckwell et al., 1998). Fu interpretato come il segnale che, lasciando la parola agli esperti che lo avevano redatto, quello era il progetto al quale Fischler avrebbe voluto ispirarsi se solo avesse trovato il necessario appoggio nel Consiglio, nel Parlamento, tra gli SM e presso le lobby più influenti in materia agricola. Quello che Fischler invece riuscì effettivamente ad ottenere fu che venisse messa in calendario una Mid term review dopo tre anni di avvio della nuova politica agricola, sperando ovviamente in tempi migliori.

Una tempesta perfetta?

Nel 2003 Fischler ne approfitta per realizzare, come è noto, una significativa riforma, in base alla quale i pagamenti diretti, fino a quel momento ancora accoppiati, cioè collegati alle singole produzioni, venivano consolidati in un singolo Pagamento unico aziendale (Pua). Questo era distribuito sugli ettari eleggibili e, da quel momento, il disaccoppiamento tra sostegno e produzioni aziendali diventava effettivo, al punto che il diritto a percepire il Pua non veniva meno nemmeno nel caso di cessazione della produzione, salvo il mantenimento del terreno in “buone condizioni agronomico-ambientali”.
Sarebbe stata anche l’occasione per una consistente ridistribuzione dei fondi dal primo al secondo pilastro attraverso la modulazione. Anche perché Fischler era riuscito a contenere i tagli nel bilancio della Pac a livelli molto inferiori a quelli che inizialmente erano stati minacciati. Peraltro, nel frattempo, si era svolta, in novembre 2003 a Salisburgo, la seconda conferenza europea dello sviluppo rurale, riscuotendo questa volta un consenso più esteso della prima di Cork nel 1976 e nel 2004 sarebbero entrati nell’UE i dieci nuovi Stati membri dell’Est. In seguito ad essa, i fondi per lo sviluppo rurale sono stati aumentati dal 10 a 13% del totale Pac. La proposta iniziale di Fischler era infatti per un taglio del 20% ai pagamenti diretti a beneficio della politica di sviluppo rurale, che avrebbe portato immediatamente il secondo pilastro vicino al 30% del budget Pac. Ma ha ottenuto dal Consiglio e dal Parlamento europeo soltanto un ben più modesto taglio, crescente negli anni, dal 3% al 5%, accompagnato comunque da una esenzione per i numerosissimi beneficiari di un Pua inferiore a 5.000 euro. Nonostante questi limiti, comunque, quella riforma fu giudicata come un eccellente risultato: “the perfect storm” (la tempesta perfetta) (Swinnen et al., 2008). Fischler nell’occasione aveva infatti dimostrato notevole capacità negoziale nella Commissione, con il Consiglio e con i differenti gruppi di pressione. Di fatto, però, la riforma Fischler sanciva il principio che, all’atto dell’allargamento dell’Unione, la Pac sarebbe rimasta una politica separata dalle altre politiche europee ed avrebbe riservato un trattamento privilegiato agli agricoltori più ricchi della vecchia UE-15 e meno fondi a quelli più poveri dei nuovi SM. Una condizione che, per il maggiore peso che l’agricoltura ha in quei paesi, certamente pesa ancora oggi nell’affermazione delle posizioni anti-UE del Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) e nei tentativi di costituire un blocco antagonista di tutti gli SM dell’Est15.
Nella circostanza dell’allargamento dell’UE a 10 nuovi SM (dal 1 maggio 2004) e poi di Romania e Bulgaria dal 1 gennaio 2007, la questione del bilancio dell’UE e della destinazione dei suoi fondi viene affrontata in una serie molto importante di documenti. Il principale tra questi, è il Rapporto Sapir (Sapir et al., 2003) commissionato dal Presidente della Commissione Romano Prodi, in vista della definizione dei regolamenti per il periodo di programmazione 2007-2013. Questo documento è molto severo nei confronti della Pac. In un paragrafo intitolato “A shift away from agricultural expenditure” (via dalla spesa agricola) si propone “Una consistente riduzione dell’importo destinato all’agricoltura”16 sulla base di quattro ragioni: “Primo, la fetta dell’attuale Pac è così consistente che se non viene posta sotto stretto controllo, nessuna riallocazione delle risorse è possibile all’interno di un bilancio europeo quale l’attuale; Secondo, la Pac si è trasformata da politica allocativa, finalizzata a promuovere l’efficienza e la produzione, a politica distributiva per un particolare gruppo di cittadini;  [un compito – si dice nel testo - riservato in tutti gli altri settori agli SM].Terzo, le forti differenze di reddito, densità della popolazione e clima dell’Unione allargata implicano una notevole eterogeneità di preferenze tali da rendere molto difficile poter condurre un’unica politica di sviluppo rurale da Bruxelles; quarto, la Pac non appare compatibile con gli obiettivi di Lisbona, nel senso che il suo value-for-money in termini del contributo alla crescita dell’UE ed alla convergenza è più basso che nella maggior parte delle altre politiche”17 (Sapir, 2003). La proposta conclusiva del Rapporto è di ridurre drasticamente, nell’immediato a non più del 10% e in prospettiva al 5%, l’impegno della UE nei confronti dell’agricoltura, trasferendo agli SM il compito di occuparsi dell’eventuale sostegno dei redditi, nel rispetto delle regole europee sulla concorrenza.
A conclusioni non altrettanto radicali, ma similmente critiche sull’entità della spesa dedicata alla Pac (ed in particolare ai pagamenti diretti) e sulla sua scarsa efficienza ed efficacia giungono altri studi svolti negli stessi anni (Begg, 2007; Eureval, Rambøll Management, 2008; Ecorys, Cpb, Ifo, 2008, Grethe, 2008).
La riforma Fischler sarà completata a conclusione della cosiddetta “Health Check” della Pac nel 2009, dalla successiva commissaria Marianne Fischer Boel, la quale, consapevole delle difficoltà, ma ispirata alla stessa logica, ha proposto una modulazione del 13%, ma ha ottenuto soltanto un travaso di risorse dai pagamenti diretti alla politica di sviluppo rurale progressivamente crescente dal 7% al 10% da realizzarsi entro il 2013.

La Pac di oggi

Così, alle soglie della nuova programmazione 2014-2020, la distribuzione dei fondi Pac è ancora fortemente sbilanciata a favore del primo pilastro rispetto al secondo, e soprattutto i soli pagamenti diretti assorbono ancora oltre il 70% di tutti i fondi Pac. A questo riguardo, nel 2010, anno di avvio del confronto sulla Pac 2014-2020, un Gruppo di 23 autorevoli economisti agrari provenienti ciascuno da un diverso SM, pubblica una breve ma al tempo stesso decisa Dichiarazione in cui si legge: “Il costoso Pagamento unico aziendale conferisce un beneficio molto disomogeneo tra SM e singoli agricoltori, senza determinare una chiara distribuzione del reddito, lo sviluppo rurale o la protezione dell’ambiente. Il sostegno allo sviluppo rurale ed alla protezione dell’ambiente è spesso malamente giustificato e implementato in modo inefficiente. Inoltre, i restanti elementi del vecchio sostegno di mercato rimangono problematici per i partner commerciali dell’UE […] indebolendo la posizione negoziale dell’UE e i suoi sforzi per smantellare nel mondo le politiche eccessivamente protettive”18 (Anania et al. 2010).
La proposta del gruppo è una Pac profondamente riformata in direzione della remunerazione dei beni pubblici prodotti dagli agricoltori a beneficio di tutta la società e non remunerati o non sufficientemente remunerati dal mercato: protezione ambientale, preservazione del paesaggio, standard alimentari europei più elevati che nel resto del mondo, sviluppo rurale. Al tempo stesso, la Dichiarazione giudica che altri potenziali obiettivi della Pac (spesso evocati a sua giustificazione) possano essere meglio affrontati con soluzioni diverse dalla Pac: (a) l’efficienza economica e la competitività con politiche che mirino al buon funzionamento dei mercati e con la politica europea di ricerca e sviluppo; (b) la sicurezza alimentare con politiche di investimento in infrastrutture e in ricerca e sviluppo nei Pvs; (c) il sostegno dei redditi con politiche sociali da affidare per l’agricoltura alle responsabilità dei singoli SM, sotto la sorveglianza dell’UE a garanzia del mercato unico.
Affermando in conclusione che una tale riforma della Pac sarebbe “un passo importante per costruire una Unione europea più efficiente che conquisti e mantenga il sostegno dei cittadini”19 la Dichiarazione rievoca implicitamente il tempo in cui la Pac effettivamente ha avuto un ruolo fondativo nella costruzione europea e indica una direzione per reintegrare la Pac nella politica dell’UE.
Siamo arrivati al tempo presente e alle decisioni assunte con i regolamenti del dicembre 2013, relativi alla programmazione 2014-2020. Questa volta l’iter è stato più articolato e complesso per l’applicazione della procedura di co-decisione prevista dal Trattato di Lisbona anche per la Pac. Ma già dall’inizio era chiaro che i moniti per una riforma sostanziale della Pac, che rivedesse i nodi di fondo, non sarebbero stati ascoltati. Nonostante, infatti, il documento di impostazione della riforma del 2013 annunciasse una intenzione riformatrice piuttosto radicale, proponendosi di contribuire alla Strategia “Europa 2020”: “La politica agricola comune è chiamata ad affrontare una serie di sfide, talvolta uniche per la loro natura, talvolta impreviste, che costringono l'UE a fare scelte strategiche per il futuro a lungo termine del settore agricolo e delle zone rurali” (Commissione Europea, 2010). Tutto il resto del documento (corrispondendo fin dall’incipit della riforma alle pressioni conservatrici) era improntato al mantenimento del sistema dei pagamenti diretti, sacrificando piuttosto la politica di sviluppo rurale, ove i fondi disponibili per la Pac, come era prevedibile, fossero diminuiti.
Naturalmente per difendere il budget agricolo e la sua distribuzione, ancora una volta come in passato, si doveva escogitare una soluzione che, al tempo stesso, apparisse innovativa e corrispondente alle aspettative dei cittadini. L’escamotage, come è noto, è stato quello del frazionamento dei pagamenti diretti in diverse misure: greening, giovani, accoppiato, ecc. C’era poi da andare incontro alle aspettative dei nuovi SM dell’Est, penalizzati in termini di distribuzione dei fondi. A tal fine è stato adottato l’orientamento di fare convergere i pagamenti diretti verso un valore uniforme per tutti gli ettari di superficie agricola dell’UE. La scelta, per spartirsi in fondi della Pac, di pesare l’agricoltura dei singoli SM con gli ettari di Superficie agricola è stata una decisione molto criticabile che, ancor più che in passato, rende evidente la preferenza accordata dalla Pac alla rendita (fondiaria) rispetto all’impresa e al lavoro (Sotte, 2017b).
È questa una scelta molto vantaggiosa per gli SM con agricolture estensive (Francia, Germania, Paesi nordici, ed anche Spagna), ma che ha penalizzato notevolmente l’Italia nella ripartizione dei fondi Pac, ancor più di quanto già non lo fosse, e che la penalizzerà ulteriormente, ove questo criterio di ripartizione verrà confermato dopo il 2020 (Sotte, 2017,a).
Sul complesso delle proposte si è pronunciata preventivamente nel 2012 anche la Corte dei Conti Europea: “Nonostante si sia enunciato di puntare ai risultati, la politica resta fondamentalmente basata sugli input (orientata cioè alla spesa), e quindi più mirata alla conformità che alle performance. In particolare, gli obiettivi fissati per i pagamenti diretti agli agricoltori nel quadro della Pac non sono precisati negli articoli del regolamento, né lo sono i risultati attesi, l’impatto e gli indicatori. Per lo sviluppo rurale, nel regolamento è fissata una ampia varietà di obiettivi, ma ugualmente non sono precisati i risultati attesi, gli impatti e gli indicatori. Similmente, gli obiettivi e i risultati attesi dell’eco-condizionalità e della misura del greening nei pagamenti diretti non sono adeguatamente definiti. L’esplicitazione di questi elementi aiuterebbe a rendere la politica più mirata verso i risultati desiderati.”20 (European Court of Auditors, 2012).
In effetti, cambiando soprattutto l’apparenza, ma non più di tanto la distribuzione dei fondi, l’approccio minimalista ha consentito al Commissario Ciolos di salvare ancora una volta il budget. La Pac subisce infatti un taglio tutto sommato modesto, almeno rispetto ai timori della vigilia (-14% circa). Ma la difesa dello status quo ante ed in particolare della distribuzione dei benefici dei pagamenti diretti è stata tale da invertire la prassi ormai consolidata nel tempo di spostare gradualmente con la modulazione fondi dal primo al secondo pilastro. Anzi, all’opposto, pur di limitare al massimo il taglio ai pagamenti diretti, il corrispondente taglio operato sul secondo pilastro è stato maggiore (-18%) ed in più, tra le misure della politica di sviluppo rurale sono state incluse anche quelle per la gestione del rischio, tipico tema da primo pilastro, rese urgenti dalla accresciuta volatilità dei mercati.
Nonostante i modesti cambiamenti comunque l’elaborazione della riforma dalle proposte iniziali ai regolamenti definitivi, passando per la co-decisione, è stata talmente articolata e complessa da richiedere tempi molto più lunghi di quanto inizialmente previsto. Il rischio di non riuscire a chiudere entro il 2013 e di andare alle elezioni europee senza la riforma è stato evitato in zona Cesarini trasferendo agli SM molte fondamentali decisioni sull’applicazione dei pagamenti diretti. Il risultato è che oggi nel primo pilastro, che ha diretta influenza sulla competitività dei sistemi agricoli, abbiamo tante politiche differenti tra uno SM e l’altro, contravvenendo alle regole del mercato unico (Sotte, Bignami, 2015). L’entrata in vigore dei nuovi pagamenti diretti è stata comunque procrastinata di un anno al gennaio 2015; ed anche la politica di sviluppo rurale, di fatto, è entrata in funzione ben oltre l'iniozio del settennio, nel 2015 e 2016.
Le reazioni alla Pac 2014-2020 non si sono fatte attendere. Nell’immediato i notevoli cambiamenti di facciata vengono giudicati con notevole severità: “una tempesta imperfetta” “in una valutazione complessiva si è più prossimi allo status quo che ad una significativa riforma”; “L’esito del processo decisionale è stato deludente”; “Il processo è stata una opportunità persa”; “La riforma è una conchiglia vuota”21 (Swinnen et al., 2015). Man mano che poi i regolamenti venivano applicati emergeva l’estrema complessità e farraginosità della soluzione adottata. Con analogo approccio critico si sono aggiunte in seguito altre valutazioni tanto sui pagamenti diretti (Matthews, 2016) che sulla politica di sviluppo rurale (Dax, Copus, 2016). Ancor più di recente, un documento della Rise Foundation (Buckwell et al., 2017) si esprime con parole nette: “L’attuale politica […] non è adatta alle imprese agricole vitali che stanno gestendo in modo sostenibile le risorse rurali dell’Europa. Non aiuta in modo adeguato gli agricoltori ad adattarsi alle sfide che debbono fronteggiare.”22 Suggerendo di istaurare una politica ispirata a tre obiettivi: “land management, risk management and rural development”, gli autori lamentano che “Si dà troppo peso agli inefficienti, inefficaci ed iniqui pagamenti diretti del primo pilastro. Essi debbono essere sistematicamente ridotti in un periodo di tempo predefinito e la loro risorse debbono essere mobilitate per fornire una assistenza mirata che aiuti gli agricoltori a fronteggiare le sfide specifiche della crescita delle produttività, dell’uso efficiente delle risorse e della gestione del rischio, e al tempo stesso paghino gli agricoltori per la fornitura di specifici beni pubblici”23.

Il futuro della Pac nel futuro dell’UE

A conclusione di questo excursus sui sessant’anni dell’Unione europea, la prima lezione da trarre riguarda la "perennità" della Pac (Delorme, 2004).
Una politica che, per adattarsi ai tempi, è profondamente cambiata negli anni. Siamo passati dai prezzi garantiti, alle compensazioni, poi dai pagamenti accoppiati ai pagamenti unici aziendali, infine ai pagamenti frazionati per obiettivi in pagamento base, greening, giovani ecc. Si era partiti con una politica centralistica e di mercato, esclusivamente settoriale e principalmente protezionistica. Si è introdotto un secondo pilastro guidato da una programmazione territoriale pluriennale con obiettivi strategici riferiti alle strutture, all’ambiente e ai contesti socio-economici dei territori rurali e recentemente anche i pagamenti diretti sono stati in grande misura definiti e adattati alle esigenze nazionali. Sono diminuiti gradualmente i fondi (che comunque rappresentano ancora il 37,8% dell’intero bilancio UE in media 2014-2020), così come, d’altra parte, sono diminuiti gli agricoltori. Si è infine recentemente adottato il principio di una distribuzione dei pagamenti diretti in rapporto agli ettari di superficie agricola utilizzata, ma temperato da una graduale convergenza verso pagamenti ad ettaro uguali tra SM e tra beneficiari che, al ritmo del settennio 2014-2020, richiederà oltre vent’anni per compiersi.
Al tempo stesso, la Pac è una politica che, per molti altri aspetti non è mai cambiata. E questo, a nostro avviso, è ciò che più conta. È rimasta invariata la sua preminente proiezione al breve termine con pagamenti essenzialmente annuali volti inizialmente a garantire prezzi alti, poi a compensare le minori protezioni, infine a garantire redditi aggiuntivi, mancando invece di affrontare, se non marginalmente, i problemi strutturali dell’agricoltura e dei sistemi agro-alimentari. Non è cambiata la natura della Pac di prevalente sostegno alla rendita (di pochi grandissimi percettori) prima che all’impresa agricola e alla crescita imprenditoriale complessiva (Sotte, Baldoni, 2017). Questa è una peculiarità resa ancora più evidente dalla recente decisione di convergere, in prospettiva, verso un pagamento uniforme per ettaro di superficie agricola in tutta l’UE. Al tempo stesso, la distribuzione della parte preponderante del sostegno tra singoli beneficiari, tra tipologie di agricoltura e tra SM e territori è ancora sostanzialmente determinata dalle scelte operate negli anni sessanta; premiando in modo particolare: (a) l’agricoltura continentale a scapito di quella mediterranea; (b) le agricolture di pianura e delle grandi estensioni, rispetto alle agricolture di collina e montagna; (c) le agricolture estensive e ad alta meccanizzazione (e quindi ad alti consumi di energie non riproducibili), rispetto a quelle intensive di lavoro e ad alto valore aggiunto; (d) le agricolture orientate piuttosto alle produzioni di commodity standardizzate, che ai prodotti tipici e di alta qualità.

Infine si è sempre confermata l’“eccezionalità” della Pac nell’Unione europea. La Pac è nata precedendo di decenni tutte le altre politiche e, successivamente, tutte le riforme più importanti che l’hanno riguardata sono state adottate, anche nei tempi, in condizioni di separatezza dai grandi momenti riformatori dell’Unione: la riforma Mac Sharry nel 1992, quattro anni dopo la grande riforma dei fondi strutturali e l’introduzione della poliannualità del bilancio; la riforma Fischler nel corso della Mid term review del 2003, il suo completamento a seguito dell’Health check del 2009. Anche per colpa dei governi nazionali e delle istituzioni europee, che hanno scelto spesso di occuparsi di altro, questa condizione ha assicurato il consolidamento in sua difesa di un blocco sociale potentissimo che le ha consentito di non integrarsi e di non doversi confrontare con le altre priorità dell’Unione.
È questa una circostanza che influisce anche sulla discussione da poco avviata sulla Pac post-2020. I documenti strategici sul futuro dell’UE neanche la menzionano, mentre indicano per l’Unione altre priorità: sicurezza, gestione dell’immigrazione, controllo delle frontiere, contrasto al terrorismo, difesa, lotta alle discriminazioni, occupazione e rilancio economico, riduzione del divario sociale ed economico tra paesi, riforme strutturali, stabilizzazione macroeconomica, transizione verso modelli di crescita sostenibili (Commissione europea, 2017). Qualche riferimento lo si rinviene nel documento di riflessione sul futuro delle finanze dell’UE, dove si criticano soprattutto i limiti della attuale Pac “il cui futuro, nell’ambito del più generale contesto europeo, è inesorabilmente limitato alla necessità di mettere a disposizione risorse finanziare in favore di altre priorità” (Pupo D’Andrea, 2017).
Come abbiamo tentato di documentare, queste severe analisi non sono affatto nuove nei giudizi di chi si pone il problema del futuro dell’Unione europea. Esse trovano un riscontro altrettanto critico e, al tempo stesso, particolarmente preoccupato per il futuro dell’agricoltura, nell’analisi scientifica dei maggiori esperti di economia e politica agraria europea. Ma, a fronte di tutto questo, non sembra che il confronto da poco avviato sulla Pac post-2020, ne abbia preso atto. La parola “riforma” non compare affatto nei testi di avvio del confronto fin qui pubblicati, si preferisce parlare di “modernizzazione” e “semplificazione” della Pac, d’altra parte il Commissario Hogan ha esplicitamente e preventivamente affermato che “Nonostante l’enfasi sulla necessità di misure appropriate per assicurare una maggiore resilienza sui mercati, sono anche determinato a mantenere un sostegno di base al reddito ed una efficace rete di sicurezza attraverso un sistema di pagamenti diretti”24 (European Commission, 2017).
Peraltro, i tempi sono ormai ristrettissimi: a maggio 2019 ci saranno le elezioni del Parlamento europeo e alcuni mesi prima si fermerà ogni attività normativa; poi in ottobre 2019 si rinnoverà la Commissione. Per tentare di arrivare ad una conclusione, con i tanti problemi comunque aperti anche solo per una semplice manutenzione di questa Pac, toccherà fare i salti mortali (Matthews, 2017), e chissà se si arriverà in tempo? Non ci sono i tempi, dunque, né le condizioni per un progetto più ambizioso. Interpretando Hogan, meglio trovare le convergenze su una soluzione minimale e difendere il budget, contando che poco cambi anche nelle altre politiche e nel bilancio complessivo dell’UE. Poi chi vivrà, vedrà! Così si rinvierà la sempre più urgente riforma della Pac di qualche anno ancora.
A questo riguardo, una recentissima presa di posizione del Partito Popolare Europeo sul futuro della Pac propone che, di fronte alle incertezze della Brexit: “Piuttosto che procedere ad una riforma frettolosa, la Pac attuale dovrebbe continuare fino al 2024. Questo consentirebbe di separare la riforma della Pac dalla discussione finanziaria”25. (European People’s Party, 2017).
Quello che avverrà dopo 2020 è ovviamente imperscrutabile. Tutto dipenderà dall’andamento delle elezioni europee e dalla propensione degli SM ad avviare con rinnovato impegno, a cominciare dalla composizione della futura Commissione, un programma di rilancio dell’Unione europea. Perché l’“eccezionalità” della Pac che le ha consentito di perpetuarsi nelle condizioni che abbiamo descritto, dipende da due fattori.
Il primo è certamente la miopia dei circoli e delle lobby agricole, propensi (salvo poche eccezioni) più ad assicurarsi la fetta più ampia possibile del budget, che ad avviare un confronto su come il budget è efficientemente, efficacemente ed equamente impiegato; per contribuire così alla competitività delle imprese agricole, alla sostenibilità dei loro metodi di produzione e al consolidamento del sistema Europa, rispondendo in maniera efficiente, efficace ed equa alle esigenze dei cittadini e dei contribuenti. Il secondo è lo scarso impegno negli ultimi decenni dei governi nazionali per una strategia di avanzamento della costruzione europea, nella quale integrare anche l’agricoltura e lo sviluppo rurale. Perché Pac e Unione europea marciano assieme e le contraddizioni dell’una si riflettono sull’altra e viceversa.

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  • 1. Una prima versione di questo articolo ha beneficiato significativamente dei preziosi commenti e suggerimenti di diversi colleghi e amici: Giuseppe Barbero, Alessandro Corsi, Roberto Esposti, Angelo Frascarelli, Maria Rosaria Pupo D’Andrea. Desidero ringraziarli sentitamente. Ovviamente la responsabilità di quanto scritto è esclusivamente mia.
  • 2. Il budget della Pac era pari ancora al 60% nel 1988, anno dell’avvio della programmazione poliennale europea e della grande riforma dei fondi strutturali, che allora pesavano solo il 17%. Nel 1992 si era al 52%. Nel 1999, al tempo di Agenda 2000, alla Pac andava ancora il 45% (Sapir et al., 2003).
  • 3. Tanto che al Feoga-orientamento venne destinata negli anni una quota intorno al 5% del budget della Pac, mentre al Feoga-garanzia andava l’altro 95%.
  • 4. “[…] market and price support policies alone cannot solve the fundamental difficulties of farming. These policies are subject to narrow limits; if these are exceeded, markets will be disorganized and the cost to the Community will be intolerable”.
  • 5. Testimonianza dell’autore in un incontro con Sicco Mansholt ad Ancona nei primi anni Novanta.
  • 6. Effettivamente per alcuni decenni, fino a tutti gli anni ’80, alcune misure di garanzia sono state adottate anche per il vino (distillazione) e per l’ortofrutta (distruzione), ma gli effetti distorsivi sono stati molto più modesti. Con gli anni ’90 poi anche quelle misure sono state rimosse.
  • 7. Sulla base dei dati Rica, la quota di reddito aziendale dipendente dai pagamenti diretti nell’UE-27 (2011-13) è pari al 55% per le colture arabili, cui si aggiunge un altro 13% dovuto ad altri sussidi. Per cui solo il 32% dipende da fattori di mercato. Le stesse percentuali sono rispettivamente pari a 70%, 31% e -1% per gli allevamenti erbivori da carne. All’opposto ai fattori di mercato è dovuto l’87% del reddito nel caso del vino e il 90% nel caso dell’orticoltura (Matthews in Buckwell et al., 2017).
  • 8. L’Ocse afferma che soltanto metà del sostegno nominale resti effettivamente nelle mani degli agricoltori (Oecd, 2003).
  • 9. Secondo uno studio dell’epoca, a metà degli anni Settanta, erano addirittura 1.900 (Lambert, 1976).
  • 10.Unless the Community succeeds in giving to market prices a greater role in guiding supply and demand within the agricultural policy, it will be drawn more and more into a labyrinth of administrative measures for the quantitative regulation of production.”
  • 11. If the constraints of a more market-oriented policy for prices and markets are accepted, it should be possible to release new resources, to diversify the instruments of the Cap, and to create new outlets for agricultural production. With this approach, farmers would be asked to accept a role not only as technicians, but as managers and entrepreneurs.”[/fn> (Ibid.).
    Il tema del ruolo e del peso della Pac nel bilancio dell’Unione viene ripreso due anni dopo dal Rapporto commissionato dal Presidente Delors ad un gruppo di studio guidato da Tommaso Padoa-Schioppa che così annota: “…L’insuccesso nel controllo della spesa agricola, oltre che essere implicitamente costoso, ha comportato problemi di “nanismo” in diverse altre politiche (cioè impegni di spesa troppo modesti per avere un impatto significativo), e controversie inerenti ai costi finanziari e alla politica commerciale.”“…the failure to control agricultural spending, apart from being very costly in itself, has led to problems of "tokenism" in some other Community policies (i.e. contributions towards policy objectives which are too small to be significant), and friction in relation to financial costs and trade policy.”
  • 12.The agricultural budget has increasingly developed into an instrument of income redistribution compared to its role for stabilising prices and incomes […] This reversal of roles from allocation to distribution is highly unsuitable for the Community. Income maintenance-functions are best discharged at lower levels of government. This would imply re-establishing a proper agricultural resource allocation policy at the Community level and integrating the distribution function more into national income maintenance systems on conditions controlled by the Community.”
  • 13.From the perspective of the economic interests of the Ceecs, the present Cap is unsuitable with its relatively high prices, its cumbersome and distortive supply management and inappropriate compensation payments. […] There is a real problem of credibility here. Unless prospective EU Member States can see tangible evidence that the Cap is changing prior to their accession, why should they plan on any other strategy than to capitalise on the market support systems the EU has created for itself?”.
  • 14. I continui rinvii (nonostante l’apprezzamento) della Commissione circa la divulgazione dei risultati dello studio avevano indotto alcuni componenti del gruppo Buckwell a pubblicare di propria iniziativa una raccolta di articoli divulgativi sui temi del lavoro svolto (Buckwell, Sotte, 1997; AA.VV., 1996).
  • 15. Questo riecheggia lo storico progetto “Intermarium”, dal Baltico al Mar Nero, del maresciallo Pilsudski.
  • 16.a very sizeable reduction in the amount devoted to agriculture”.
  • 17.First, the present share of the Cap is so large that unless it is brought under tighter control, no significant reallocation of resources within a EU budget of the current size is possible. Second, the Cap moved away from being an allocative policy, promoting efficiency and production, towards being a distributive policy for a particular group of citizens; Third, the large spread of income, population density and climate across the enlarged Union implies a large heterogeneity of preferences that makes it very difficult to conduct a single rural policy from Brussels. Fourth, the Cap does not seem consistent with the Lisbon goals, in the sense that its value-for-money contribution to EU growth and convergence is lower than what is targeted for most other policies.”
  • 18.The costly Single Farm Payment confers very uneven benefits on member states and on individual farmers, without fulfilling any clear income distribution, rural development, or environmental protection objectives. Support for rural development and for environmental protection is frequently poorly justified and ineffectively implemented. Furthermore, remaining elements of the Cap’s old market support mechanisms remain problematic for the EU’s trading partners, […] weakening the EU’s negotiating position in its efforts to dismantle excessively protective policies worldwide”.
  • 19.An important step in building a more effective European Union that wins and maintains the support of citizens.
  • 20.Despite the claimed focus on results, the policy remains fundamentally input-based (expenditure oriented), and therefore oriented more towards compliance than performance. In particular, the objectives established for direct payments to farmers within the framework of the Cap are not disclosed in the articles of the regulation, nor are their expected results, impacts and indicators. For rural development, a disparate and wide ranging set of objectives are laid down in the regulation which does not include either their expected results and impacts or relevant indicators. Similarly, the objectives and expected results of cross compliance and the ‘greening’ component of direct payments are not adequately defined. The disclosure of these elements would help to focus and target the policy on delivering the desired results”.
  • 21.An imperfect storm”; “The overall assessment is closer to a status-quo evaluation, than a significant reform”; “The outcome of the decision-making process was disappointing”; “The process has been a lost opportunity”, “The reform was an empty shell”.
  • 22.The current policy […] has not brought about viable farms that are sustainably managing Europe’s rural resources. It is not sufficiently helping farmers adapt to the challenges ahead”.
  • 23.Excessive weight is given to inefficient, ineffective and inequitable direct payments in pillar 1. they should be systematically reduced over a pre-announced period of time and resources switched to provide targeted assistance to help farmers face specific challenges of improving productivity, resource efficiency and risk management and to pay farmers to provide specific public goods.
  • 24.Despite the emphasis on appropriate measures to ensure greater market resilience, I am also determined to maintain basic income support and an effective safety net through a system of direct payments. That continues to be an essential element of the Cap.”
  • 25.Rather than a hasty reform, the current Cap should thus continue to 2024. This would allow separating the Cap reform from the financial discussions”.
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